Il deputato laburista Denis Healy scherzò con l’allora comunista Piero Borghini: «Napolitano è la miglior imitazione di un banchiere della City che io conosca». Sarà per quel portamento “sobriamente” borghese che da sempre il presidente della Repubblica si porta dietro, fin da quando all’età di 27 anni venne eletto deputato del Pci (anno 1953), che le similitudini tra «Re Giorgio» e Mario Monti – uno che i banchieri li conosce bene – appaiono talmente evidenti da non lasciare spazio a dubbi di sorta: il governo Monti è la creatura di Giorgio Napolitano. La diretta emanazione della cultura riformatrice, europeista e rigorista elaborata per decenni dalla destra comunista. Accusato per lungo tempo e in diverse stagioni (per non dire ère) politiche di non avere abbastanza coraggio, «Re Giorgio» al Quirinale ha continuato ad operare secondo il proprio personalissimo registro: una lenta e costante opera di lavorio progressivo ai fianchi di avversari einterlocutori. Tra «severi moniti», «inviti alla coesione», continue folate di «gelo tra Colle e Palazzo Chigi» fatte trapelare sui giornali e una bella dose di moral suasion, Napolitano è riuscito nella doppia impresa: mandare a casa l’impresentabile governo Berlusconi IV senza strappi istituzionali, evitare le elezioni anticipate e raccogliere l’80 per cento delle forze politiche intorno al nome di Monti. L’uomo a lui più congeniale. Per provare a fare quelle benedette riforme tanto invocate che un governo paralizzato da veti incrociati e coalizioni traballanti, di destra o di sinistra, non sarebbe riuscito a fare. L’assioma è questo. «Per l’Italia, la prova più alta è quella della nostra capacità di unire le forze, di ritrovare quel senso di un comune destino e quello slancio di coesione nazionale che in altri momenti cruciali della nostra storia abbiamo saputo esprimere (…) ed è una prova non solo per le forze politiche, anche se è essenziale che queste escano da una logica discontro sempre più sterile. Esse possono guadagnare fiducia solo mostrandosi aperte all’esigenza di un impegno comune, ed esprimendo un nuovo costume, ispirato davvero e solo all’interesse pubblico. È una crisi senza precedenti come quella attuale che chiama ormai a un serio sforzo di corresponsabilità tra maggioranza e opposizione in Parlamento, per giungere alle riforme che già sono all’ordine del giorno e che vanno condivise». Era un passaggio del discorso di fine anno di Napolitano. Quale anno? Il 2008. La coalizione Pdl-Lega aveva stravinto le elezioni da pochi mesi, e vantava una maggioranza schiacciante sia alla Camera che al Senato. Quelle frasi rilette oggi hanno un valore politico e programmatico adesso assai più chiaro. Quasi profetico. All’inizio del 2011 in libreria era uscito un romanzo di fantapolitica firmato da Philip Godgift. Chi è? Nessuno, non esiste, è un nome inventato. Ma la storia era questa: il presidente della Repubblica Salernitano, davanti allo sfascioprodotto dal governo del cavalier Spernanzoni, si dimetteva dal Quirinale per candidarsi alla guida del centrosinistra. E vinceva. Non è andata proprio così, oppure in fondo sì. Senza Napolitano non ci sarebbe stato nessun Monti. Che i due dialogassero da mesi e mesi è cosa nota. E che si lanciassero segnali di fumo anche. Altra profezia sospetta del Capo dello Stato: è il 2 febbraio 2011. Un mese dopo la morte improvvisa, si celebra la figura di Tommaso Padoa-Schioppa. Dove? All’Università Bocconi. Casa Monti insomma. Napolitano parla dell’ex ministro del governo Prodi (un tecnico prestato alla politica, si disse di lui), uno di quegli uomini «che conoscono il senso del limite, sanno dove la loro responsabilità si arresta e cede il passo alla sfera delle decisioni politiche, assunte in nome della