Diciotto lunghissimi anni immobile in un letto. Seimilacinquecentosettanta giorni passati ad attendere la notte per un po' di sollievo. Centinaia di migliaia di ore a disposizione per ricordare quegli unici 33 anni di vita vissuta realmente. La mente, lucida, ripercorre ogni gesto di un tempo lontanissimo che il corpo ormai non sa più compiere. Può parlare, respirare e deglutire, Adolfo Baravaglio. Niente di più. Salvo un piccolo movimento con il braccio destro in su e in giù. Tetraplegico dall'aprile 1989 dopo un incidente stradale, oggi, a 51 anni, usa quell'arto che ancora risponde un po' agli impulsi cerebrali per schiacciare le dita paralizzate sul telecomando del televisore. Unico contatto con il mondo esterno dalla sua casa di Pray, nel biellese. A fianco sempre sua moglie Agnese, costretta da allora «agli arresti domiciliari», come lei stessa definisce quella «non-vita» di entrambi. Lei che gira ogni tanto il corpo di Adolfo pesante giàoltre cento chili ma indenne, per questo, dalle piaghe da decubito. Lei che lo lava ogni mattina, gli tiene il telefono, gli scaccia via le mosche dal naso e lo assiste persino anche psicologicamente nella «giornata che sporca»: il martedì, quando il lassativo fa il suo effetto e Adolfo, davanti a sua moglie, sente di «perdere ogni dignità». Adolfo Baravaglio vuole morire. Non è un uomo triste, né depresso. E' riconoscente ad Agnese e a tratti sembra addirittura arrabbiato, combattivo. Ma non ha mai cambiato idea da quando, dopo il primo anno passato tra ospedali e centri di riabilitazione, ha capito che non sarebbe mai guarito. Che non sarebbe più tornato a lavorare 10 ore al giorno come faceva prima, lui, giovane magazziniere, bello e sportivo. Sa che nessuno lo aiuterà a realizzare il suo desiderio, ma chiede di poter essere accompagnato in Svizzera dove il suicidio assistito è legale. Più di una volta è stato sul punto di partire con un'ambulanza ma poi gli hanno spiegato chesua moglie, o chiunque decidesse di accompagnarlo nel suo ultimo viaggio, rischierebbe al ritorno dai 15 ai 18 anni di carcere nel nostro paese. E' stata Agnese per prima a contattare e a iscriversi a Exit-Italia, l'associazione che promuove il diritto alla dolce morte. «Perché non vorrei mai che succedesse anche a me una cosa del genere e che altri possano fare la vita che faccio io», spiega. Ma nemmeno il presidente dell'associazione, Emilio Coveri, che si dice pronto ad assisterlo, può fare molto per Baravaglio. Almeno fino a che sarà in vigore l'attuale legge, per nulla al passo con il resto d'Europa. In Germania, ad esempio, l'ultimo viaggio verso la Svizzera è consentito e l'«accompagnamento» è depenalizzato. «Me lo chiese subito, fin da quando era in rianimazione e aveva già intuito che sarebbe rimasto paralizzato. Mi chiese di staccargli i tubicini e il respiratore. Ma come si fa a fare una cosa del genere?». Agnese racconta della sua incapacità di seguire la volontà delmarito anche se «sapevo quello che lui voleva, ne avevamo parlato tante volte commentando casi simili, ma ancora speravo in un miracolo, anche se noi non siamo credenti». Sono atei, infatti. «E comunisti», tiene a sottolineare Adolfo con un tono molto nostalgico. Forse anche per questo, azzarda Agnese, non hanno molti amici e nel paesino cattolico distante trenta chilometri da Biella nessuno ha espresso loro solidarietà, anzi. «Sono solo capaci di giudicare», aggiunge amara la donna. «Non capiscono che la sua è solo una lunga agonia senza senso: se fosse morto 18 anni fa avrebbe evitato questo calvario». D'altra parte, sostiene, se avesse avuto ancora l'uso delle mani si sarebbe già suicidato. «Io lo farei per me, ma per lui no. Però se mi chiede di portarlo in Svizzera sono pronta, basta che non rischio il carcere». La loro storia è raccolta in un libro che uscirà a giugno dal titolo: «Perché mi torturate?» scritto con l'aiuto di Gabriele Vidano, un insegnante di Biella che è anchedirigente di Exit, e con la prefazione del filosofo Gianni Vattimo. E Adolfo l'ha anche raccontata in una lettera indirizzata al presidente Giorgio Napolitano, che però gli ha risposto solo con frasi di circostanza. «Voglio morire perché sono stufo: questa non è più vita». Baravaglio parla piano col suo accento delle valli piemontesi. «La vita per me vuol dire essere autosufficienti e non dipendere da un'altra persona in tutto». Racconta di come passano gli anni e si aggiungono malattie e dolori, «l'unica cosa che questo corpo mi restituisce». «Ma io non accetterò più di essere ricoverato in ospedale», promette battagliero. «Non sono depresso, la mia è una scelta». Proprio nulla per cui valga la pena di vivere anche così? «Le soddisfazioni, per carità, ci sono ma sono misere. Che sia chiaro: anch'io sono attorniato dall'amore della mia famiglia, c'è mia moglie, il calcio, la Juventus, ma poi? Sono tutti palliativi. Non siamo nati per vivere come piante, se siamo homus erectusqualcosa vorrà dire. Ogni sera mi addormento sperando solo di non svegliarmi più. Ovviamente parlo per me che amavo vivere all'aria aperta e muovermi. E lo facevo anche mentre dormivo. Se altri scelgono invece di vivere persino in queste condizioni, o vogliono morire tra atroci dolori, buon per loro, nessuno li costringe». Non si rassegna al fatto che qualcuno altro decida del suo corpo e lo condanni alla tortura eterna. «Mi fa rabbia quando sento che da noi, a causa della presenza del Vaticano, non si può nemmeno nominare l'eutanasia. E la legge non tutela quelli come me che sono in grado di intendere, ma purtroppo non di volere. Il massimo che mi propongono è la sedazione, ma io non voglio una puntura di droga che mi faccia diventare incosciente». Baravaglio racconta di come negli ultimi anni si sia appigliato a questa ultima battaglia per il diritto ad una morte dolce e dignitosa «perché democrazia vuol dire che io rispetto la tua idea ma tu devi rispettare anche la mia». E' chiusoin casa da 18 anni, ma non è fuori dal mondo, Baravaglio: «Parlano tutti i giorni di Europa ma poi non vedono che in Europa queste cose si possono fare. Lo so che l'eutanasia non sarà mai possibile a breve in Italia, ma anche l'aborto non c'era. E se si cominciano a smuovere le coscienze, qualcosa un giorno cambierà».da Il Manifesto
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