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Costretti a pagare il pizzo sullo spread |
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L’imposta di bollo che dal 2011 viene applicata in maniera significativa sugli strumenti finanziari custoditi nei depositi titoli dei risparmiatori altro non è – sia detto a scanso di equivoci – se non un abile espediente lessicale che cela una vera e propria imposta patrimoniale per colpire economicamente la ricchezza delle famiglie e, da un punto di vista ideologico, quel più complesso sistema virtuoso di risparmio personale ed intergenerazionale che ha storicamente collocato l’Italia in posizioni di avanguardia mondiale. Una virtù popolare intollerabile per la finanza affamatrice e per l’Unione europea, quell’articolazione burocratico-politica che dallo smantellamento delle sovranità nazionali, da perseguire col rigore dei conti, trae la sua forza e la sua stessa ragion d’essere. Alle insidie economiche ed ideologiche sottese a questa subdola – come argomenteremo – imposizione fiscale non si può non ravvisarne anche una di matrice socio-culturale. Ci riferiamo al messaggio – socialmente disgregante – di considerare soggetti benestanti e quindi da condannare alla gogna comunicativa dell’economically correct chiunque non sia un nullatenente. Una logica perversa che autorizza molti (finti) nullatenenti a dichiararsi, tutto sommato, soddisfatti nel vedere tassate in maniera rilevante “fortune” che, in realtà, non sono espressione di patrimoni mirabolanti, ma spesso rappresentano, oltre alla casa di proprietà, l’unico gruzzolo familiare (ad esempio derivante dal trattamento di fine rapporto) risparmiato in decenni di lavoro. Non di rado le cedole dei buoni del Tesoro sono utilizzate per pagare rate di mutuo, tasse scolastiche ed universitarie dei figli o spese impreviste. Alla ricezione dell’estratto conto trimestrale al 31 marzo 2013, i correntisti italiani hanno avuto una spiacevole sorpresa: in esso era registrato l’addebito dell’importo relativo alla citata imposta di bollo sugli strumenti finanziari custoditi ed amministrati nei rispettivi depositi titoli. Un importo calcolato distintamente per ognuno dei trimestri dell’anno 2012, ma onerosamente addebitato in unica soluzione nel primo trimestre del corrente anno con valuta 31 dicembre 2012. Per meglio comprendere la rilevanza economica e socio-politica di un dato che, preso singolarmente, non meriterebbe grande attenzione è opportuna una premessa: esiste una relazione inversa tra tassi delle nuove emissioni e prezzi dei titoli già emessi. L’emissione di nuovi titoli obbligazionari con tassi più alti determina la flessione del prezzo dei titoli già emessi con cedola inferiore a causa della minore appetibilità (domanda) da questi ultimi esercitata. Una regola facilmente comprensibile attraverso i meccanismi della legge della domanda e dell’offerta. In una fase macroeconomica di tassi crescenti, le nuove emissioni di titoli prevedono un interesse più elevato rispetto a quelle precedenti. Poiché il corso (prezzo) dei titoli obbligazionari è in funzione del saggio di rendimento, in presenza di nuove emissioni a tassi più elevati, essi scenderanno di prezzo registrando perdite anche cospicue in caso di vendita o nel computo del controvalore. Lo stesso si può affermare nell’ipotesi speculare: nuove emissioni con rendimenti più bassi determineranno maggiori realizzi in caso di vendita e lievitazioni del valore complessivo del deposito titoli. L’odiosa imposta di bollo, come accennato, non è del tutto nuova: con l’obiettivo del raggiungimento del famigerato pareggio di bilancio, già il 15 luglio 2011 il Parlamento italiano approvò una manovra da 47,9 miliardi di euro che comprendeva, tra l’altro, l’aumento dell’imposta di bollo sui depositi titoli; una misura di indubbio rilievo sociale, stante il coinvolgimento di circa dieci milioni di posizioni in titoli legate ad altrettanti conti correnti bancari. Prima della riforma, l’imposta di bollo sul deposito titoli ammontava a 34,20 euro annui, a prescindere dalla consistenza dello stesso. La riforma dispose, fino a tutto il 2012, l’applicazione dell’imposta in base a quattro fasce di importo: per consistenze dei depositi titoli al di sotto dei 50 mila euro l’entità del bollo sarebbe rimasta invariata (34,20 euro annui); al di sotto dei 150 mila euro il bollo avrebbe raggiunto i 70 euro; i 240 euro per consistenze inferiori a 500 mila euro e i 680 euro per giacenze superiori. Sensibilmente più pesante – per il legislatore del luglio 2011 – sarebbe stata l’imposta a partire dal 1° gennaio 2013. L’adozione del criterio del valore nominale per la determinazione del valore della giacenza, e quindi della fascia, si rivelò una beffa. Nel 2011, stante il crollo dei corsi dei titoli di Stato sotto gli attacchi del pescecanismo finanziario, dei giudizi delle agenzie di rating e della speculazione sullo spread Btp-Bund, i risparmiatori si videro attribuire una fascia più elevata, mentre il controvalore reale degli strumenti finanziari determinato dal prezzo di mercato li avrebbe collocati in quella inferiore. Le dimissioni del governo di centrodestra nel novembre 2011, peraltro senza un voto di sfiducia parlamentare, e la contestuale presa del potere da parte dell’esecutivo “tecnico” imposto dal Quirinale provocarono un cambio di strategia economico-contabile su questo specifico intervento. Con decorrenza 1.1.2012 vennero abrogate le fasce di importo, l’imposizione fu uniformata nella misura dell’1 per mille e, soprattutto, la base imponibile dell’imposta fu calcolata non più sul valore nominale, ma sul valore di mercato degli strumenti finanziari. Ecco il punto che intendiamo analizzare. Nel corso di questi ultimi due anni, con lo spread alle stelle, nel deposito titoli dei risparmiatori sono entrati, se acquistati, titoli del debito pubblico (ma anche obbligazioni emesse da imprese) con cedole più elevate rispetto ad emissioni precedenti. In presenza di tassi decrescenti e con uno spread a circa 300-350 punti base ben lontano da quota 600 è ovvio che i prezzi e quindi i controvalori siano sensibilmente aumentati gonfiando il valore complessivo del deposito titoli e ampliando così la base imponibile dell’imposta di bollo. Si è trattato – questo è il nostro giudizio – di un vero “capolavoro” del governo tecnico. Lo scaltro provvedimento del tardo autunno 2011, mediaticamente focalizzato sul superamento delle inique fasce di importo, distolse l’attenzione dal vero obiettivo della riforma: l’aumento della base imponibile ottenuto con le previsioni delle dinamiche economico-temporali dei prezzi ed attuato con il rovesciamento normativo della base di calcolo: dal valore nominale, non più conveniente per le casse statali e le logiche europee, al valore di mercato, penalizzante per i risparmiatori. Considerando le modalità di attuazione della riforma, potrebbe non risultare lontana dalla realtà una analogia tra, da una parte, l’azione combinata delle centrali della speculazione finanziaria sullo spread e le riforme legislative di un esecutivo che di esse è l’espressione e, dall’altra, le operazioni comunemente riferibili ad insider trading. Pochi sanno ed agiscono in anticipo; la massa, all’oscuro, paga le conseguenze. E il conto. Stefano De Rosa |
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