Il “muro” di Firenze dopo quello di Berlino?
 











A voler scopiazzare le primarie e le elezioni statunitensi dei mesi recenti, i leader piddini rischiano di rimanerci scottati e di dividere un partito destinato alla vittoria alle elezioni del Belpaese.
Il Pd non sarà la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto (che perse), ma è il primo partito in Italia.
Dov’è il reale confine tra la paura di governare il Paese in una situazione così scomoda e difficile o il destino di considerarsi “impresari” di un nuovo esecutivo di Monti?
Il Pd si trova proprio in questa situazione ambigua. Il disfacimento del Pdl (che rischia sul serio di divenire il terzo partito, dopo il Pd e Grillo) a cui si aggiunge la scarsa chiarezza sul da farsi, pongono la partita a vantaggio del Pd.
La vittoria, per le elezioni politiche e quelle amministrative, è davvero a portata di mano per il partito di Bersani e soci. Ormai lo sanno in tutto il mondo, negli Usa è già deciso da tempo, anche i sondaggi sono abbastanzaeloquenti. La patata, eppure, è davvero “bollente”: complice la fine dell’antiberlusconismo, agli italiani (affamati in tutti i sensi) non si potranno più spiattellare notizie di gossip e di costume sul Cavaliere, occorre “fare e dire qualcosa di sinistra”. Si può fare questo, per la prima volta, proprio nel momento in cui l’Italia conosce sul serio la crisi economica, in cui servono misure urgenti ma a favore dei lavoratori (come da programma sinistrorso) non dei benestanti? Tutto ciò significa proporre e, soprattutto, realizzare un programma opposto a quello di Monti, dove i sacrifici siano estranei ai ceti medi e bassi. Fantapolitica? No, programmi di sinistra, per le masse, per il proletariato.
Le fazioni e le correnti interne al partito sono numerose, premono da più parti, una contro l’altra, col rischio di collisione. Le tante anime del Pd sono ormai ai ferri corti, altro che aperti, liberi e sereni confronti tra capipopolo e correnti. Nella Dc le correnti rimanevanoartificiosamente saldate dalla benedizione d’oltreoceano; necessitava un freno al pericolo rosso nonché un partito “fantoccio” che salvaguardasse la “fedele colonia mediterranea”. Nel Pd stanno venendo a galla vecchi rancori tra giovani leve e politici navigati, al punto che gli stessi iscritti, elettori e sodali, sono passati da una fase di sbigottimento a una di vera contrapposizione, con “eserciti” di militanti decisi e schierati. In più si è inserito Vendola, con la sua candidatura alle primarie del centrosinistra, a minare dall’esterno le posizioni consolidate.
Con Renzi, il partito perde più voti di quelli che potrebbe guadagnare o viceversa? Questo è il dilemma che aleggia da giorni e che non riesce a chiarire se la mattanza renziana sia nociva o benefica al partito. Una vittoria del sindaco di Firenze potrebbe portare a un risentimento dell’altra grande corrente, quella di Bersani. E i dalemiani? I nostalgici del Veltroni che fu? Porterebbero, come da antica tradizione, gliindecisi e i rancorosi a votare comunque per il Pd, piuttosto che favorire altri?
La stessa situazione ingarbugliata si verificherebbe se, a vincere le primarie, fosse il segretario Bersani. Figurarsi poi, se a vincerle fosse l’intruso, il Vendola guastafeste. E’ già capitato che il Pd abbia perso le primarie (è successo, a esempio, con la vittoria di Pisapia e Doria di Sel rispettivamente a Milano e a Genova), ma in questo caso non ci sono in ballo i destini, pur importanti, delle amministrative per le grandi città; in gioco c’è la guida dell’Italia.
Il grande sostenitore delle primarie, colui che le ha fortemente volute nel partito e inserite in quello statuto, così invocato in questi giorni per le regole da seguire o da innovare, è il kennedyano Veltroni, proprio lui che, per scherzo del destino, ha deciso di farsi da parte in questa fase delicata.
