La politica dei Gattopardi
 











L’invito del senatore del Pd Enzo Bianco al collega del Pdl Gaetano Quagliariello, «vieni nella mia casa al mare, chiudiamo l’accordo sulla legge elettorale davanti a una granita di fichi e di gelsi neri», ha scatenato reazioni indignate, si è svegliato perfino il presidente del Senato Renato Schifani, «le forze politiche devono dialogare nelle sedi istituzionali» (figuriamoci!). Eppure l’iniziativa di Bianco aveva se non altro il pregio della chiarezza. A partire dal luogo dell’incontro, una delle più belle isole delle Eolie. Dal nome altamente evocativo: Salina.
Dici Salina e ti viene in mente il Principe Fabrizio, «immenso e fortissimo, le sue dita potevano accortocciare come carta velina le monete di un ducato», il cane Bendicò, il giardino, le rose, la polvere, la decadenza, la morte... Il passaggio di un’epoca, ritratto per sempre da Tomasi di Lampedusa, il Grande Cambio dagli Stati nazionali all’Italia unita, dai feudi agli homines noviche rappresentano l’era dei piemontesi.
A volerla prendere in modo meno appiattito sulla cronaca di tutti i giorni, questa estate di crisi che arriva al termine di un anno terribile, di recessione, impoverimento, angoscia per il futuro, e che prepara il 2013 decisivo, assomiglia da vicino a quel cambiamento che sembrò spazzare via le piccole monarchie italiche e le loro corti estenuate. Anche oggi, infatti, le decisioni si prendono altrove: a Bruxelles, a Francoforte, a Londra e a Wall Street.
Ieri c’era l’Italia unita di casa Savoia e dei liberali, oggi c’è l’Europa che costringe tutti a rivedere comportamenti, abitudini, vizi antichi. E c’è una nuova classe dirigente, quella dei Super Mario, i Monti e i Draghi, che parla il linguaggio delle istituzioni sovra-nazionali.
Ormai è entrata in scena e si illude chi crede che tornerà in riserva una volta esaurito il compito. Anche domani, dopo il 2013, serviranno garanti dell’Italia di fronte all’opinione pubblica internazionale ealle cancellerie europee: Monti si sta già candidando a farlo. Da Palazzo Chigi o dal Quirinale. Si spiega così il balletto altrimenti incomprensibile sulla data delle elezioni, anticipare il voto di qualche mese o arrivare a scadenza naturale.
Se si anticipa, toccherà ancora a Giorgio Napolitano dare l’incarico di formare il nuovo governo e condizionare con questa scelta la legislatura appena nata. Se si vota a scadenza naturale, nel mese di aprile, il primo impegno del nuovo Parlamento sarà al contrario l’elezione del capo dello Stato. Non facile, dato il prevedibile caos della prossima legislatura, con la valanga dei grillini, il ritorno della sinistra radicale, la pattuglia degli storaciani, le liste civiche, i sindaci...
Di fronte a questo scenario i partiti si comportano come i baroni siciliani quando arrivò lo Stato unitario. Cambiare tutto perché nulla cambi. Si arrabbiarono moltissimo i leader dei partiti, si arrabbiò più di tutti il segretario del Pd Pier Luigi Bersani,quando "L’Espresso" li mise in copertina con l’abito del ballo nella scena più famosa del "Gattopardo" di Luchino Visconti. Era ancora il mese di gennaio, i partiti proclamavano che avrebbero riformato la Costituzione e riscritto la legge elettorale «entro 15 giorni». Garantivano loro, nessun dubbio era consentito. E quel milione e mezzo di cittadini che avevano firmato il referendum anti-Porcellum rigettato dalla Corte costituzionale? Potevano stare tranquilli, ora toccava ai professionisti della politica, avrebbero fatto loro. Si è visto come andata. Mesi buttati. Discredito della politica aumentato. Riforma della Costituzione strappata in pochi giorni, dopo la decisione del Pdl e della Lega di buttarsi su un improbabile semi-presidenzialismo. Nel frattempo i capi-partito si sono accorti che stavano cucinando una legge elettorale alla greca, condannata a produrre l’ingovernabilità assoluta. E ora hanno ripiegato su un progetto più modesto, di pura sopravvivenza.
