Perchè tecnico non va
 











Adesso che l’esperienza del governo “tecnico” pare conclusa (salvo tempi supplementari nella prossima legislatura) occorre tirare le somme, non tanto né solo dei risultati (per lo più deprimenti), ma di chiedersi se non era prevedibile quello ch’è sotto gli occhi: ovvero che il governo “tecnico” non avrebbe risolto i problemi dell’Italia e, ancor di più, che le aspettative create da gran parte della stampa (e dell’establishement) all’atto dell’insediamento non erano conseguibili. Da un governo “tecnico” ancor meno che da uno politico: ciò, malgrado il non eccelso livello della politica italiana.
Nella modernità il governo “tecnico” fu anticipato dal pensiero di Saint-Simon. Questi prevedeva che a seguito della crescente importanza dell’economia (più che della tecnica) presto si sarebbe sostituito il “governo degli uomini” con l’ “amministrazione delle cose”. Frase fortunata, ripetuta da Engels, che trovava la propria base nel clima culturaledella (prima metà) del XIX secolo, ma che è sopravvissuta sia a quello che al successivo secolo breve. Ciò s’intravede nelle pagine di Constant sullo “spirito di conquista”; ma è molto più evidente nel pensiero di sociologi come Comte. Alla quale si contrapponeva la tesi opposta che alla politica non c’è alternativa (Bonald tra i primi) e che consistendo questa nel perseguimento di fini voluti della comunità non può ridursi ad “amministrazione” o a “tecnica” che consiste essenzialmente nell’apprestare i mezzi idonei al raggiungimento dei fini stabiliti (e non nell’indicare obiettivi).
A questo si aggiunge che la democratizzazione progressiva dello Stato (da monarchico a democratico, il cui principio di legittimità era progressivamente esteso ai danni di quello monarchico) faceva (e fa) crescere l’antagonismo tra potere democratico e altri poteri, soprattutto quello burocratico (nelle monarchie anche costituzionali prevalentemente dipendente da quello del Re). Antagonismo giàdenunciato alla Convenzione dai giacobini, e su cui si appuntava l’ironia del giovane Marx nelle acute pagine sulla burocrazia tedesca all’epoca della Restaurazione.
Ma le considerazioni più illuminanti sono quelle di Max Weber, non solo quando considera la burocrazia un pericolo per la libertà, ma ancor più quando la giudica inadatta a governare uno Stato moderno, anche se, come quella tedesca dei tempi suoi eticamente superiore (a quella di altri Stati); e ciò perché tipico del burocrate (e - mutatis mutandi – del tecnocrate) è l’agire in base a direttive (norme, istituzioni, comandi) impartite, delle quali è (nel migliore dei casi) un preparato e corretto esecutore, mentre compito del politico è dare le direttive (e non riceverne). Concetto che il grande sociologo ha ripetuto più volte, chiarendolo da diversi angoli e sotto diversi aspetti (vedi BOX). Il tutto – anche se, è il caso di ricordare, “tecnico” non equivale a “burocrate” (tuttavia diversi aspetti delle due figurecoincidono, in primis il possesso del “sapere specializzato”, non richiesto al politico) - fa si che il giudizio di Weber è in gran parte applicabile e valido per entrambi; in particolare l’aspetto più rilevante, è quello della responsabilità, strettamente connessa al fatto che l’uno è responsabile politicamente per aver dato gli ordini l’altro (giuridicamente, soprattutto) per l’esecuzione degli ordini ricevuti.
Ma a ciò bisogna aggiungere la posizione e differenza che deriva dall’organizzazione dello Stato, dal carattere del medesimo e dal principio di legittimità del regime politico.
L’Italia ha un regime democratico e democratico è il principio di legittimità: il potere è legittimo laddove in via diretta (o, subordinatamente, indiretta) sia stato eletto (o designato) dal popolo, organizzato in corpo elettorale. A un potere legittimo si deve obbedire, diversamente da quello non legittimato.
Anche se una classe politica è inadeguata (la “casta”) ciò non significa che ilgoverno espressione del corpo elettorale possa essere sostituito da un altro, non eletto/designato dal popolo. Comporta solo che può essere sostituito da un altro, legittimato democraticamente (cioè eletto).
In ciò essenziale è l’aspetto soggettivo del chi decide? Assai più di quello oggettivo del cosa decide? Un governo non designato democraticamente può fare le cose più sagge e ottenere i risultati migliori, ma, finché non ha ottenuto il consenso popolare sottoponendosi al giudizio elettorale, potrà al massimo fruire di quella che Guglielmo Ferrero chiamava la “quasi legittimità”.
