“Liberare l’Italia, riformare l’Europa, Un’agenda per un impegno comune. Primo contributo a una riflessione comune”: è’ questo il titolo dato da Mario Monti al suo programma, manifesto anzi elettorale, annunciando la sua inaspettata candidatura. Liberare l’Italia? Ma da chi? Forse dal diktat della famigerata triade F,M.I.- B.C.E.-U.E. o dalla tirannia pangermanica, che hanno reso un Paese una volta opulento preda oggi della miseria e il suo popolo ridotto alla fame? Ma quel “liberare”, sulla bocca d’un bocconiano (ci si perdoni il bisticcio) non sta per “render libero, togliendo da impedimenti, sciogliendo da vincoli e simili”, sta per “liberalizzare”, ossia per “conformare, adeguare ai principi del liberismo”. Il liberismo altro non è che una teoria fondata sul postulato che il libero gioco delle forze economiche sia sufficiente a regolare nel modo migliore tanto i fatti della produzione che quelli della distribuzione delle ricchezze. Ilpostulato trae origine dalla teoria dei fisiocratici e trova la sua sintesi nella nota formula “Laissez faire, laissez passer”, che ha ispirato poi tutta l’azione della cosiddetta scuola di Manchester. Sul terreno concreto il liberismo si risolve nel sostenere l’agnosticismo dello Stato di fronte al fatto economico. In pratica mai alcuno ha sostenuto l’applicazione integrale del lasciar fare, lasciar passare. Le discussioni e le applicazioni si sono sempre svolte in una predicazione del libero commercio internazionale. Un altro campo in cui la teoria è stata usata è stato quello della legislazione del lavoro, dove gli industriali hanno tentato di opporsi all’applicazione dei provvedimenti igienici e sociali a favore dei lavoratori, mascherando i loro interessi dietro la teoria suaccennata, cosa che ha contribuito non poco al discredito della teoria stessa, tanto più che di frequente industriali e agricoltori, che si professavano liberisti nel campo della tutela del lavoro, simostravano poi protezionisti, cioè avversi alla libertà, nei riguardi del commercio internazionale. Il liberismo prese piede ed ebbe periodi di successo nella prima metà del sec. XIX, affermandosi particolarmente come reazione al sistema vincolistico e di controllo che fino ad allora aveva dominato tutta la vita economica. Si deve riconoscere che tale periodo coincise con un’epoca di prosperità senza precedenti, ma è certo che lo spirito di libertà, che aveva pervaso i rapporti tra gli uomini, non tanto nel campo economico, ma soprattutto in quello politico fu, se non l’esclusivo, sicuramente uno dei maggiori fattori del benessere, pur se più morale che materiale, che caratterizzò tale epoca. Due fatti sono da rilevare: • che il liberalismo integrale, quale oggi lo si ripropone, mai ebbe applicazione; • che pertanto esso rimase un siatema utopistico, come lo sono stati sociale. Anche nel campo astratto il lassismo liberista, che il Monti ripropone si presta acritiche di carattere fondamentale. Basta accennare a questo fatto: che, se è possibile isolare il fenomeno economico, per esempio per ragioni di indagini e di studio, esso è anche un fenomeno politico e sociale. In secondo luogo il quadro delle suggestive armonie economiche prospettateci da Mario Monti non tiene conto della inerzia che si accompagna a tutti i fenomeni economici, politici e sociali, per cui le relazioni mai possono essere istantanee o complete, il che introduce nel sistema un grave fattore di turbamento e di crisi politica e sociale. In tempi a noi vicini il concetto di liberismo è andato perdendo quota, specialmente per il riconoscimento della necessità dell’intervento dello Stato in numerosi fatti anche di carattere prevalentemente economico. Solo si è chiesto che l’intervento dello Stato avvenisse in forma tale da non incidere sulla libertà dell’individuo di usare, come meglio crede, dei fattori economici che sono a sua disposizione. Solo in questo sensoil concetto di libertà economica è in antitesi con quello di pianificazione, che caratterizza la politica opposta. Si deve rilevare, a questo proposito che in un mondo di relativa libertà economica molti problemi, anche politici, di carattere nazionale, continentale e internazionale, possono trovare una soluzione più facile che tanto in un regime di assoluta libertà economica quanto in uno di vincolismo, sia pure entrambi razionalmente organizzati. In entrambi si formano essenzialmente gruppi di privilegiati, ciò che fa sorgere la necessità di interventi statali per neutralizzare i privilegi e impedire che si trasformino, come è già avvenuto e ancora e più oggi avviene, in ingiustizie. Nel campo internazionale, poi, non si oppongono più individui o gruppi di individui a individui o gruppi, ma Stati o gruppi di Stati a singoli Stati o gruppi, il che rende molto difficili gli accordi, più facile l’acuirsi dei contrasti, che possono degenerare facilmente in questionidi prestigio o di influenza politica o portare di conseguenza a conflitti e a sempre nuove guerre, pur quando dissimulate da “missioni di pace”. Le libertà, come tradizionalmente intese, non devono ritenersi, come ritengono i neo-liberisti, l’alfa e l’omega della libertà. Questa perpetuamente si rinnova, come la vita: problemi antichi si affievoliscono e problemi nuovi sorgono. Aspirazioni fino a ieri lasciate in ombra si fanno valere con accento imperativo; alle libertà politiche ed economiche si riannodano le libertà sociali. Si parla di liberare l’umanità dalle insidie ricorrenti del bisogno, delle crisi e della guerra, flagelli della nostra società. Queste libertà dalla schiavitù del bisogno e dal timore delle crisi e della guerra, insieme con le sempre insidiate libertà di parola e di religione sono le quattro libertà fondamentali formulate da Franklin Delano Roosevelt nel suo celebre messaggio del 6 gennaio 1941 al Congresso degli USA. Ma sono esse efficacemente perseguiteda coloro, cui spetta più direttamente il grave compito e la responsabilità immane di mantenere l’ordine sociale e quello internazionale o ad assumere tali compito e responsabilità aspirano? Comunque sia, spetta a ciascuno di noi il dovere di lottare per la libertà e quindi per quelle libertà particolari che le nostre esigenze morali, politiche, economiche e sociali reclamano. Come per il passato, così per l’avvenire la fede morale della libertà ci assisterà, ci conforterà, susciterà le energie languenti. Moltiplicherà i nostri sforzi. Essa sola può elevare ed educare gli uomini, farne dei cittadini consapevoli di una libera Patria, degli esseri devoti alla causa di una più umana umanità, della giustizia sociale. A interpretare questa nostra volontà non possono essere i propugnatori di un disumano neo-liberismo, né cavalieri d’industria né tecnocrati. Il verdetto delle urne sarà per essi impietoso. PRAETOR URBANUS
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