sovranità popolare». E poi, ciliegina sulla torta, ecco la frase decisiva: «Per ciascuno di essi può poi venire il momento di assumere eccezionalmente funzioni politiche, rappresentative edi governo, il momento in cui si avverta, per forti ragioni, il dovere di non sottrarsi a quel difficile e ingrato esercizio: ma questo è un altro discorso». Napolitano fu al centro della scena politica anche nel biennio terribile 1992 – 1993. Presidente della Camera durante i governi di “salvezza nazionale” Amato e Ciampi. I giornali dell’epoca somigliavano molto a quelli odierni, dei bollettini di guerra dove non si parlava che di crisi economica, debito pubblico, moneta a rischio (prima la lira, oggi l’euro), sacrifici sgradevoli per (quasi) tutti da imporre pena la bancarotta. L’esperimento, soprattutto quello dell’ex governatore di Bankitalia, è rimasto un punto di riferimento per il presidente della Repubblica. Non è neanche un segreto. Napolitano in Dove va la Repubblica. 1992-94, una transizione incompiuta raccontava dell’insediamento di Carlo Azeglio Ciampi con la sua pattuglia di tecnici e commentava: «Ci si muove lungo il filo di una difficile sperimentazioneistituzionale. Ancora una volta: il sentiero è stretto. Ma obbligato». Difficile sperimentazione istituzionale. È l’espressione giusta per classificare l’azione di Napolitano nei giorni più difficili, quelli dello spread alle stelle e della Borsa in caduta libera, della indiretta sfiducia parlamentare al governo Berlusconi e delle dimissioni posticipate del Cavaliere. Un protagonismo culminato con l’investitura a senatore a vita, proprio nel momento decisivo, di Monti. Napolitano, forte della stima internazionale (la Merkel negli ultimi mesi, a parte le risatine, quando parlava dell’Italia menzionava solo lui come interlocutore) e del favore dell’opinione pubblica (indici di gradimento altissimi, «uomo dell’anno» secondo Wired, «King George» secondo il NY Times) ha potuto così instaurare una moderna diarchia. Assai sobria e assai autorevole. Due attori che giocano di sponda e che sanno capirsi con poche parole. Come è avvenuto con il decreto Milleproroghe. Chi ha difeso il decretodall’assalto dei partiti? Sempre lui, Napolitano. “Invitando” i presidenti della Camera a modificare i regolamenti parlamentari, se necessario. Ventilando l’esautorazione delle Camere. Diarchia illuminata e democrazia, nel contempo, sospesa? E poi, la riforma del lavoro. «Serve l’accordo», dice Napolitano. Tradotto: caro sindacato, basta con le moine da trattative, poche storie e firma. In casa Pd fanno finta di niente. Ma sul partito la figura del Capo dello Stato aleggia da sempre, sin dal suo insediamento nel 2006. Tra richiami all’ordine più o meno diretti, strigliate comprese. Rese possibili dalla debolezza dello stesso partito, incapace di rappresentare in questi anni una coerente via d’uscita al berlusconismo. Rimproveri senza peli sulla lingua come quello del 21 agosto scorso, quando Napolitano ospite del meeting di Comunione e liberazione diceva che l’opposizione non stava rappresentando «un’alternativa credibile, affidabile e praticabile». Finché c’è lui, l’appoggio delPd a Monti non è in discussione. Anche se vissuto dai democrats, in primis Bersani, con sofferenza e con lacerazioni interne. Anche se la Cgil scalpita e nel frattempo subisce. «Il problema della conquista e della difesa dello Stato non è un problema politico, ma tecnico». Lo scriveva Curzio Malaparte, e per «Re Giorgio» l’ultradecennale esperienza istituzionale è stata un utilissimo banco di prova per rendersene conto. Piccola controindicazione, il titolo del volume dello scrittore toscano: Tecnica del colpo di Stato.Matteo Pucciarelli-micromega
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