"Questa volta saranno primarie vere»: così molti commentatori hanno salutato l’avvio della corsa per la leadership del centrosinistra. L’implicito riferimento è, naturalmente, ai precedenti casi di primarie nazionali con “vincitore già scritto” – Romano Prodi nel 2006, ad esempio – nelle quali l’intera “giostra” aveva più funzioni di mobilitazione, propaganda e legittimazione che quelle di una effettiva selezione competitiva. Ora è tutto diverso. Sono in campo tre pesi massimi del centrosinistra che incarnano tre mondi assai diversi. La loro distanza è molto più che politico-programmatica: è simbolica e – potremmo dire – “antropologica”. Rappresentano, infatti, “tipi umani” differenti, ancor più che proposte politiche alternative. Perfino il più estraneo, fra i tre, alle logiche della personalizzazione e della spettacolarizzazione del messaggio politico (Bersani), ha fatto di questa estraneità un’originale cifra stilistica, con la sua retorica ruspante sulla«ditta» da anteporre al leader, con un linguaggio studiatamente ammiccante alle più colorite espressioni del buon senso popolare, con un “antidivismo” apparentemente agli antipodi dell’esibito protagonismo dei Renzi e dei Vendola, eppure parimenti efficace nel marcare una forte connotazione identitaria. Dunque primarie vere? Sì, ma fino ad un certo punto. Allo stato attuale sono due i grandi nodi che vincolano la portata democratica dell’intero processo. Il primo è la questione di Monti e del Montismo. I tre principali candidati delle primarie si differenziano in primo luogo in base alla valutazione del governo Monti e alla continuità/discontinuità che promettono di assicurare al suo operato. Danno voce a tutte le possibili sfumature di sensibilità presenti all’interno del cosiddetto “popolo della sinistra”, il cui rapporto con l’esecutivo dei tecnici non è di semplice lettura: secondo recenti sondaggi, ad esempio, il 75% degli elettori del Pd dichiara di appoggiare Monti e il65% dello stesso collettivo dice di essere contrario alle sue politiche. Un dato apparentemente schizofrenico se non si considera che anche l’ex professore della Bocconi ha fatto della sua figura un brand estremamente efficace, «simbolo positivo di un’altra Italia», archetipo di una politica come «affare serio, che deve essere gestito da persone serie» (Carlo Galli). Dopo la rovinosa stagione berlusconiana - la cui coda si muove ancora nelle scene da fine impero che hanno deliziato le recenti cronache politico-giudiziarie - persone come Mario Monti, Renato Balducci, Fabrizio Barca, Annamaria Cancellieri, ecc. sono capaci di ispirare un “sollievo estetico” di carattere addirittura “pre-politico”. Ma non è tutto qui. C’è un passaggio della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta in cui Keynes si sofferma su alcuni aspetti dell’opera dell’economista David Ricardo cercando di spiegare le ragioni della sua vasta popolarità. È una riflessione sarcastica e sottileche, in un contesto assai diverso, può risultare utile anche a chiarire l’“enigma Molti”, il segreto del largo consenso raccolto a fronte di politiche molto onerose per i cittadini italiani (e dall’efficacia quantomeno discutibile): «Il fatto che il suo insegnamento, tradotto in pratica, fosse austero e spesso sgradevole, gli conferiva autorevolezza. Il fatto che si adattasse a reggere una vasta e coerente sovrastruttura logica gli conferiva bellezza. Il fatto che si potesse spiegare gran parte dell’ingiustizia sociale e la evidente crudeltà come una conseguenza inevitabile del progresso, e il tentativo di modificare queste cose come un rimedio peggiore del male, gli rendeva gradita alle autorità». Il problema è che il futuro di Monti – non solo della persona, ma della proposta politica, dell’alchimia istituzionale che soggiace a un esecutivo solo apparentemente tecnico – non è propriamente nelle mani dei candidati alle prossime primarie del centrosinistra. Di “centrosinista” – aben guardare – nemmeno si potrebbe