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Autorità e governo tecnico |
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Il Governo Monti è in “zona Cesarini” e la rapida consunzione della “formula” accompagnata dalla sonora sconfessione elettorale ripropone una questione affrontata – tra gli altri (non molti) nel secolo scorso – da due acuti giuristi come Ernst Forsthoff e Carl Schmitt. La prima è se lo Stato “sociale” abbia bisogno di autorità; la seconda se tale autorità possa non essere politica. Al primo interrogativo Schmitt rispondeva che lo Stato “interventista” proprio perché tale più dello Stato “guardiano notturno” deve intervenire in materia economico-sociale e nelle relative crisi. All’uopo anche servendosi dei poteri allo stato d’eccezione, perché ciò “risponde alla particolarità concreta della situazione eccezionale di uno Stato economicamente assediato, soggetto a tributi e che contemporaneamente assume su di se il carico di prestazioni sociali”1; per cui “ne segue la conclusione che sulla base dei poteri eccezionali sono ammissibili ordinanze anche con contenuto di diritto finanziario”2. Forsthoff sostiene che “Anche lo Stato sociale moderno come stato della ripartizione ha i suoi casi di emergenza... il vero caso di emergenza dello stato sociale è quello dello Stato che ripartisce, che cioè il reddito nazionale non aumenti più o addirittura cali” per cui “Si può constatare, che questo moderno stato sociale e di ripartizione, sia soggetto al paradosso che dapprima esso rende impossibile un vero potere, ma successivamente, in caso di crisi, di pericolo per la sua esistenza, ha bisogno di potere ed autorità in misura molto maggiore di ogni altro stato”3. Lo Stato sociale trova la sua funzione e carattere peculiare nella ripartizione. “Lo stato di diritto è stato sociale in virtù della ripartizione del reddito nazionale... Questo processo di ripartizione si nasconde per così dire in tutto ciò che questo Stato fa: si cela ad esempio nella moneta, nel regolamento di una determinata forza d’acquisto del marco, nello sconto delle cambiali, nell’organizzazione delle forze di lavoro, e soprattutto nelle tasse... tutta la nostra vita comunitaria, determinando la politica interna attraverso le leggi, è permeata fin nei particolari da questa idea e principio di ripartizione”4. Questa funzione essenziale è posta in crisi dalla stagnazione e ancor più dalla diminuzione del reddito nazionale. Come l’operato del governo Monti ha confermato – e in certa misura - anche incentivato. Il calo del PIL e l’aumento delle imposte non ci ha evitato la crisi (ed il costo di questa) ed ha già provocato – cosa di cui ancora non si parla, o si parla poco, già un anticipato consumo, delle imposte future e una restrizione della base imponibile. Perché, sottolinea Fortsthoff anche se “questo sistema del nostro stato sociale, nel suo complesso, si basa sull’esclusione di un caso di emergenza”, il caso d’emergenza (specifico) c’è: la crisi economico-sociale. Malgrado si cerchi di negarlo e nasconderlo “la reazione a questo vero caso di emergenza della situazione contemporanea è il tentativo spasmodico di nascondere questa situazione come un tabù” ed emerge così un’antinomia fondamentale; proprio in questi frangenti lo Stato ha grande necessità di autorità: “Qui il problema dell’autorità, conserva tutto il suo pieno significato, in particolare di fronte ad ogni governo che sia difensore degli interessi dello stato e del popolo all’interno e all’estero”5 (certo, se non li difende... il problema si semplifica). Ed è qui la difficoltà, secondo Forsthoff, dato da “Il fatto che lo stato moderno non produce più una autorità istituzionale è fuori dubbio... perché i processi di selezione della moderna democrazia non producono l’effetto di creare autorità”. Quindi, malgrado le opinioni di opinionisti, politicanti, giuristi del “tutto va bene Madama la marchesa” per cui non c’è bisogno di autorità e di poteri eccezionali, il caso di emergenza si presenta anche in Stati “protetti”, soggetti al volere decisivo di altre potenze come la Germania degli anni ’50 (più che di oggi) e l’Italia (di oggi e di ieri) e quindi semi-spoliticizzati. Il fatto di voler la pace, di confidare per la difesa (e anche l’offesa) più nelle forze altrui che nelle proprie, non elimina il “caso d’eccezione” economico-sociale: come stiamo provando sulla nostra pelle e malgrado le chiacchiere dei Pangloss di regime. Ma c’è l’altro aspetto della riflessione dei due giuristi che merita d’essere ricordato: può essere l’autorità, che risolve le crisi non politica? Scriveva de Bonald che pretendere di far politica senza autorità è come pensare la geometria senza il concetto di estensione. La connessione tra politico e autorità è quindi stretta; tuttavia è noto che l’ “autorità” può condizionare tanti rapporti sociali, e non solo quelli politici. Così Kojève analizzando i “tipi” di autorità ne distingue quattro: quello del potere, del signore sul servo, del capo (e del maestro), del giudice. Comune ai quali è che gli atti dell’autorità si distinguono “da tutti gli altri per il fatto di non incontrare opposizione da parte di colui o coloro ai quali è diretto. E questo presuppone, da un lato, la possibilità di un’opposizione, e dall’altro, la rinuncia cosciente e volontaria alla realizzazione di questa possibilità”6. E ritornando all’autorità politica e al “governo tecnico”, non pare che il governo Monti non abbia incontrato opposizione, anzi ha fatto crescere a livelli inusuali. Il dissenso al “sistema” dato l’incremento dei voti al partito di Grillo, dichiaratamente anti-regime, è aumentato. L’autorità accademica del Governo Monti non si è convertita in autorità politica, com’era facilmente prevedibile e come Croce, in un notissimo passo sull’inadeguatezza dei tecnici al governo, aveva, implicitamente, previsto. Non resta che affidarsi al consueto modo di legittimare l’autorità in uno Stato moderno (e democratico): l’elezione e la legittimazione popolare. In uno Stato democratico “il potere dello stato deriva dal popolo, se ben inteso nei suoi presupposti fondamentali, possiede un’autorità naturale che non presenta alcun problema: cioè lo stesso popolo. Il principio democratico comporta l’autodeterminazione del popolo come autorità”. In una moderna costituzione democratica “la legittimazione diretta del popolo, così come la esprime l’elezione popolare diretta, senza dubbio determina la formazione di un’autorità”7. Ed è a questo che si deve arrivare: al cambiamento radicale della forma di governo della Costituzione vigente, sostituendolo con procedure di legittimazione democratico-plebiscitarie, in grado di esprimere e sostenere una reale autorità. Quello che i talebani della Costituzione vigente cercano d’impedire da sempre: con i risultati che abbiamo, purtroppo, sotto gli occhi. Teodoro Klitsche de la Grange 1 Der Hüter der Verfassung, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1981, p. 183. 2 Op. cit., p. 186. 3 In Stato di diritto in trasformazione, trad. it., Milano 1973, pp. 140 ss. 4 Op. cit., p. 136. 5 Op. cit., p. 142. 6 A. Kojève, La nozione di autorità, trad. it., Milano 2011, p. 20. 7 Forsthoff, op. cit., p. 133.
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