L’Italia è tra i primi Paesi in Europa nelle donazioni di organi. Evviva. Peccato che le donazioni siano stagnanti dal 2006, con variazioni minime come dimostra l’aumento di soli diciotto donatori nell’ultimo anno. Certo anche una sola donazione in più è una buona notizia perché, come è scritto nel Talmud, "chiunque salvi una vita salva il mondo intero". Questo vale per i chirurghi dei trapianti ma soprattutto per tutti i malati che grazie a un nuovo organo ricominciano a vivere, eppure, a guardare il sistema nel suo complesso c’è poco da stare allegri. La legge sulla donazione degli organi del 1999 si basava sul principio del silenzio-assenso ed è rimasta in buona parte inapplicata. La norma prevedeva, infatti, che in assenza di una esplicita opposizione alla donazione, si potesse procedere al prelievo degli organi informando i familiari della persona deceduta, ma sollevandoli da questa difficile decisione. Come mai tale automatismo, che avrebbeprobabilmente permesso di accrescere in maniera esponenziale le donazioni, non è mai diventato realtà? E come mai le donazioni di rene da vivente non sono mai decollate, nonostante gli ottimi risultati clinici di questo trapianto e la positiva esperienza maturata da altri Paesi? Sono i misteri di un’Italia recalcitrante ai cambiamenti e troppo poco omogenea nella sanità come nella cultura della donazione. Molti passi avanti sono stati fatti, ma le disparità territoriali restano macroscopiche: si passa dalla Toscana, prima in Italia e seconda al mondo dopo la Spagna per numero di donazioni, con 46 donatori per milione di abitanti, per cadere ai miseri 11 di Umbria e Campania. I trapianti sono un settore strategico della sanità e per questo si dovrebbero sostenere le donazioni nelle zone più deboli trasferendo competenze e know how dalle regioni migliori. Ci sono situazioni estreme, come quella del Policlinico Umberto I di Roma dove nel 2011 sono stati individuati circa un terzodei donatori di tutto il Lazio, a fronte di una struttura fatiscente e condizioni di lavoro massacranti. Un risultato positivo, reso possibile solo grazie all’impegno degli operatori sanitari che, in alcune circostanze, sono anche stati addirittura aggrediti dai parenti costretti a bivaccare per giorni nei viali dell’ospedale senza alcun comfort, in attesa di notizie. Questo per quanto riguarda il versante donazioni. Se si osserva, però, l’altra sponda del fiume, quella dei centri trapianto, le acque appaiono comunque torbide. Nel 2011 i trapianti in tutt’Italia sono stati poco meno di 3 mila, a fronte di circa 9 mila pazienti in attesa, ma analizzando i dati del Centro nazionale trapianti (Cnt), ci si accorge come su 1.539 trapianti di rene circa 800 sono stati eseguiti al Nord, 400 al Centro e solo 280 nelle regioni meridionali. Per quanto riguarda il fegato poi dei circa mille trapianti eseguiti, metà si sono concentrati al Nord, 350 al Centro e 150 nel Sud. Queste discrepanzesono dovute al minor numero di centri al Sud ma anche ai pochi trapianti che vi si eseguono e ciò evidenzia un problema molto grave per quanto riguarda l’equità in un sistema sanitario pubblico che si dice universale. Significa che un ammalato di cirrosi epatica piemontese ha ottime probabilità di curarsi e continuare a vivere, mentre se abita in Calabria o in Puglia è meglio che pensi a traslocare. Veniamo al secondo punto dolente: come è possibile che siano considerati con gli stessi criteri, in quanto a risorse pubbliche investite, personale medico impiegato e dotazioni tecnologiche, il centro di Torino che nel 2011 ha eseguito 137 trapianti di fegato e quello di Genova con i suoi 11? Le linee guida approvate dalla Conferenza Stato-Regioni nel 2002 parlano chiaro: "Per assicurare la qualità dei programmi clinici, gli standard minimi di attività annuale sono individuati rispettivamente in 30 trapianti di rene da cadavere, 25 trapianti di fegato, 25 trapianti di cuore". Icontrolli spettano alle regioni che, nel caso in cui un centro non raggiunga il numero minimo e il livello medio di sopravvivenza dei pazienti, revocano l’autorizzazione ai trapianti. In teoria. Nella