Pellegrinaggio a Berlino
 











Il primo atto pubblico del governo Letta è stato un viaggio a Berlino per riferire alla Merkel. Un refrain ormai consolidato, lo aveva già fatto Monti e anche Bersani in piena campagna elettorale si era preoccupato di andare in Germania a rassicurare la Cancelliera invece di preoccuparsi di convincere gli italiani. Si è visto poi come è finita. E la Merkel non ha mancato di far vedere la sua benevolenza per l’atto di vassallaggio, riconoscendo i passi fatti dall’Italia sulla via del "risanamento". Di che passi si tratti, non è chiaro, con l’economia in recessione, la disoccupazione in aumento e il numero di giovani fuori dal mercato del lavoro ai massimi storici.
Un buffetto per Letta, ma nella sostanza i tedeschi sono rimasti inflessibili sul punto saliente: i paesi in crisi devono fare i compiti a casa, le riforme strutturali. Leggasi, nessuno ha intenzione di aiutarli, la competitività dell’economia si ottiene riducendo i salari, la famigerata
deflazione interna, e l’austerity è l’unica maniera di farlo. Un messaggio, neanche tanto cifrato, che non è solo indirizzato all’Italia ma anche alla Francia di Hollande che da qualche giorno ha cominciato a chiedere allentamenti al vincolo di spesa. Letta non ha nemmeno provato a discutere la retorica dei conti a posto. Anzi, l’ha ribadita con orgoglio, degno erede del governo Monti, e di quella tradizione del centrosinistra italiano che dal 1996 in avanti ha fatto del bilancio in ordine la sua stella cometa. Come se le riforme strutturali fossero legate ai conti in ordine del governo: il problema in Italia è legato fondamentalmente alla bassa produttività (e non certo ai salari alti o alle rigidità del mercato del lavoro) e all’incapacità del settore privato di investire in ricerca e sviluppo, limitato dalla dimensione dell’impresa e dalla mancata coordinazione pubblica. Niente a che vedere col livello del deficit, come richiesto invece dal fiscal compact.
Letta naturalmente ha
anche detto che ora è il momento di parlare di crescita a livello europeo da accompagnare all’austerity dei conti. Anche in questo caso, però, sono parole trite e ritrite. Per oltre un anno Mario Monti ha parlato di fase due, con la crescita che sembrava sempre dietro l’angolo. E pure Prodi, in passato, non aveva resistito alla retorica della ripresa economica dopo le finanziarie lacrime e sangue. Queste ultime, sempre puntuali, mentre per la crescita è sempre stato come aspettare Godot.
Letta, come anche i suoi predecessori, scommette su un paradosso, mettendo insieme due concetti che, nello stato attuale dell’economia, sono inconciliabili: stretta fiscale e aumento del Pil. Ancora non sembra passare il concetto che le politiche fiscali restrittive uccidono l’economia reale quando questa è stagnante (come lo è stata in Italia per vent’anni) o addirittura in recessione, come ora. Il momento dell’austerity è la crescita, come diceva Keynes, non la crisi.
Il nuovo Primo Ministro
pensa di rimettere in moto l’economia semplicemente con un piano per rilanciare gli investimenti a livello europeo. Sarebbe un primo passo, ma assolutamente insufficiente. Intanto di che tipo di investimenti parliamo? Del Tav, che ha un effetto espansivo minimo, geograficamente limitato, con pochissime ricadute su altri settori e che sarà pronto tra una trentina d’anni? O invece, per esempio, del miglioramento della rete ferroviaria locale, che darebbe lavoro ad un numero molto maggiore di addetti, che migliorerebbe la qualità della vita di molti ma, soprattutto, renderebbe più efficiente il sistema economico, diminuendo i ritardi e le ore perse? Parliamo di soldi buttati negli F35, dove il valore generato dagli investimenti in Finmeccanica è inferiore alla spesa totale, o di ammodernare il sistema aeroportuale in disfacimento, con nessun aeroporto italiano incluso nella lista dei primi 100 al mondo – con buona pace della valorizzazione del turismo?
Più in generale, la spesa
pubblica – ovvero, l’opposto dell’austerity – è necessaria, mentre il settore privato è in ritirata. In pratica, le finanze statali devono reagire in maniera opposta a quello che succede nel settore privato, quando questo si indebita (investe) di meno, è lo Stato a dover sostenere l’economia, per evitare una spirale depressiva. Gli investimenti però non bastano, bisogna attuare politiche di sostegno attivo alla domanda – e, ovviamente, all’occupazione - per rilanciare i consumi e dunque cambiare le aspettative e gli investimenti del settore privato. In breve, altro che epica dei conti a posto, bisogna spendere di più per uscire dalla recessione. O ci si prepara a mettere la Germania con le spalle al muro o la crisi spazzerà via l’Europa. Nicola Melloni
Il fantastico mondo di Enrico Letta
Le unghie di Enrico Letta strisciano terribilmente sugli specchi su cui il neo-premier ha dovuto arrampicarsi quando nel suo tour europeo. Oggi, dopo il tet a tet con angela Merkel, ha incontrato
a Bruxelles José Manuel Barroso. E al presidente della Commissione Ue ha confermato "l’intenzione di mantenere gli impegni assunti dal precedente governo sul fronte dei conti pubblici ". Anzi – ha aggiunto – “Nelle prossime settimane presenteremo a Bruxelles il piano per rispettare gli impegni presi realizzando ciò che è scritto nel programma".
Barroso, da parte sua, si è detto “molto fiducioso del fatto che l’Italia uscirà dalla procedura per il deficit eccessivo", dove l’apertura di credito sembra solo un atto dovuto all’esordio del premier italiano sulla scena europea: un atto condito con quello che appare, tuttavia, un “avvertimento”. Concetto ribadito dal presidente del Consiglio dell’Ue Herman Van Rompuy: "Ho ribadito che l’Unione Europea continuerà a sostenere l’Italia nel perseguimento del nostro comune impegno al superamento della crisi economica e nella promozione della crescita e del lavoro; nel fare un uso pieno dell’esistente flessibilità mantenendo al contempo la
solidità delle finanze pubbliche”. Insomma, la quadratura del cerchio.
Come questo nuovo giuramento di fedeltà ai patti europei e all’austerity che ne è il prodotto derivato si possa conciliare con l’esigenza di mettere in campo risorse per la crescita e con il sostegno ai redditi più bassi è un mistero che difficilmente potrà essere svelato.
Il “piano di lotta contro la disoccupazione giovanile" di cui si favoleggia in Europa rischia di rimanere una pura dichiarazione di buone intenzioni, non suffragata da comportamenti concreti.
“Il successo o il fallimento di questo governo – aveva detto Letta nel suo discorso alle Camere riunite - dipende dalla capacità di superare "l’incubo" disoccupazione” e che “crescita e lavoro sono le priorità del suo Esecutivo: l’occupazione è il "cuore" di tutto, se noi non riusciamo su questo sono sicuro che non ce la faremo”. L’asse con Francois Hollande sembra, più che altro, una fragile assicella destinata a cedere sotto il peso delle non
risolte contraddizioni europee, sulle quali si innesta il groviglio dei problemi italiani.
La sensazione è che Letta parli lingue non conciliabili, a seconda dell’interlocutore che si trova di fronte: un gioco che ha le gambe corte e che verrà presto scoperto.
L"incubo" della disoccupazione, ed in particolare quella giovanile, affollerà ancora a lungo le notti del presidente del Consiglio. D.G.