Ma la quasi-legittimità è una legittimità zoppa; in quanto tale può servire a fare brevi percorsi, ma più questi si allungano più l’impedimento s’aggrava. E soprattutto a un governo quasi-legittimo manca – in misura piena – la caratteristica più utile della legittimità, cioè di conferire all’istituzione (al regime) quell’attributo “consistente nella presenza in una parte rilevante della popolazione diun grado di consenso tale da assicurare l’obbedienza senza che sia necessario, se non in casi marginali, il ricorso della forza”.
Lo stesso Monti si è – in qualche modo – fatto carico di ciò proponendosi quale “sponsor” di una coalizione di partiti che allo stesso si richiamano. Non è questo il problema che ci si pone; che è piuttosto se un governo “tecnico” sia idoneo a governare per periodi di durata “media” e in tempo di crisi e non semplicemente (come capitò a qualche governo – peraltro politico – della “prima Repubblica”) per amministrare lo Stato in vista di elezioni convocate (come, ad esempio, il sesto governo Fanfani).
Un governo tecnico che duri più di qualche mese (come l’attuale) e per giunta sia stato nominato per affrontare una crisi (le cui cause sono internazionali assai più che interne) sconta il fatto di non avere – in partenza – il consenso; e per di più di non averlo in un frangente difficile. Se poi è vero, come pare sia, che i sondaggi danno alla coalizionedi partiti sponsorizzata da Monti un “gradimento” pari a circa il 15% del corpo elettorale, ciò non fa che confermare quanto sostenuto.
D’altronde è il frangente critico il momento in cui si misura – al meglio – la legittimità di un governo e che può, talvolta, legittimare regimi e istituzioni nuovi.
4. Il rapporto tra legittimità e utilità di un governo (o di un regime politico) è uno dei temi più discussi quando si tratta di legittimità.
Indubbiamente l’utilità, ossia i buoni servizi resi consolidano qualsiasi governo e contribuiscono a legittimarlo. Scriveva Ferrero “Quando un popolo accetta un governo come legittimo, vuol dire ch’esso, nell’insieme, è e sarà soddisfatto della sua opera. I servigi con cui un governo legittimo prova la sua utilità possono essere molto vari: l’ordine e la prosperità all’interno, la sicurezza all’esterno, la vittoria nelle guerre, il prestigio sotto tutte le sue forme”. Ma tale considerazione – in se innegabile (anche se non sempre decisiva) –ha i suoi risvolti, che Ferrero ricorda “Quando il popolo chiede servigi che sorpassano più o meno la capacità del Governo legittimo, possono sorgere grandi difficoltà. Quando un popolo comincia a dubitare del Governo e della sua utilità, la legittimità vacilla”. Tuttavia “Pur essendo collegata, la legittimità non dipende mai direttamente dall’utilità del governo, che può aumentare e diminuire per un tempo abbastanza lungo senza che la legittimità ne sia intaccata. La legittimità può perfino, in certo modo, sostituire l’utilità. I migliori governi sono pieni di difetti, e nessuno di essi otterrebbe obbedienza, se gli uomini esigessero la perfezione. La legittimità e l’attaccamento che essa crea, velano, aiutano a sopportare i difetti e gli errori inevitabili del governo”.
Il fatto che la legittimità possa sostituire l’utilità è particolarmente importante in tempi di crisi, quando occorre chiedere sacrifici (talvolta di sangue, sempre di portafoglio) ai cittadini. Vi riesce assai piùun governo che gode di piena legittimità. Si dice che dopo Wagram Francesco II d’Austria, lo sconfitto, fosse stato accolto a Vienna con grande calore dalla popolazione. A Napoleone che era stupito – lui il vincitore di tutta Europa – di tali manifestazioni d’affetto e si complimentava (meravigliandosi) per le medesime, l’Asburgo fece notare che forse dopo una sconfitta, i parigini non avrebbero accolto Bonaparte allo stesso modo. E, infatti, fu “dimissionato” e confinato all’Elba. A far la differenza era la legittimità del potere dell’Asburgo e la quasi-legittimità di quello del Bonaparte.
