Ringrazio Sergio Cesaratto per aver letto il mio intervento "Eurocrisi, non sparate su Berlino". Ma non sostengo, come egli mi addebita, che l’“austerità castiga i costumi viziosi e dissipatori della periferia, mentre il successo tedesco è tutto frutto di virtù e morigeratezza”. Intanto, quanto sott’inteso ipnotico nella parola “periferia”! Evoca in partenza il luogo dell’esclusione (ma quando è successo che l’Italia ha cominciato a denominarsi “periferia”?). La suggestione della parola suggerisce da sola da che parte debba stare la sinistra. Ma che succederebbe, invece, se dicessimo che i vizi non sono quelli della “periferia”, bensì quelli degli evasori fiscali, degli sfruttatori del lavoro nero, dei grandi patrimoni evasi, dell’elettorato di una classe politica irresponsabile? Tutto cambierebbe. Con il vantaggio di non cadere nel terreno, alquanto inadatto e razzistico, della natura degli italiani e dei tedeschi. Non voglio farel’elogio dell’austerità. Né assumo per principio che la posizione della Germania sia irreprensibile. Dico che bisogna guardare dentro casa nostra e non trasferire fuori il problema. Guardando fuori, si contribuisce a nascondere il punto centrale dell’agenda politica che oggi ci riguarda: il nostro debito pubblico – che non contiene diritti e welfare state, ma clientelismo e rendita – è possibile ridurlo drasticamente con interventi incisivi sulla deregulation all’italiana. L’agenda politica dovrebbe essere quella della patrimoniale, della lotta all’evasione fiscale e alla corruzione. La premessa della crescita è sbloccare un paese avviluppato e soffocato dalle rendite, quelle vere. Il problema reale è impietosamente ritratto nella vicenda delle frequenze televisive: il governo, che pure ha trovato la forza politica per imporre tagli severi e austeri ai soliti, non ha la forza politica per vendere le frequenze televisive (che sono comunque un affare per chi le compra) perché l’ex primoministro Berlusconi e Mediaset vorrebbero averle in regalo. Il rigore inteso come legalità (non, dunque, nel senso dell’austerità, dei tagli ecc.) non è in contraddizione con la crescita, ma ne è la condizione, sia perché permette di utilizzare le risorse che evaporano in evasione, corruzione, lavoro nero, sia perché sull’illegalità è seduta una classe dirigente inetta e incompetente, che è ragione non indifferente della nostra crisi economica. Non può, proprio la sinistra, puntare il dito sulla Germania, quando una normale politica fiscale (inclusa l’iva per la Chiesa) e la lotta contro la diseguaglianza permetterebbero di abbattere il debito in tempi rapidi, eliminandone la radice. Ho l’impressione che Cesaratto minimizzi il problema politico italiano del debito pubblico e ingigantisca la responsabilità tedesca nella crisi dell’euro. In questo modo, però, trasferisce il problema italiano fuori dell’Italia. Ne fa un pacchetto e lo spedisce oltre le Alpi, a Berlino, al “centro”. Ci dovrebbe dire qualcosa, invece, che la Germania e i paesi del Nord Europa hanno un welfare state infinitamente migliore del nostro, e hanno pure i conti in ordine. Cesaratto rimprovera la sinistra italiana perché “ha introiettato una sorta di senso di colpa per cui con un debito pubblico al 120% del PIL il paese non ha diritto a una voce in capitolo in Europa”. Ma perché questa espressione: “senso di colpa”? Dai “sensi di colpa” ci si dovrebbe liberare, se sono il frutto di una rigidità eccessiva, di un super-Io troppo ingombrate. Non mi pare proprio il nostro caso. Il “senso di colpa” la sinistra dovrebbe avercelo per aver contribuito a far sì che in quel 120% di debito ci fosse diseguaglianza e distruzione della finanza dello stato. E per non aver fatto nulla (e di non fare nulla) per cambiare le cose. Cesaratto mi chiede se non ritengo che l’opinione pubblica tedesca sia stata oggetto di un “lavaggio del cervello”: “Li hanno costretti a sacrifici per metter fuori mercatoaltre economie a cui hanno elargito crediti per vender loro merci, crediti ora inesigibili”. Se ben capisco: poiché il capitalismo tedesco avrebbe fatto profitti alle nostre spalle e alle spalle degli operai tedeschi, è legittimo chiedergli un “risarcimento”. Non solo, ma esigiamo con forza che si faccia più giustizia sociale anche in Germania! Non è vero dunque che l’Italia vorrebbe far pagare agli operati tedeschi i 20 anni di Berlusconi e i precedenti di clientelismo sfrenato; al contrario, li vogliamo liberare dal “lavaggio del cervello” a cui sono stati costretti dal loro “austero capitalismo”. Ci seguirà la base operaia tedesca? Ne dubito. In Germania, neanche a dirlo, è piuttosto diffusa la tesi opposta. Con l’euro, l’Italia e la Grecia hanno potuto ottenere crediti a tassi più vantaggiosi, ma invece di utilizzare questa opportunità per risanare le loro finanze, le hanno ulteriormente scassate per ragioni di potere, di clientelismo e corruzione. Onestamente, non èdifficile credere che abbiano ragione. E cambia poco nei fatti, ammesso pure che abbia un senso politico, assolvere la classe dirigente italiana o greca, individuando un interesse della Germania che avrebbe però venduto, a queste condizioni, più BMW, Mercedes ecc. Ha senso dire che avrebbero dovuto essere meno competitivi per non “mettere fuori mercato le altre economie”? Oppure sono le altre economie che