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Perché comandano le banche |
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Finora il sistema bancario domestico ha attraversato questi primi anni di crisi lasciando sul terreno meno rovine di quante accumulate altrove. Merito, probabilmente, del fatto che la limitata internazionalizzazione degli istituti italiani ne ha contenuto l’esposizione ai virus della speculazione su quei titoli tossici che, viceversa, ha disastrato i bilanci di grandi colossi del credito su entrambe le sponde dell’Atlantico. Tanto che quando l’allora ministro dell’Economia ha ritenuto di imitare i colleghi di altri paesi lanciando i cosiddetti "Tremonti bond" per aiutare le banche italiane a superare le loro difficoltà l’operazione si è rivelata quasi superflua perché solo pochissimi istituti vi hanno fatto ricorso. Dati simili precedenti, stupisce che ora si sia tornati a rinverdire l’esperimento e per giunta a sostegno di una singola banca: il Monte dei Paschi di Siena, già soccorso con la prima ondata di aiuti pubblici. Le traversie recenti diquesto istituto indicano, aldilà di ogni ragionevole dubbio, che i suoi problemi saranno anche stati acuiti dalla crisi generale ma nascono soprattutto da una gestione a lungo condizionata da interferenze politiche e da lotte intestine fra potentati locali. Già era dura chiudere un occhio su una misura di carattere generale com’erano i vecchi "Tremonti bond", ma l’idea che il Tesoro metta a disposizione un’altra robusta dose di denaro pubblico (2 miliardi di euro) a favore di un tale singolo soggetto suona oggi semplicemente impresentabile. Soprattutto se una scelta del genere è compiuta da parte di un governo che avrebbe ben più seri problemi di cassa. Anche perché questa nostra vicenda, tutto sommato provinciale, si inquadra in una cornice di rapporti fra poteri pubblici e mondo bancario che ripropone un po’ dappertutto uno stato di disarmata sudditanza dei primi nei confronti del secondo. Dopo lo scoppio della bolla dei mutui "subprime" americani, che ha innescato lo tsunamieconomico planetario, dagli Usa all’Europa sono state messe in campo cospicue e costose operazioni di salvataggio bancario ma tutte accompagnate da solenni impegni politici a prendere le misure più severe per tagliare l’erba sotto i piedi degli avventurieri del credito, impedendo loro di scaricare sulla collettività il costo delle loro sconsiderate scommesse. Basta, insomma, con la "deregulation" bancaria, avanti tutta con riforme sul modello di quelle prese durante la crisi degli Anni Trenta. Allo scopo è stato dato preciso incarico di formulare pronte ipotesi di intervento al Financial Stability Board, che ha tenuto un numero incalcolabile di riunioni, ha partorito una quantità di dotte analisi che alla fine hanno solo arricchito le biblioteche universitarie nella sostanziale inerzia dei governi. Tanto che ora la Banca dei Regolamenti Internazionali ha lanciato un nuovo grido d’allarme segnalando che la corsa dei banchieri ai titoli ad alto rischio è ricominciata anche piùsfrenata di prima della crisi. Duro fatica a condividere l’opinione di chi ritiene che la subalternità dei governi all’arroganza dei banchieri nasconda chissà quali congiure e corruttele. Più banalmente forse la spiegazione va cercata nell’inadeguatezza dei poteri pubblici a svolgere il loro ruolo. A differenza di quanto accadde negli Usa di Roosevelt e perfino nell’Italia del Duce e soprattutto Beneduce.Massimo Riva
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