L’abbattimento del muro del suono, avvenuto il 14 ottobre scorso, da parte di Felix Baumgartner, fa venire in mente altri muricaduti e in fase di crollo. Tra pochi giorni (9 novembre) saranno ricordati i 23 anni dalla storica caduta del Muro di Berlino che ebbe ripercussioni su tutti i partiti comunisti, a partire da quel Pci che, dopo 70 anni di vita, nel 1991, fu sciolto da Occhetto con la svolta della “Bolognina”, a cui successe una nuova creatura politica, il Pds. Un’“esperienza” politica che durò solo 7 anni (1998) e culminò con un nuovo soggetto chiamato Ds fino al 2007 per poi giungere al Pd.
La questione della “rottamazione”, parola d’ordine di Renzi (ormai un po’ sgradita anche al diretto interessato), ad andamento altalenante, con fasi più acute e altre velate, è sbocciata tonante in questa delicata fase pre-elettorale. Il rischio è che le rottamate, le picconate (il termine caro a Cossiga) o similari, possano spaccare il partito prima ancora di portarlo a governare.
Monti è là, gongola dei riconoscimenti dall’estero e delle disgrazie dei partiti all’interno. Già li ha bollati come secondaririspetto ai tecnici, ora li vede franare fra scandali e divisioni interne; sa (ma lo nega) che i “poteri forti” lo vogliono ancora al comando nel 2013. Per questo il Pd cerca di uscire da questa impasse con le ossa meno rotte, per quanto possibile; vuole essere, nella peggiore delle ipotesi, il partito di riferimento del nuovo esecutivo di Monti, il suo braccio sinistro (brr…).
A tal fine, ha cacciato nell’angolo quello sgomitante Casini che pure aveva tanto caldeggiato il Varesino. Si è tolto pure Di Pietro e Grillo che di certo non sognano un “Monti bis” ma ha dovuto stringere accordi con qualcuno (Sel), altrimenti rischia l’ingovernabilità.
Tanti candidati dunque, per la guida del partito e tante scaramucce interne fra figure di primo piano, ma a salire a Palazzo Chigi rischia di andarci sempre lui, l’eminenza grigia che ha “salvato” il Paese dal fallimento (!)
E’ vero che nelle occasioni in cui il Pd ha perso le primarie ha quasi sempre vinto le elezioni vere e proprie, maqui si presenta un caso quasi inverso: vincere (alla stregua di Pirro) le primarie e poi cedere, istituzionalmente, il potere a Monti.
Nelle intenzioni potrebbe essere un buon finale, con un partito disposto pure a confrontarsi a viso aperto, con coraggio, pur di far trionfare liberamente le proprie anime e i candidati espressi, senza vincoli, dai propri iscritti; questa è la nobile immagine che il partito intende offrire al Paese. Il rischio è che le trazioni interne possano portare al collasso la struttura in tempi rapidi: o prima delle elezioni politiche del 2013 o subito dopo, con divisioni e fuoriuscite (un caso che Berlusconi ha vissuto sulla propria pelle con Fini).
Nella trasmissione televisiva Piazza pulita del 18 ottobre scorso, Vendola si è lamentato di come il presunto rinnovatore Renzi non pesti (da buon rivoluzionario) i piedi ai poteri forti. In effetti, è proprio così, il toscano non ha attaccato verbalmente e sostanzialmente né le banche, né il Vaticano né lealtre grandi “sovrastrutture”; l’unico suo bersaglio, a cui ha davvero pestato i piedi, è Bersani (e subito dopo D’Alema). Questi ultimi rappresentano sì i poteri forti, ma solo quelli del partito, al di fuori no. Renzi pesta e scardina un partito che potrebbe collassare di nuovo su se stesso e finire per cambiare ancora denominazione, compiendo l’ulteriore passo verso il centro avviato dal Pci al Pds, ai Ds e poi al Pd.
Renzi sta trascinando il Pd lontano dalla sua componente meno moderata, nonostante l’altro ago della bilancia di Vendola che tende a riportarlo lontano da tentazioni centriste. Le illazioni, sugli intimi rapporti di Renzi con l’alta finanza, potrebbero non essere esaustive in questo senso.
Il “muro” del Pd rischia di franare a Firenze: da Ponte Vecchio, in Arno, il vecchio presidente tecnico vedrebbe scorrere i mattoni di quello che fu il centrosinistra precedente; quello nuovo sarà pronto a sostenerlo (nella sua persona o per procura con Passera, così ilVaresino si avvicinerebbe al Quirinale) sicuramente per sostanza, fasi e programmi. Tutti uniti, dopo primarie ed elezioni. Marco Managò









   
 



 
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