Di per se quindi il deficit di legittimità non è un buon viatico per dei governi in tempi di crisi; ciò malgrado quando fu nominato Monti (quasi) l’intera stampa italiana (e altro) si profuse in peana, prevedendo (talvolta “assicurando”) che sobrietà e competenza avrebbero garantito l’utilità (il successo) del governo “tecnico”. Ora, di fronte ai risultati, modesti a confrontarli con leaspettative, al prof. Monti non resta che sostenere, con un guizzo di fantasia ucronica, che senza di lui sarebbe andata peggio (ma immaginare il peggio, come il meglio, è sempre possibile).
5. L’altro aspetto che occorre considerare è se la legittimità possa essere surrogata da altro, onde garantire l’obbedienza al potere. Nella definizione sopra data, come nell’opera di Ferrero l’ “altro” che garantisce l’obbedienza dei governati è la forza e il sentimento che l’uso di questa ispira, la paura. Tant’è che – di solito - i governi illegittimi sono quelli più sanguinari.
Anche un governo legittimo, ha necessità, ovviamente – anche se con moderazione – di usare la forza e deve – anche per questo (e per provvedere alle funzioni pubbliche) – costruire un apparato, un’amministrazione, di cui deve procurarsi la collaborazione. É quello che Miglio chiama “l’aiutantato”. Per cui in ogni comunità politica vi sono due “circuiti” per assicurarsi l’obbedienza: quello che va dai governati aigovernanti e quello tra questi e l’apparato. Ambedue sono necessari, e, in certa misura complementari: un governo legittimo ha meno necessità della forza e della collaborazione dell’apparato; all’inverso quello che poco può contare sulla legittimità ha maggiore bisogno del consenso dell’apparato.
Nella realtà, come spesso rilevato, ogni potere si sostiene in parte sulla legittimità e il consenso, in altra sul potere e sulla sua organizzazione, la quantità dell’uno o dell’altro varia a seconda dei regimi (e dei momenti) politici. I regimi che abbiano capacità di durare richiedono comunque una situazione d’equilibrio tra legittimità e coazione organizzata. Ma se la prima fa difetto o il potere è diffidente verso i sudditi, non resta che poggiarsi sul secondo “circuito”.
L’aveva visto chiaramente, quasi due millenni orsono, Settimio Severo, del quale si dice avesse consigliato ai figli di accattivarsi la devozione dei soldati, e disinteressarsi degli altri. Per essere fedele a talemassima di governo – ossia per aumentare le retribuzioni dei militari – fu costretto a diminuire il saggio di metallo prezioso delle monete e provocare quindi inflazione: verosimilmente non gradita alla maggior parte dei sudditi.
Comunque il consiglio (e l’esempio) di Settimio Severo è stato seguito da tanti, con alterni risultati. Non dei migliori, se, come sembra, accattivarsi e quindi arricchire la burocrazia fu una delle cause della caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Scriveva Salviano di Marsiglia, due secoli dopo Settimio Severo, “Passiamo ora a un’altra mostruosità inqualificabile che ha origine da quella empietà appena accennata e che, sconosciuta ai barbari, è di casa per i Romani: costoro con l’esazione delle tasse si confiscano i beni a vicenda. Ma che dico! non a vicenda, perché sarebbe sicuramente più sopportabile se ognuno patisse di ritorno ciò che ha fatto patire agli altri. Più grave è il fatto che sono poche persone a confiscare i beni di una massa di gente: perquegli esattori le imposte statali sono come bottino personale, visto che fanno delle cartelle esattoriali una fonte di profitto privato. E a farlo non sono soltanto alti papaveri, ma anche i più bassi funzionari; non soltanto i giudici, ma anche i loro tirapiedi!”.
Resta il fatto che la massima di Settimio Severo – da adattare al modo d’organizzazione dei governi e all’incidenza che vi hanno particolari settori della burocrazia, determinanti per l’esistenza e l’azione dello Stato – appare probabilmente utile – a breve termine – per salvare i governi ma, alla lunga, perde gli Stati, perfino i più solidi e potenti.
Il tutto diventa una costante quando il potere gode di una dubbia legittimità: in tali casi, in carenza di puntuale disposizione all’obbedienza dei sudditi, come accennato occorre accattivarsi l’ “aiutantato” (intendendo con ciò anche – e soprattutto – il “vertice” dell’organizzazione burocratica). Tendenza che non è – ovviamente – ristretta (“tipica”) dei governisemi-legittimi, ma anche di altri, essendo fondata sulla costante politica – formulata da Max Weber – che chi vive per la politica vive anche di politica (le “rendite politiche” di Miglio – e quelle “burocratiche” di Buchanan). E le “rendite politiche” (e burocratiche) sono connaturali a ogni regime.