realtà, invece, su 43 strutture per il trapianto di rene ben 16 non hanno superato la soglia dei 30 trapianti annui. Nel caso del cuore solo tre centri su 16 hanno superato il numero minimo, mentre per il fegato, su 22 centri otto non hanno raggiunto il traguardo dei 25 interventi l’anno. Ma c’è un’ulteriore anomalia su cui riflettere: su cinque centri per il trapianto di fegato attivi a Roma, nessuno ha realizzato il numero minimo di interventi necessari a mantenere aperto il servizio. Una tale concentrazione in un’unica città è davvero ingiustificabile, per di più in una regione in cui le donazioni sono al di sotto della media nazionale. Non sarebbe meglio allora avere un solo centro e che funzioni a pieno ritmo? I numeri aiutano a capire come l’intero sistema abbia un bisognourgente del tagliando perché dietro alle cifre ci sono la vita e la salute delle persone. Già nel 1999 l’autorevole rivista "New England Journal of Medicine" ha dimostrato la relazione tra numero di trapianti eseguiti in ogni singolo centro e la sopravvivenza dei pazienti. E’ una semplificazione che suona come brutale, ma il fatto è che meno trapianti si eseguono, maggiori sono i costi e minore è la sopravvivenza dei pazienti. E questo non è accettabile perché un organo è una risorsa impagabile e limitata. Più di cento centri trapianto sul territorio italiano sono francamente troppi. Sono strutture costose che richiedono staff specializzato, reperibilità, tecnologia, mentre si potrebbero concentrare le energie in pochi centri di eccellenza, in grado di accogliere i pazienti di tutta Italia e assicurare cure migliori, riducendo i costi, valorizzando il personale sanitario e promuovendo programmi di ricerca. Ma se non si vuole accettare l’idea di un cambio così radicale, almeno sichiudano tutti quei centri con basso livello di attività che non raggiungono gli standard minimi. In un momento in cui si parla di aumentare ancora i ticket sulla sanità, sembra davvero inconcepibile non intraprendere nuove politiche basate sul merito e sull’appropriatezza, insomma su quel concetto di spending review invocato dal presidente del Consiglio Mario Monti fin dal giorno del suo insediamento. A questo proposito, oltre alle strutture cliniche andrebbero ridotte anche quelle amministrative, oggi stratificate in una piramide composta dai centri regionali di coordinamento che a loro volta si interfacciano con i centri interregionali e poi con il centro nazionale trapianti. Ognuno di essi dotato di personale, uffici e ruoli che si sovrappongono. Tutti questi organismi appaiono anacronistici, mentre il coordinamento dovrebbe essere interamente affidato alle regioni e le funzioni di controllo e verifica al Cnt. Infine, il nodo delle liste d’attesa e del conseguente dirittoalla cura. Posto che il divario strutturale tra le varie realtà territoriali non è colmabile in tempi rapidi, perché non convertire le liste che ora sono organizzate a livello regionale in un’unica lista nazionale per chi è in attesa di un trapianto, in cui sia effettivamente il paziente più grave a ricevere il primo organo disponibile, in base alle indicazioni cliniche e non alla geografia? Non guasterebbe poi una maggiore trasparenza da parte dei centri regionali di riferimento, che rappresentano la parte organizzativa e funzionale nevralgica per tutta la rete dei trapianti. Pazienti e associazioni hanno il diritto di sapere come vengono gestite le liste d’attesa, gli amministratori devono conoscere i dati per monitorare le attività e gli operatori sanitari che lavorano nelle rianimazioni dovrebbero poter verificare se i loro sforzi per arrivare al prelievo degli organi siano serviti a salvare delle vite. "Il trapianto è vita" recitava lo slogan di una campagna di informazione afavore della donazione ma il trapianto è anche molto altro, è la punta di diamante di una sanità d’avanguardia e in quanto tale va protetta dagli sprechi, dalla scarsa organizzazione e dai giochi di potere degli ambienti universitari e della cattiva politica. Ignazio Marino-ha collaborato Alessandra Cattoi-l’espresso
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