Una leggeelettorale che ripristini la proporzionale, senza coalizioni, ognuno per i fatti suoi. Parlamentari scelti dall’alto, con i listini bloccati o con collegi già stabiliti a tavolino. E un premio per il partito più grande, abbastanza alto ma non troppo perché il premiato riesca a governare da solo, con il suo programma e il suo leader.
Una legge che blindi i partiti, li difenda dall’ondata di Grillo, ne preservi il più possibile il ruolo ormai residuale: come quello dei feudatari resi obsoleti dall’arrivo dei garibaldini ma ben decisi a difendere gli antichi privilegi. Per questo l’isola di Salina evoca il nome della futura legge elettorale: dopo il Porcellum, il Gattopardum. Anzi, il Gattopardellum. Bersani ripete (lo ha fatto ieri sull"Unità") il suo no a nuove larghe intese e a nuovi governissimi. Ma la legge elettorale che si prepara darà esattamente quel risultato. E Bersani lo sa bene: al punto che una settimana fa, durante un dibattito con Fini e con Casini, si è fatto scappareche con la riforma non ci sarà un premier sicuro già la sera delle elezioni, scelto dai cittadini, ma «un rilevante azionista di riferimento», parole sue.
Bersani non punta a vincere, ma a essere il più forte azionista al tavolo dei partiti, quello più grande, poi si vedrà. Le primarie, allora, sono un falso problema. Non ci sarà un candidato premier, inutile fare le primarie per scegliere chi si candida a fare l’azionista di riferimento. Renzi lo ha capito e forse si appresta a correre con una sua lista. Anche Vendola lo sa molto bene: il balletto con Casini, sì o no all’alleanza con l’Udc, è solo un gioco di prestigio. Tutti sanno che la coalizione Pd-Sel non avrà la maggioranza. E che dopo si dovrà trattare con Casini. Fare finta che non sia così può forse portare il voto in più di qualche elettore di sinistra ingenuo, ma non fa un bel servizio alla chiarezza. Infine: non ci sarà nessuna coalizione. La nuova legge elettorale scioglie il vincolo, l’obbligo di matrimonio di fronteagli elettori. Va molto bene al Pdl che in questo momento non riuscirebbe a fidanzarsi con nessuno, neppure con la Lega, scottata dalla precedente relazione.
Va bene anche a Casini, che può tenersi le mani libere in vista del dopo-elezioni. Può andare bene al Pd, ma a una condizione: che l’accordo con Vendola, diventato ormai il principale sostenitore della leadership di Bersani, si trasformi in qualcosa di più. Una lista unitaria Pd-Sel che consenta di prendere il premio per chi arriva primo garantito dalla nuova legge (il 10, forse il 12 per cento dei seggi) senza eccessivi affanni. Una lista, non un nuovo partito, almeno per ora. Anche se una lista Bersani-Vendola avrebbe una conseguenza clamorosa: il simbolo del Pd sparirebbe dalla scheda elettorale. Al suo posto, il Polo della Speranza, di cui parla Vendola, o l’Alleanza tra progressisti e democratici, preferita da Bersani. La fine della scissione di Rimini, venti anni dopo. Quando il Pci terminò di esistere, nel gennaio 1991durante il congresso nella città romagnola, Bersani era il vice-presidente dell’Emilia, Vendola un giovane figiciotto contrario alla svolta di Occhetto. Uno aderì al Pds, l’altro a Rifondazione. Ora potrebbero ritrovarsi insieme, sotto lo stesso simbolo. Una nuova tappa per una storia che viene da lontano, la stazione finale per l’esperimento chiamato Pd.  Marco Damilano-l’espresso









   
 



 
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