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Le difficoltà dell’Egitto nell’accettare gli aiuti |
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Dall’Iran all’Arabia Saudita, dalla Libia al Fondo monetario internazionale (Fmi). Apparentemente sono tutti pronti a correre in aiuto dell’Egitto, che dopo la caduta di Mubarak non è riuscito a far ripartire la propria economia e deve fare i conti con una drammatica carenza di liquidità. Tuttavia accettare gli aiuti offerti non è “indolore” per Il Cairo, o a causa della contropartita richiesta (come nel caso dell’Fmi) o delle implicazioni politiche che comportano (come nel caso di Iran e Arabia Saudita). Giovedì scorso il responsabile dell’ufficio che cura gli interessi dell’Iran in Egitto, Mojtanibi Amani, ha confermato l’offerta di Teheran di una linea di credito da un miliardo di dollari. Allo stesso tempo, però, si è lamentato dell’indecisione egiziana: “L’offerta iraniana è ancora in essere, ma per attivarla devono essere fatti alcuni passi da parte dell’Egitto. Le trattative sono in corso, ma vi è una certa lentezza”. La “lentezza” del governo del presidente egiziano Mohammed Morsi è con tutta probabilità legata alla violenta opposizione dei gruppi sunniti salafiti a un qualsiasi accordo con l’odiata Repubblica Islamica iraniana (sciita). Già in precedenza i salafiti, dietro ai quali si muove spesso l’Arabia Saudita, hanno dovuto assistere con fastidio al progressivo riavvicinamento tra Teheran e Il Cairo. I rapporti diplomatici tra i due Paesi si erano interrotti nel 1979, quando la neonata Repubblica Islamica ritirò i propri ambasciatori per protestare contro la firma egiziana del trattato di pace di Camp David con Israele, avvenuta l’anno prima. A febbraio scorso Mahmud Ahmadinejad è stato il primo presidente iraniano a recarsi in visita al Cairo da oltre 30 anni, accolto dal caloroso abbraccio del collega egiziano. Un gesto esplicito che è stato letto dalla stampa egiziana come un messaggio di Morsi all’Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo, che attraverso aiuti milionari (solo Riad e Doha hanno assicurato 9 miliardi di dollari) e l’appoggio alle frange salafite contano di influenzare le decisioni del governo de Il Cairo. In caso Morsi accettasse l’offerta iraniana di una linea di credito, i salafiti egiziani hanno già minacciato di prendere di mira i turisti iraniani in arrivo all’aeroporto internazionale de Il Cairo, che proprio a fine marzo ha ospitato il primo volo diretto Egitto-Iran da oltre 3 decenni. Il ministro del Turismo egiziano, Hisham Zazuah, ha cercato di placare i timori dei salafiti su un possibile ‘proselitismo’ sciita in Egitto ad opera dei turisti iraniani, invitando gli egiziani ad avere “più fiducia in se stessi”. Zazuah ha anche cercato di far leva sul fattore economico, ricordando che “la media di spesa di un turista iraniano ammonta a 180 dollari al giorno, ovvero oltre il doppio della media degli altri turisti, che è intorno ai 70 dollari”. Ma il governo egiziano non ha problemi solo ad accettare gli aiuti economici dall’Iran, nonostante le sue casse – non più sostenute dall’industria del turismo – si stiano rapidamente prosciugando e le stime indichino che le riserve di valuta straniera basteranno solo per pochi mesi (o persino settimane). Da mesi l’Egitto è in trattativa con il Fondo monetario internazionale per un prestito da 4,8 miliardi di dollari, in cambio del quale l’Fmi pretende delle “garanzie” (leggi tagli alla spesa pubblica, “aggiustamenti” dei salari...) che la turbolenta l’opinione pubblica egiziana non sembra intenzionata a sopportare. Nei giorni scorsi, in occasione dell’arrivo a Il Cairo della delegazione dell’Fmi, il governo egiziano ha dovuto smentire le voci su una possibile approvazione di misure di austerità analoghe a quelle in vigore in alcuni Paesi europei, come riduzione dei salari, tagli alla spesa sociale o tasse sui depositi bancari. Un’altra consistente offerta d’aiuto è arrivata dalla vicina Libia che grazie all’industria petrolifera si è ripresa – almeno economicamente – dalla recente guerra civile. Alla fine di marzo il governo libico ha confermato l’intenzione di concedere all’Egitto un prestito a tasso agevolato di due miliardi di dollari. “Una decisione in merito non è ancora stata presa. Sono in corso delle consultazioni”, ha comunque frenato il premier libico Ali Zeidan. Secondo i rumors della stampa locale, gli aiuti libici (che prevedono anche l’invio di barili di petrolio) sarebbero però vincolati dalla consegna da parte delle autorità egiziane di alcune personalità libiche che Tripoli ritiene siano colluse con il passato governo di Gheddafi. Al momento sono quasi 130 i libici in Egitto per i quali Tripoli ha chiesto l’estradizione, per altro scatenando le proteste di alcune associazioni di libici in esilio secondo le quali si tratta di una ingiustificata caccia alle streghe. A conferma delle indiscrezioni della stampa, a marzo le forze di sicurezza de Il Cairo hanno portato a termine una serie di arresti, tra i quali quelli di Ahmed Gadhaf al-Dam, cugino e stretto collaboratore di Gheddafi, e di altri due esponenti del passato governo: l’ex ambasciatore a Il Cairo, Ali Mahmoud Maria, e un esponente della famiglia Gheddafi, Mohammed Ibrahim Gheddafi. Ma mentre questi due sono stati estradati in Libia, questa settimana un tribunale amministrativo egiziano ha negato l’estradizione di al Dam. Una mossa che potrebbe ostacolare anche gli aiuti libici all’economia egiziana. La sharia contro bond e prestitiFerdinando Calda A complicare ulteriormente la ricerca del governo egiziano di aiuti economici esterni per superare la crisi, vi è il divieto della legge islamica a qualsiasi forma di usura (riba), come può essere appunto un prestito con tassi di interesse o anche l’emissione di obbligazioni. All’inizio dell’anno la commissione Economia della Camera alta (shura) del Parlamento egiziano ha respinto la proposta del ministro delle Finanze di introdurre i sukuk, considerati anche come “bond islamici”, dopo che l’Università di Al Azhar, la massima autorità islamica del Paese, ha dichiarato che questi “violano la sharia e mettono a rischio la sovranità dello Stato”. Nelle scorse settimane alcuni deputati egiziani, tra i quali i salafiti del partito An Nour, hanno messo in discussione alcuni prestiti da parte dell’Unione Europea e della stessa Arabia Saudita (225 milioni di riyal per finanziare un progetto per la fornitura di acqua potabile a Nasser City) sostenendo che sulla questione si sarebbe dovuto prima chiedere il parere delle autorità religione dell’Al Azhar. Secondo l’articolo 4 della costituzione egiziana, infatti, “gli studiosi di Al Azhar devono essere consultati sulle questioni che riguardano la legge islamica”. Lo scorso anno un dibattito analogo si era acceso sull’ammissibilità di un prestito da parte dell’Fmi. In quel caso dovette intervenite lo studioso salafita Yasser Borhamy, con una fatwa che equiparava il prestito ad una sorta di donazione (zakat), dal momento che il suo tasso di interesse era solo dell’1,1% e poteva essere ripagato sotto forma di tasse amministrative.
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