Fra i molti effetti positivi legati all’uscita di scena del governo Berlusconi c’è l’innegabile “igienizzazione” di un dibattito pubblico dal quale sono completamente spariti bunga bunga ed escort per lasciare il posto a discussioni sulla crisi, l’occupazione, le imprese, i contratti. E questo è un bel passo in avanti a prescindere dal giudizio sul merito delle iniziative dell’esecutivo guidato da Monti e dal fastidio per qualche colossale stupidaggine scappata di bocca allo spericolato ministro di turno, sopratutto sul tema “giovani e lavoro”. Un altro piccolo passo che ci sentiamo di auspicare è da compiersi nel dibattito interno alle forze del campo progressista e di sinistra. Con l’uscita dell’anomalo inquilino da Palazzo Chigi sarà forse possibile non citare più l’Economist – e i suoi sacrosanti titoloni su “The man who screwed an entire country” (l’uomo che ha fottuto un intero paese) – come i maosti degli anni Settanta citavano il librettorosso di Mao. Di più: nell’ambito di una salutare dialettica fra “noi e loro” si potrà anche sospettare di essere sulla strada giusta se il prestigioso settimanale britannico – di limpido ed antico lignaggio liberal-conservatore – reagisce inorridito di fronte ad alcune proposte provenienti dalla sinistra che non siano una pallida imitazione di quelle provenienti dalla destra. È il caso della bella strapazzata che l’ultimo numero dell’Economist ha riservato al candidato socialista all’Eliseo François Hollande, reo di aver lanciato i propri strali contro «il vero avversario» della sinistra, ovvero «il mondo della finanza» come un tempo François Mitterrand se la prendeva contro il «vero nemico» costituito dal «potere del denaro». E se il problema con il presidente in carica Nicolas Sarkozy è che «dopo cinque anni deludenti» in pochi possono davvero considerare credibili i suoi propositi di risanamento (diversamente dal candidato centrista Bayrou, «l’unico a insistere su un decisotaglio della spesa pubblica»), con il candidato socialista Hollande «il pericolo è opposto: lui potrebbe fare ciò che promette». Ma che cosa promette di così terrificante il compassato – per qualcuno addirittura incolore e privo di carisma – Hollande? Innanzitutto ha dichiarato che appena eletto volerà a Berlino dalla signora Merkel a rinegoziare il trattato europeo «sulla stabilità, il coordinamento e la governance» che rischia di essere la corda alla quale saranno impiccati gli stati più esposti sui debiti sovrani e con essi l’intera Unione europea stritolata dalla spirale austerity-recessione-austerity. Dell’attuale drammatica situazione in cui versa l’Europa non poche responsabilità sono da individuare nel duo Merkel-Sarkozy; nella loro, talvolta interessata, incapacità di mettere in campo una gestione continentale della crisi, inframmezzata da mosse improvvide come quella dell’8 ottobre 2010, quando annunciarono la partecipazione del settore privato alle perdite sui titolistato greci (è da lì che è cominciata anche la corsa folle dello spread sui titoli italiani e spagnoli, innescando una catena di contagio che non ha risparmiato nemmeno quelli francesi, austriaci e belgi). Sul fronte interno François Hollande promette una ristrutturazione finanziaria fondata su due pilastri: 29 miliardi di euro destinati al risanamento dei conti pubblici e 20 miliardi al finanziamento di misure per rilanciare la crescita e l’occupazione. Ma chi pagherà un conto così salato, che farà salire la pressione fiscale dall’attuale 44,8% del Pil a 46,9%? In sintesi: i ricchi, le banche e le grandi imprese. Il programma socialista prevede fra le altre cose una drastica semplificazione delle detrazioni e delle agevolazioni fiscali (sarà introdotto un tetto massimo di 10 mila euro l’anno); l’aggiunta di una aliquota al 45% per i redditi superiori ai 150mila (l’attuale aliquota massima è al 41% e si applica sopra i 70mila euro di reddito annui); l’incremento del 15%dell’imposizione sugli utili delle banche (è prevista inoltre la separazione fra banche commerciali e banche di investimento); la riarticolazione e l’incremento dell’imposizione fiscale sulle società (oggi mediamente tassate al 33%) secondo tre fasce dimensionali; l’abolizione della defiscalizzazione delle ore di straordinario decisa da Sarkozy per aggirare la legge sulle 35 ore varata governo socialista di Lionel Jospin (in questo l’attuale presidente è stato cattivo imitatore del “modello tedesco” visto che con una disoccupazione che è arrivata al 9,9% si dovrebbe far lavorare di meno chi è già occupato, non di più); un piano straordinario per il lavoro che prevede incentivi pubblici per l’assunzione di giovani con contratto a tempo indeterminato oltre che assunzioni dirette da parte dello Stato nella pubblica istruzione, nella polizia e nella giustizia (ponendo fine all’attuale blocco del turn over nella pubblica amministrazione, che prevede un ingresso ogni due dipendenti inuscita). Infine, sul fronte dei diritti civili, si segnala l’importante apertura del candidato socialista sull’eutanasia (o “aiuto attivo” alla morte, che vede favorevole, secondo un recente sondaggio, il 94% dei francesi): «Proporrò che ogni persona maggiorenne in fase avanzata o terminale di una malattia incurabile che provochi una sofferenza fisica o psicologica insopportabile e che non possa essere calmata, possa domandare, in condizioni precise e ristrette, di beneficiare di un’assistenza medica per terminare la sua vita con dignità». Per quanto riguarda le riforme economiche e sociali si tratta dunque di un programma più vicino alla socialdemocrazia “classica” che non alla Terza Via che ha imperversato fra le sinistre europee all’epoca del New Labour di Tony Blair e del Neue Mitte di Gerhard Schröder. Non è un caso se quest’ultimo modello sia ora sponsorizzato dallo stesso presidente Sarkozy che lo scorso 29 gennaio, in una intervista televisiva, ha dichiarato di volersiispirare alle riforme del lavoro promosse dall’ex governatore tedesco per rilanciare la competitività della Francia. Anche lui tuttavia – ed è questo che più infastidisce l’Economist – sembra intenzionato a risanare i conti senza procedere a tagli draconiani alla spesa pubblica. Fra le proposte fino ad ora avanzate c’è quella dell’incremento, da approvare prima delle elezioni di aprile, dell’imposta sul valore aggiunto (la nostra Iva) dal 19,6% al 21,2%. Sarà un confronto da seguire con grande interesse. Anche perché in quelle elezioni si deciderà la continuità o meno di quel direttorio franco-tedesco – a netta trazione tedesca, in verità – che tanta importanza ha avuto e avrà nel nostro comune destino europeo. Emilio Carnevali
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