Gli indizi rivelatori di tale prassi, anche del governo Monti, sono molteplici, ne ricordiamo alcuni:
a) l’aumento dell’imposizione fiscale (anche se non sempre è dovuto a privilegiare il “circuito minore”, comunque rivela un disinteresse per il “circuito maggiore”);
b) le campagne per la lotta all’evasione fiscale. A tacer d’altro, tendono a diffondere la credenza di addossare al cittadino sleale la difficile situazione finanziaria. Mentre in larga parte è dovuta al disordine ed all’eccesso della spesa pubblica;
c) l’eccesso di spesa pubblica è dovuto – in proporzione rilevante – ai costi di un’amministrazione - e di una classe politica - poco efficiente e poco economica. E’inutile ripetere a tale proposito le ricerche degli economisti italiani del secolo scorso (come Fortunato, Puviani, Pareto, tra gli altri) o quelle dei teorici statunitensi della “public choice”. Resta il fatto che gran parte dei “risparmi” è stata realizzata per maggiori entrate (fiscali) e non per aver risparmiato sulle spese.
d) Il rifiuto a consentire modalità di estinzione dei debiti verso le P.P.A.A. valevoli generalmente per tutti (tranne la pubblica amministrazione) come la compensazione, consentita, in via generale, già da Giustiniano, respinta con “sdegno” dal Governo tecnico.
e) L’assenza di qualsiasi tentativo di riordino della P.A. e di ridimensionamento delle attività pubbliche.
Ciò significa che il “quantum” di potere pubblico – che aumenta non foss’altro che per l’incremento delle entrate – non è bilanciato da alcuna perdita di beni, funzioni e competenze esercitate. Anzi talune iniziative, come quella del “redditometro” (anche se sistemi simili erano già infunzione per determinate categorie di contribuenti) vanno in senso contrario.
Si potrebbe aggiungere qualche altro esempio, e fare l’obiezione che alcune delle misure indicate hanno una spiegazione (in tutto o in parte) ragionevole e condivisibile. Resta comunque valido, nell’analisi della realtà, il criterio dell’attenersi ai fatti (più che alle giustificazioni, talvolta come cennato, ragionevoli di questo o quel provvedimento), e che le misure enumerate convergono nell’addossare il costo del “salvataggio” a carico quasi totale dei contribuenti, mentre inesistente è la riduzione di poteri pubblici (e interessi connessi) dell’ “aiutantato”. Il che conferma che il governo tecnico è preoccupato del “consenso” dell’apparato burocratico, almeno di vertice, più che di quello dei cittadini.
6. E questo deriva anche, ritornando a Weber (ed altri, tra cui Croce) dai connotati dei tipi del “tecnico”, del “burocrate” e del “politico”.
Si può obiettare che tecnico non è burocrate. Alprimo manca (non è necessario) la titolarità di un ufficio e l’esercizio delle relative funzioni. Ma ha un carattere decisivo in comune con il burocrate: il possesso del sapere specializzato. In ciò consiste la differenza essenziale dal “tipo” del politico: per il quale non è richiesto il “sapere specializzato”: tant’è che è principio generale (limitandoci alla democrazia) che tutti i cittadini possono esercitare funzioni pubbliche elettive (politiche) indipendentemente da qualsiasi competenza e preparazione specifica (v. per la Costituzione Italiana l’art. 51). Ma c’è una seconda differenza importante: che per le funzioni pubbliche elettive occorre il consenso (il “voto”) dei cittadini. Che, invece, non è necessario per il burocrate né per il tecnico. Il terzo connotato che differenzia tecnico dal burocrate (e dal politico) è che il tecnico non da (e non riceve) ordini. La sua capacità di farli eseguire (ad esempio la terapia che un medico prescrive al paziente) non si fonda sulpotere di coazione, ma sull’autorità (scientifica, morale, culturale) del tecnico medesimo.
Manca al tecnico – finché non assume cariche politiche – il potere di coazione. Il possesso del “sapere specializzato” e la non necessità del consenso (espresso) dei cittadini rendono comunque simili e meglio “compatibili” le figure del tecnico e del burocrate, più di quanto possano somigliare – ed avere connotati comuni - al politico.
Ne consegue che la rappresentazione della realtà, delle soluzioni e dei mezzi tendono ad essere simili. Così come la scarsa considerazione del consenso popolare.
