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Il colonialismo delle multinazionali |
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Si chiama “land grabbing” e si può tradurre come l’accaparramento di terre da parte delle grandi Corporations di tutto il mondo, ma anche di governi occidentali e non. Il tutto s gli occhi delle grandi organizzazioni internazionali che preferiscono chiudere un occhio portando avanti l’improbabile tesi della necessità di uno sviluppo economico assistito per i paesi arretrati. Il fenomeno si differenzia dalla semplice delocalizzazione delle industrie per trovare manodopera a basso costo perché si parla di una vera e propria svendita di terre e di tutte le fonti energetiche, idriche e minerarie presenti su di esse. Per capire il fenomeno bisogna innanzitutto partire dai numeri, che non lasciano dubbi: dal 2000 circa 100 milioni di ettari di terreno africano sono stati venduti o concessi in locazione (fino a 99 anni) dai governi a società multinazionali o a enti pubblici stranieri. Oltre a soggetti provenienti da Nord America ed Europa, negli ultimi anni abbiamo assistito a un sempre più massiccio acquisto da parte di investitori cinesi e arabi che a causa della grande crisi agricola del 2007-2008 si sono spinti nel continente nero per aumentare il proprio bacino di produzione, anche per trovare un rimedio alla continua crescita delle popolazione interna. Chi crede che il colonialismo sia finito nella seconda metà del novecento con la progressiva indipendenza dei paesi occupati si sbaglia di grosso. Il processo di decolonizzazione ha lasciato, soprattutto in Africa sub sahariana, una situazione di instabilità politica che è ancora evidente. E se prima erano gli stati sovrani, oggi nel XXI secolo sono le multinazionali a decidere il destino di centinaia di milioni di persone. Le istituzioni locali, colpite da una corruzione sistemica e incapaci di gestire i conflitti etnici che sono la causa di vere e proprie guerre civili, sono le prime responsabili di queste svendite a costi irrisori. Per pochi dollari l’ettaro i governi concedono lo sfruttamento agricolo e delle materie prime che sono presenti in abbondanza, visto la mancanza di mezzi che diano modo di sviluppare tecnologie adeguate a ottenerne la disponibilità. L’Africa è potenzialmente un continente che potrebbe dissetare l’intera popolazione, grazie alle enormi falde acquifere che occupano il ssuolo, ma quello che manca è la volontà delle organizzazione internazionali, Onu e Banca Mondiale in primis, di procedere nella direzione giusta che non è quella di abbandonare le nazioni in mano ai grandi capitali internazionali. Si sente spesso parlare di piani di sviluppo condivisi tra multinazionali e autorità locali, della necessità di creare un tessuto sociale e aumentare l’occupazione, ma la realtà dei fatti è un’altra e non corrisponde a quello che ci viene detto dalle fonti ufficiali. Le comunità presenti sul territorio, prive di qualsiasi tutela, sono spesso cacciate dai propri insediamenti e i posti di lavoro creati non sono in grado di riassorbire i danni. Basti pensare che spesso i campi non sono destinati a essere coltivati ma vengono distrutti per produrre biocarburanti con un impatto ambientale non trascurabile. Quando il terreno è destinato all’attività agricola, intensiva ovviamente, i frutti vengono per il 70 % esportati nei mercati esteri e negli Stati che si sono spinti nel continente nero a causa del crescente fabbisogno alimentare. Il problema si pone dal momento che sulla carte le terre oggetto di vendite da parte dei governi, sono di nessuno. Possiamo citare il caso dell’Organizzazione non governativa Oxfam Italia che dal 2011 sta portando avanti un’iniziativa di denuncia nei confronti della compagnia di legname britannica New Forest Company, rea di aver cacciato dalle proprie abitazioni 22.500 persone senza che gli fosse offerto nessun indennizzo o terreno alternativo. Ovviamente la società è stata finanziata dalla Banca Mondiale che non ha vigilato affinché le norme sociale ed ambientali venissero rispettate. La situazione più preoccupante è sicuramente quella che riguarda le privatizzazione delle fonti idriche per la popolazione locale. Negli ultimi anni c’è stata una vera e propria corsa all’oro blu da parte delle multinazionali del settore, tant’è che si è parlato di “petrolizzazione dell’acqua” per indicare il tentativo di sfruttare al meglio questo bene fondamentale. La situazione è paradossale: l’IFC (International finance corporation) finanzia le grandi società (es. Nestlè) perché sfruttino, per il loro profitto, i bacini inutilizzati a causa della mancanza di strutture che i governi non si possono permettere. In definitiva buona parte del miliardo e mezzo di persone nel mondo che non ha accesso all’acqua potabile si vede imbottigliare s il naso un bene di sua proprietà a causa di un’amministrazione scellerata che affonda le radici nelle teorie nel capitalismo più sfrenato, a vantaggio di pochi. Ovviamente il prod finale viene esportato per finire nei nostri supermercati. Il fenomeno è stato oggetto di studio per tre ingegneri italiani all’University of Virginia. I nostri “cervelli in fuga” hanno dichiarato che per coltivare 47 milioni di ettari cubi oggetto di land grabbing servono circa 450 miliardi di metri cubi d’acqua, superficie che corrisponde a quasi dieci volte il Lago di Garda. Numeri che non lasciano dubbi e ci rendono consapevoli che la privatizzazione dell’acqua è una vera e propria battaglia per i diritti umani. Emblematico è il caso del bacino del Nilo, le cui zone limitrofe sono oggetto di investimenti stranieri che rischiano di sconvolgere i trattati del 1959. Alcuni mesi fa l’amministratore delegato della Nestlé (che controlla un enorme fetta di questo mercato) ha proposto addirittura di costituire una Borsa mondiale dell’acqua, parole che ci fanno capire come questa risorsa stia sfuggendo alla concezione di bene comune e che la strada intrapresa sia quella di diventare una merce il cui prezzo è deciso da gruppi finanziari. Il sistema capitalista non può permettere che la fonte di vita primaria per l’intera umanità diventi sempre più accessibile e disponibile a basso costo. Pochi giorni fa il presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim ha descritto il momento come “propizio” per la storia e che grazie alle favorevoli prospettive economiche saremo in grado, entro una generazione, di ridurre a percentuali bassissime la povertà estrema sulla terra. Probabilmente il medico statunitense (nato a Seul) prima di affermare simili amenità dovrebbe rendersi conto del fallimento del modello liberista, del sistema economico senza limiti né regole, che lo porta a sostenere certe tesi. Non assisteremo al tramonto di una simile condizione nel 2030 perché questo modello di sviluppo ha fallito e la direziona intrapresa non farà che aumentare il divario tra nord e sud del mondo. E’ necessario quindi riordinare le idee e prendere atto che non è possibile fondare la crescita su un unico criterio, quello del profitto, e che per ricominciare bisogna partire da parole come equità e sostenibilità. E in attesa che la “mano invisibile” riesca a trovare l’equilibrio nel mercato, speriamo che le organizzazioni internazionali, invece di finanziare le guerre anglo-americane, facciano uno sforzo condiviso per risolvere questo scempio. Guglielmo Verneau |
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