Approfittando dello stato quasi vegetativo di Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi accelera e prova a sbaragliare la concorrenza esterna ma soprattutto interna nell’eventualità di un ritorno alle urne a strettissimo giro. Dopo l’ospitata televisiva da Fazio e i tre telegrammi spediti al segretario e ai veterani del suo partito (“Si faccia il tentativo di formare il governo, ma in caso di insuccesso si dia di nuovo la parola agli elettori”; “Non si faccia scilipotismo con i grillini” e “Si dialoghi con i neo-eletti piuttosto che con i soliti noti, gli stessi da quattro anni a questa parte”), l’arrembante giovanotto fiorentino sta provando a piazzare lo scatto decisivo. Quel “fino alla fine mi comporterò come un bravo soldatino”, è prossimo alla scadenza e l’ambizioso rottamatore, ben visto da influenti ambienti d’oltreoceano e da buona parte dell’elettorato di centro-destra e spinto, a quanto pare, anche da un buon numero di parlamentari e datantissimi sindaci, sempre più irritati dalla gerontofilia dei maggiorenti del Pd, sta giocando d’astuzia, non immischiandosi nelle spartizioni interne. Sta lasciando via libera agli alchimisti interni di fare e disfare, vedasi votazioni come capogruppo alla Camera di Enrico Letta e come presidente dei senatori di Maurizio Migliavacca. Poi, però, dovranno essere tirate le somme, soprattutto in caso di un nuovo flop. E se voto deve essere, che sia in tempi rapidi e prima di febbraio o a marzo del prossimo anno, per non rischiare di impantanarsi nelle sabbie mobili del congresso del Pd. Il sindaco di Firenze vuole continuare ad essere visto come “avulso” rispetto all’apparato per poter avere libertà di manovra e di “pesca” dei consensi. Il suo insistere sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, mettendo con le spalle al muro gran parte dei suoi avversari, è emblematico. Ma non è finita qui. Il suo vero asso nella manica, è uno studio, confezionato da un suo amico,sulla situazione amministrativa e contabile del partito, a partire da quei 180 dipendenti, tra quelli a tempo indeterminato e quelli a tempo determinato, alcuni dei quali con casa pagata (dagli italiani). Dal “report”, saltano fuori numeri impressionanti: quattordici persone all’ufficio stampa del partito, tre persone addette solo a Rosy Bindi, che ha anche un aiuto alla Camera e una portavoce che, è scritto nel rapporto, “non si è capito chi paga”. Il meno influente dei dirigenti del Pd, ha almeno due segretarie e 3.500 euro di stipendio. Se poi, tanto per fare un esempio, ti chiami Nico Stumpo, puoi contare sull’ausilio di otto “sottoposti”, tra segretari, funzionari e collaboratori. L’elenco di nomi, con accanto retribuzione, eventuali secondi contratti e precisazioni sui costi dell’alloggio, è lungo e comprende anche Chiara Geloni, fedelissima di Bersani ed il tesoriere Antonio Misiani. Vi sono poi le truppe parlamentari: ben 102 dipendenti, secondo stime del 2010, conun costo complessivo di otto milioni di euro. Troppo per la sopportazione e le tasche degli italiani, tantissimo per raccogliere consensi ed incalzare anche Grillo.Ernesto Ferrante
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