Quel che più conta è che il politico ragiona (e vede la realtà) come conseguimento dei fini comunitari prima che come apprestamento dei mezzi necessari e conseguenti. Il tecnocrate e il burocrate, al contrario, vedono i mezzi, la fattibilità e la congruità degli stessi agli scopi; questi possono essere i più diversi, e per ogni obiettivo è necessario apprestare diverse (combinazioni di) mezzi. Lavisione complessiva è indifferente: ciò a meno che il tecnico, o il burocrate, non abbiano vocazione politica. Il risultato è che il politico pensa (dovrebbe pensare) in grande e a (medio) lungo termine; il non politico a breve e a “volo radente”. Così non a caso la preoccupazione principale del governo tecnico è apparsa quella di controllare entrate ed uscite e soprattutto cercare di tenerle, se non in pareggio, almeno in (relativo) equilibrio; questo, che è comunque un fatto positivo, per un governo politico risulta di corto respiro e di breve durata.
Un acuto giurista come Santi Romano sosteneva (in più saggi) che le trasformazioni degli ordinamenti (o gli ordinamenti nuovi) nascono dai periodi di crisi. E le crisi sono così le levatrici dei nuovi ordinamenti; i quali se sono vitali, sono anche legittimi. Perché per il giurista siciliano “esistente e, per conseguenza, legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità. Su qualebase logica tale concetto riposi è appena necessario mostrare. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali. Il segno, esteriore se si vuole, ma sicuro che questa corrispondenza effettivamente esista, che non sia un’illusione o qualche cosa di artificialmente provocato, si rinviene nella suscettibilità del nuovo regime ad acquistare la stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito”. Per far ciò occorre tuttavia una capacità ordinatrice (il pouvoir di Hauriou) che appartiene solo ai momenti più alti della politica, se non agli individui cosmico-storici di hegeliana memoria, almeno a quelle elites che organizzano regimi nuovi. Il potere, scriveva Hauriou, “è, in se, un imprenditore di governo” e ogni potere che voglia durare è obbligato a creare un ordine giuridico e così a legittimarsi (e ad essere legittimato dal consenso sociale). La sequenza è quindi:crisi/instaurazione/legittimazione. Ma sarebbe che qualcuno ricordasse in quali crisi – nella storia - un governo “tecnico” ha costituito un nuovo ordinamento. Caso mai è stato l’ultimo dell’ordinamento precedente, come capitò al primo governo Badoglio (il secondo era già costituito da ministri in gran parte dei partiti del CLN).
Si potrebbe obiettare che dipende dall’entità della crisi; se questa non è di quelle “epocali”, non occorrono incisive trasformazioni dell’ordine comunitario; e quindi il governo tecnico, attento ai libri contabili, potrebbe avere risultati congrui. Ma sembra di capire che la crisi che stiamo vivendo è di quelle “epocali”, sia che ci si riferisca alla teoria di Kondrattieff che, ancor più, a quella di Spengler o di altri teorici della decadenza (e dello scontro di civiltà).
Per cui resta il fatto che se per superare la crisi occorre, come occorrono, trasformazioni profonde dell’ordinamento comunitario, aspettarsele da un governo tecnico significa bussarealla porta sbagliata, creare aspettative assai improbabili. Altre illusioni: quelle di cui avendone avute a dovizia non si sente affatto la mancanza.Teodoro Klitsche de la Grange                                                              
Scriveva Max Weber: “... Un terzo problema infatti è certo il più importante di tutti, risulta da una considerazione di ciò che la burocrazia in quanto tale non è in grado di fare (le manca n.d.r.)... Lo spirito direttivo, qui l’ «imprenditore» là il «politico», è qualcosa d’altro rispetto al «funzionario». Non necessariamente nella forma, ma certo nella sostanza ... La diversità risiede nella natura della responsabilità dell’uno edell’altro e certo con questo criterio si può sempre determinare anche la natura delle esigenze che sono connesse con il carattere peculiare dell’uno e dell’altro. Un funzionario che riceve un ordine, a suo parere assurdo, può, e deve, sollevare obiezioni. Se il superiore insiste nelle sue istruzioni, non è solo dovere di quel funzionario, ma è anche suo onore eseguirle ... Un leader politico, che agisse così meriterebbe disprezzo. Spesso sarà costretto a venire a compromessi, cioè a sacrificare ciò che è meno importante a ciò che lo è di più ... La lotta per il proprio potere e la responsabilità delle proprie azioni che ne deriva, costituiscono invece l’elemento vitale del politico e dell’imprenditore” .
 









   
 



 
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