Manca un governo ma lo spread scende ancora
 











Palazzo Chigi
la sede del governo

Lo spread tra i Btp italiani decennali e i Bund tedeschi è sceso ieri mattina in apertura a 285 punti con un rendimento del 4,1% per poi calare ancora a 280 al 4%. Le reazioni dei mercati finanziari (e degli speculatori) alle vicende politiche italiane quindi sono state ancora una volta all’insegna della prudenza. La stampa allineata italiana ha accolto con esultanza il ribasso all’insegna del: “è tutto merito di Napolitano”, “i mercati sanno che ridurremo il debito e faremo le riforme strutturali”, “i mercati confidano che faremo pure le riforme istituzionali con un sistema elettorale maggioritario”. Chiunque può aggiungere altre a queste considerazioni. La verità vera è che i mercati (e gli speculatori) anglofoni, perché di quelli si tratta, hanno preso atto da tempo che fare il solito giochetto al ribasso sul valore di mercato dei Btp non vale più. Si potrà pur mettere in difficoltà temporaneamente l’Italia, obbligandola ad alzare gli interessi sulle emissioni future, aggravando lo stato della finanza pubblica e indebolendo di riflesso il sistema dell’euro, ma la strategia messa in piedi almeno in questa fase produrrebbe pochi effetti e sarebbe troppo dispendiosa in termini di risorse impiegati.
Ora a tenere calme le acque ci sono sia il fondo permanente salva Stati che può comprare titoli da 5 a 10 anni, sia la Bce di Mario Draghi che può comprare quelli da 1 a 3 anni. In una fase di recessione come questa, che dura da quasi 5 anni, un crollo dell’Italia e dell’euro avrebbe effetti devastanti anche per gli Stati Uniti le cui esportazioni verso l’Europa crollerebbero drasticamente. Gli Usa vivono una fase economica molto difficile con una disoccupazione in sensibile aumento che riflette il forte indebitamento di banche, famiglie ed imprese. Le continue richieste rivolte all’Europa di fare di più per la crescita economica, utilizzando politiche “keynesiane” all’insegna di un maggiore indebitamento e quindi della fine
dell’austerità imposta dalla Commissione e dalla Bce, sono rimaste finora lettera morta. Soprattutto per il no deciso della Germania. Angela Merkel non vuole dismettere le vesti di mastino dell’Unione. Una resa che comporterebbe il via libera ai Paesi più indebitati ad allentare le redini della spesa e non praticare più la politica del rigore. Una cessione che gli elettori tedeschi non le perdonerebbero facendola uscire sconfitta dalle elezioni politiche del prossimo 22 settembre.
Il comportamento dei mercati finanziari e degli speculatori nei riguardi dell’Italia resta apparentemente incomprensibili. Lo spread a 280 punti si accompagna ad un debito pubblico che, come ha certificato ieri l’Eurostat ha raggiunto il 127% sul Prodotto Interno Lordo. Un livello enorme che dovrebbe comportare uno spread ugualmente elevato. Ma non è stato così. Curioso, perché nel novembre 2011, il debito al 120% e lo spread a 570 comportarono la caduta di Berlusconi e l’avvento del governo di salute
pubblica guidato da Mario Monti, l’ex consulente di Goldman Sachs e di Moody’s. Due società che, a diverso titolo, avevano speculato contro l’Italia. Un gioco che è continuato anche con Monti a Palazzo Chigi, a dimostrazione che i rapporti passati contano fino ad un certo punto e che le pause che vengono concesse sui mercati ai nostri Btp sono legate agli impegni presi sulle misure di politica economica adottate. Non tanto il lavoro da rendere più precario e flessibile per permettere alle imprese di generare maggiori profitti quanto la (s)vendita futura delle aziende ancora sotto controllo pubblico come Eni, Enel e Finmeccanica. E su questa precisa variabile e sugli impegni che verranno assunti da questo o quel governo che potrà appoggiarsi il periodo di relativa bonaccia finanziaria che dura da quattro mesi e che dovrebbe o potrebbe durare ancora a lungo.
Ieri l’Eurostat ha certificato le cifre del debito e del disavanzo pubblico per i Paesi dell’Unione. Dopo la Grecia con il
156,9%, l’Italia con il 127% a fine dicembre 2012 è quella che se la passa peggio in termini di debito. Un livello record (pari a 1.988,658 miliardi) che il governo ha cercato di minimizzare compiacendosi invece per il calo del disavanzo dal 3,8% al 3% in un anno. Riduzione resa però possibile, è appena il caso di ricordarlo, grazie ad un aumento delle tasse, tra inasprimento dell’Iva e introduzione dell’Imu.
C’è semmai da tenere presente che il rapporto del 3% di Eurostat è lievemente superiore al 2,9% previsto dalla Commissione europea nelle previsioni economiche d’inverno pubblicate a febbraio. La media dell’Eurozona è del 3,7% rispetto al 4,2% di fine dicembre 2011. Al contrario il debito ci penalizza visto che la media (un peggioramento dall’87,3% al 90,6% di dicembre scorso) è inferiore di molto al tetto italiano. Al contrario, nell’intera Europa dei 27 Paesi, il deficit è sceso dal 4,4% al 4% e il debito è salito dall’82,5% all’85,3%. Dati che farebbero concludere che l’euro
si è trasformato da tempo in una iattura per l’economia reale.
I più bravi per il debito sono Estonia (10,1%) e Lussemburgo (20,8%) mentre i due Paesi guida dell’Unione Germania (81,9%) e Francis (90,2%) nonostante le loro ambizioni di essere considerati una coscienza critica, brillano per le loro difficoltà. Quanto al disavanzo sono ben 11 Paesi sui 17 dell’euro, quelli che non lo hanno ridotto al 3%. Svettano, si fa per dire, i cinque costretti a chiedere gli aiuti internazionali degli usurai: Spagna, Grecia, Irlanda, Portogallo e Cipro.Filippo Ghira