Dove va Nichi Vendola?
 











Nel variegato mondo dell’opposizione antiberlusconiana gli ultimi giorni hanno visto succedersi diversi fatti rilevanti. Due sono i fuochi attorno ai quali si sono addensati gli eventi. Il primo è limitrofo al mondo berlusconiano stesso: il rinnovato attivismo delle gerarchie cattoliche (l’intervento di Bagnasco) e dell’establishment economico (il Manifesto delle imprese redatto da Confindustria, Rete Impresa Italia, Alleanza delle Cooperative, Abi e Ania) hanno dato voce ad un crescente disagio, arrivando al punto di invocare una esplicita discontinuità rispetto ai logori assetti esistenti.
Il secondo fuoco si posiziona all’altro capo dello spettro politico. L’incontro di Vasto fra Bersani, Di Pietro e Vendola ha tenuto a battesimo il Nuovo Ulivo (l’alleanza di “centrosinistra ristretto”, cioè non comprendente l’Udc di Casini), cui è seguita la consegna in Cassazione del milione e oltre di firme raccolte per il referendum “anti-porcellum” chepotrebbe tenersi nella primavera del 2012. Infine, il primo ottobre, il leader di Sinistra Ecologia e Libertà ha riempito piazza Navona a Roma rilanciando la sua battaglia per le primarie di coalizione e per la leadership dell’intero centrosinistra. Ma la strategia di medio periodo di Vendola è tuttora densa di incognite.
Il governatore della Puglia si trova in una situazione per certi versi simile a quella che ha visto protagonista Gianfranco Fini qualche anno fa. Riscuote un consenso personale ben più ampio della cerchia del suo partito: attualmente Sel è accreditata intorno all’8%, percentuale da forza di medio calibro paragonabile al 12% dell’Alleanza Nazionale post svolta di Fiuggi; tuttavia Vendola – come un tempo Fini – è molto apprezzato anche fra gli elettori degli altri partiti della coalizione (in particolare fra gli elettori del Pd), può contare su un enorme appeal mediatico che è tanto più valorizzato quanto più la battaglia politica si struttura su basipersonalistiche, vanta un’esperienza di governo che ha in parte contribuito a levargli lo stigma dell’“agitatore di piazza”, e infine si trova di fronte ad avversari interni dotati di una struttura – quella del Pci-Pds-Ds-Pd – che non è più la macchina da guerra di un tempo.
È del tutto evidente, infatti, che nel contesto di una ordinaria “fisiologia” politica non avrebbe senso indire primarie fra il leader di un partito con il 25%-30% e uno con dietro un comitato elettorale che pesa circa l’8% a livello nazionale. Se ogni elettore scegliesse chi votare sulla base delle indicazioni del proprio partito – di quello verso cui solitamente esprime la preferenza nelle elezioni politiche – vincerebbe a mani basse il rappresentante del partito più grande. Per questo, negli altri paesi, le primarie si fanno fra candidati di uno stesso partito e non fra candidati di partiti diversi. Se nel caso del centrosinistra italiano questo ragionamento funziona solo sulla carta è perché siamo di frontea una crisi della rappresentanza: le antiche logiche di appartenenza e le vecchie dinamiche di costruzione del consenso hanno subito smottamenti profondi ed irreversibili anche a livello territoriale.
Naturalmente occorre non estremizzare il discorso. Certi atteggiamenti naïf sulle virtù della non organizzazione e sulla potenza dell’assemblearismo digitale sono smentiti dai fatti quando debbono confrontarsi, e scontrarsi, con la durezza di una società civile occidentale riccamente innervata – diversamente dalle dittature patrimonialiste appena crollate nel mondo arabo – da una complessa articolazione di corpi intermedi (associazioni di categoria, sindacati, gruppi religiosi, lobby editoriali, poteri politici locali, movimenti di base più o meno strutturati, ecc.). Lo stesso miracolo della vittoria di Vendola alle “prime” primarie per le elezioni in Puglia, nel lontano 2005, dovrebbe essere valutato anche alla luce dei conflitti interni che allora caratterizzarono il campo dei suoiavversari (e la loro “artiglieria elettorale pesante”).
Al netto di queste considerazioni, il calcolo – ardito ma non infondato – di Vendola è quello di giocarsi in campo aperto la partita per l’egemonia del centrosinistra sfidando i suoi leader direttamente sul terreno della competizione individuale. Questa strategia ha comportato e comporterà in futuro alcune novità importanti rispetto alla storia della sua comunità politica di origine.
1. Sel, insieme all’Italia dei Valori, è stato il soggetto che più si è speso per la raccolta delle firme per il quesito “anti-porcellum”, un referendum che reintrodurrebbe un sistema sostanzialmente maggioritario da sempre avversato dalla cultura proporzionalista della sinistra di alternativa italiana (si noti che l’ex leder di Rifondazione Fausto Bertinotti aveva firmato il referendum di Stefano Passigli e non quello “pro-mattarellum”). Ma la sfida delle primarie ha senso solo in una cornice di coalizione stabile nell’ambito di un sistemabipolare. La strategia alternativa – ovvero quella di costruire un soggetto a sinistra del Pd, sul modello della Linke tedesca, capace di non subire il ricatto del voto utile grazie all’assenza di vincoli di alleanza – presupponeva un sistema proporzionale con governi che si formano in parlamento dopo il voto. Scenario che infatti piaceva anche a Casini e a D’Alema, ma al quale sembrano ormai venir meno le condizioni tanto all’interno quanto all’esterno del palazzo.