parlare, dal momento che ancora sono incerti i confini e la composizione della coalizione che con le primarie dovrebbe eleggere il proprio leader. Tutto dipenderà, infatti, dalla legge elettorale con cui si andrà a votare nel 2013. Ed in un parlamento privo di maggioranze stabili, come è quello attuale, risulta difficile prevedere gli scenari che si presenteranno. Se, ad esempio, si optasse per un sistema proporzionale con premio di maggioranza al primo partito (molto probabilmente il Pd), sarebbe molto problematico formare una maggioranza di centrosinistra. Secondo una proiezione basata sul sondaggio Ipsos del 22 settembre 2012 (con premio di maggioranza del 10%), alla coalizione Pd+Sel andrebbero 262 seggi, e nemmeno con i 38 voti dell’Idv si riuscirebbe a superare la soglia della maggioranza alla Camera. Ma nemmeno l’alleanza Pd+Udc andrebbe lontano: sommati fra loro i due partiti raggiungerebbero solo quota 283. Tenuto contodell’indisponibilità del Movimento 5 stelle a qualsiasi tipo di accordo con altre forze politiche (il sondaggio attribuisce al partito di Grillo 101 seggi alla Camera, pari al 16,3% dei voti) e della dichiarata incompatibilità fra Casini e le “estreme del centrosinistra” (Vendola e Di Pietro) non resterebbe altra soluzione che una nuova “grande coalizione”. C’è poi un Montismo che va ben al di là delle formule politiche e dei programmi di singoli partiti e candidati. È un Montismo inteso come “dottrina dell’austerità” che è imposta dagli attuali trattati europei, dalla leadership politica di Angela Merkel, dall’inadeguatezza degli strumenti fin qui messi in campo per fronteggiare la crisi. Ieri è stata celebrata l’entrata in funzione del nuovo European stability mechanism. Qualcuno lo ha definito il “secondo bazooka di Draghi”, dopo l’approvazione a inizio settembre dell’Outright Monetary Transaction, ovvero lo scudo anti-spread dipendente direttamente dall’intervento dellaBanca centrale europea. All’Esm dovrebbe essere affidato il soccorso al sistema bancario (erano già stati promessi fino a 100 miliardi alle banche iberiche, prima delle frenata di Germania, Olanda e Finlandia) e soprattutto l’acquisto dei titoli di Stato dei paesi in difficoltà sul mercato primario. Alla Bce, invece, sarebbe demandato l’intervento “illimitato” sul mercato secondario. Ma il tutto è subordinato ad una esplicita richiesta di aiuto da parte degli Stati, ai quali sarebbero imposte condizioni molto dure, cioè legate a severissime politiche restrittive (lo ha ribadito con estrema chiarezza il membro tedesco del direttorio della Bce Jörg Asmussen, noto per aver posizioni più moderate di quelle del presidente della Bundesbank Jens Weidmann). Nelle scorse settimane il “bazooka” di Draghi, per il solo fatto di esistere, ha raffreddato lo spread fra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi. Basterà questo a tenere a bada i mercati anche nel prossimo periodo, magari di frontead un ennesima accelerazione della crisi greca? Riuscirà questa politica dei piccoli passi a prevalere su difetti strutturali della costruzione di un’unità monetaria in assenza di molti dei fattori determinanti ciò che la letteratura economica definisce una “zona monetaria ottimale”? E sopratutto: come potrà ripartire la crescita nel Vecchio Continente in una fase nella quale anche i “paesi forti” non sembrano intenzionati a trainare la domanda interna e l’economia mondiale non brilla certo di salute? Sono tutti dilemmi essenziali. Fino ad ora il dibattito sulle primarie si è incentrato principalmente sulle regole, ma questo è lo sfondo che incomberà su moltissime delle proposte di merito che verranno in seguito avanzate dai candidati. Lo scoglio sul quale potrebbero infrangersi alcune delle loro “migliori intenzioni”. Ecco perché “ben vengano le primarie”, preziosa occasione di partecipazione e confronto. Ma non dimentichiamoci che i veri problemi arriveranno dopo. EmilioCarnevali
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