sono sopraffatte da una borghesia inetta nonostante i salari da fame, nettamente inferiori a quelli tedeschi? L’euro è effettivamente una divisa che costringe tutti alle stesse regole del gioco, anche se però ci sono, in partenza, differenze profonde tra i competitori. Sulla natura di queste differenze, sul loro significato economico e politico, si può discutere all’infinito. Gianni Vattimo ne farebbe una dimostrazione della insuperabilità dell’interpretazione. Forse bisogna uscirne allora, considerando che i problemi maggiori in Europa ci sono dove c’è meno giustizia sociale, menolibertà, e più casta. Resta poi il fatto, a proposito di risarcimenti, che i tedeschi erano scettici sull’entrata dell’Italia e della Grecia nell’euro, mentre la Grecia ha addirittura falsificato il bilancio per aderirvi. Di nuovo, si può discutere all’infinito facendo volare gli stracci e accusando quel paese o quell’altro di partire “avvantaggiato” (o di non essere corrotto?); di non essere stato “previdente” o di aver mentito sul bilancio ecc. Ma il punto che a noi dovrebbe interessere è un altro. In ogni caso, infatti, non è certo da un eventuale “imbroglio” dei tedeschi che nasce il nostro problema! Il punto è tutto qui. Non è difficile capire che l’evasione, la corruzione, il lavoro nero, sono tutti aspetti di una malattia più generale, che è la ragione vera e profonda dell’assenza della crescita, come lo è della decadenza della nostra università, della nostra scuola, del degrado delle città, della crescita esponenziale della malavita, del sud fuori controllo, dellemontagne di spazzatura che hanno riempito Napoli, dell’incapacità di reazione davanti ai soprusi più evidenti inferti alla giustizia; del declino dell’industria, delle cialtronate della stampa e della libertà di stampa ristretta e fortemente condizionata… L’austerità non “castiga i costumi viziosi”, ma non li risolve neanche il semplice sostegno alla “domanda aggregata”. Ha ragione, a mio modo di vedere, Alberto Bisin quando scrive (Repubblica, 20 gennaio 2012) che non basta pompare acqua nel tubo giusto per avere la crescita. L’Italia lo fa da decenni, ottenendo solo il risultato di rendere più forti le clientele e di ingrassare i gruppi di potere. È inutile pompare risorse se non si fa pulizia delle rendite di tutti i generi, delle caste, delle cappe familistiche, clientelari, religiose, corporative che soffocano sul nascere qualsiasi energia nuova. Queste ulteriori risorse finirebbero comunque per rafforzare le caste e dunque il problema. Ma la storia è vecchia estranota. Il problema, ben inteso, è drammatico. Ha ragione Cesaratto quando dice che però senza crescita i sacrifici verranno annientati. E tuttavia, è anche vero che se non si libera l’aria, tutto resterà come prima. È probabilmente vero che non se ne esce senza un passo avanti della Germania. Ma a questa soluzione ci si deve arrivare per buon senso, senza minimizzare quello che ci riguarda e ridurre tutto a un dovuto risarcimento. Tanto più perché, se colpissimo finalmente le rendite si avrebbero risorse per il risanamento, si porrebbe la base reale per la “crescita”, e soprattutto si colpirebbe alla radice il problema politico italiano, che è anche problema sociale ed economico. In tutto questo non si deve dimenticare il contesto di un capitalismo finanziario fuori controllo. Ma mi pare che l’ipotesi di una specie di Tobin tax sostenuta da Germania e Francia, e che ha determinato la rottura con la Gran Bretagna, sia un segno importante. Vedremo, naturalmente, che futuro avrà. Quanto ai “sacrifici” dei tedeschi, lasciamo perdere. Non abbiamo neanche una vaga cognizione in Italia del welfare state della Germania o dell’Europa del Nord, del rapporto che c’è tra salari e costo della vita, dei servizi efficienti ed economici, della sanità, della scuola, per non parlare delle università. La Germania ha anche un reddito minimo garantito che è talmente protettivo che uno dei loro problemi è come risolvere la “trappola assistenziale”. Solo da noi – presunti cicaloni, e in realtà lavoratori come gli altri, ma in un paese disfunzionale – non esiste un reddito minimo garantito. Mi correggo, non esiste neanche in Grecia e in Ungheria. Sarà un caso? Quando in Italia si parla dei “sacrifici” degli altri, è a noi che fanno il lavaggio del cervello. Adesso che ho detto che la Germania è un paese che sovvenziona addirittura chi non lavora, Cesaratto non mi potrà più rimproverare di sostenere le cose che farebbero la felicità dell’austero e morigerato prof. Hans-WernerSinn, il più influente degli economisti tedeschi. Mi trovo comunque del tutto d’accordo con Cesaratto: in Italia ci sono belle teste, come del resto dovunque. È vero, però, che molte di esse sono andate a lavorare in Germania, oltre che in Francia e negli Stati Uniti ecc.; e questo per le ragioni che sappiamo, e che farebbero di nuovo la felicità del prof. Sinn (non le enuncio una per una per non dargli motivo di ulteriore gaudio, anche se temo che le conosca). L’Italia resta un paese frastagliato, di picchi, ma anche di abissi. Trovi il grande scienziato, il grande chirurgo, lo scrittore, l’economista, l’imprenditore geniale; ma trovi anche il “non-sfigato”, gli abissi del nepotismo, dei favori, la lotta forsennata contro la meritocrazia. Giovanni Perazzoli-micromega
|