Rimane il rischio di ripetere l’errore compiuto dalle forze democratiche nel 1992/1993, quello di cavalcare l’indignazione popolare anti-Casta – allora la Casta si chiamava “partitocrazia” – trasformando la “questione morale” in “questione istituzionale” nel nome dello slogan “votare le persone e non i partiti”. Vendola scommette sulla possibilità di costituzionalizzare la protesta, incanalarla dentro una dinamica di rinnovamento civile: non a caso fra i principali bersagli polemici del suo discorso a piazza Navona c’èstato Diego Della Valle, che con il suo manifesto «Politici ora basta» è l’emblema di una campagna antipolitica funzionale alla discesa in campo dell’“Uomo di Impresa” contro i politicanti incompetenti (Montezemolo come Berlusconi nel 1994).
Per muoversi veloce in queste acque al governatore pugliese serve un vascello agile e leggerissimo. Da qui la riottosità dello stesso Vendola nell’investire davvero nella costruzione di Sel come struttura organizzata stabile e la sperimentazione di soggetti ibridi come “Le Fabbriche di Nichi”. E da qui anche l’incomparabile predominio mediatico della sua figura rispetto a quello di qualsiasi altro esponete della classe dirigente del suo partito (sul modello di ciò che avviene nell’Italia dei Valori e ben diversamente da ciò che accade nel Pd bersaniano).
2. Ad una leggerezza organizzativa è corrisposto fino ad ora anche una certa indeterminatezza programmatica. A parte alcune parole d’ordine come la patrimoniale – rilanciate anche a piazzaNavona, ma non più in grado di connotare l’originalità di un messaggio politico vista la velocità con cui la gravità della crisi travolge la radicalità delle proposte (ormai l’imposta patrimoniale la propone perfino Confindustria…) – Vendola vuole evitare di rimanere inchiodato ad una piattaforma rigida che è molto utile all’interno di dinamiche da trattativa, quando i rapporti di forza sono già determinati, ma non in vista di una possibile “opa ostile” in campo democratico, per la quale sarà necessario un profilo da “uomo di governo” capace di mediare fra tendenze e interessi diversi.
3. L’interrogativo sulla particolare “formula” di composizione degli interessi ci porta nel cuore del messaggio politico di cui il governatore pugliese si vuole fare portatore. È bene ricordare che diversamente da molti altri esponenti dalla sinistra radicale Vendola viene dal Partito comunista italiano. La sua non è la cultura “divisiva” propria dell’antagonismo dei movimenti extraparlamentari deglianni ’70, esplicitamente orgogliosa della propria “parzialità”, del suo nitido punto di vista di “classe”. La tradizione piciista-togliattiana è centrata sulla virtù della mediazione, degli “interessi nazionali”, dell’unità di azione con tutte le forze democratiche e popolari, finanche del tributo accordato alla Chiesa istituzionale per come è riconosciuta dalla massa dei fedeli e non solo nelle sue propaggini del cattolicesimo sociale, di base o del dissenso.
Nell’esperienza delle primarie regionali tale vocazione unitaria ha trovato la felice – e vittoriosa – incarnazione in un “etnicismo inclusivo” caratterizzato sul piano simbolico dal continuo riferimento alla Terra di Puglia, al Mediterraneo come crocevia di culture, agli stilemi folk sui quali è stato costruito anche il miracolo economico-turistico salentino. Il tutto in contrapposizione all’“etnicismo difensivo e armato” che ispira forze come la Lega Nord.
Ora Vendola è chiamato a tradurre questa intuizione in unlinguaggio nazionale. Lo sta facendo con un impasto di patriottismo costituzionale e di “neo-progressismo”. Nella narrazione vendoliana più recente – come lui stesso ama definire il racconto collettivo mobilitante – i riferimenti al «futuro» e al «cambiamento» sono continuamente contrapposti a quelli dell’«appartenenza» e della «staticità». È una sorta di “spaghetti-obamismo” l’arma con la quale il leader di Sel sta dando il suo assalto alla cittadella del centrosinistra italiano. Tanto nei toni, nelle suggestioni linguistiche, quanto nell’evocato progetto di una “patto fra produttori” fondato su innovazione, green economy e valorizzazione del capitale umano, lo stesso paradigma – sebbene dai contorni programmatici ancora vaghi – che ha costituito l’impalcatura dello «yes we can» di Obama. Anche questa una scommessa ad alto rischio, visto come la crisi sta mettendo in difficoltà le migliori intenzioni del primo presidente afroamericano d’America. Emilio Carnevali-micromega









   
 



 
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