Prematuri, ha prevalso l’accanimento terapeutico
 







di Grazia Zuffa




Il Comitato Nazionale di Bioetica ha approvato a maggioranza di sedici contro sei un documento dall’impegnativo titolo «I grandi prematuri: note bioetiche» (insieme a me, hanno votato contro Carlo Flamigni, Claudia Mancina, Laura Guidoni, Demetrio Neri e Monica Toraldo di Francia). La discussione sull’assistenza ai bambini che nascono in età gestazionale estremamente bassa ha risvolti importanti, di carattere medico ed etico. Da un lato il progresso tecnologico ha fatto sì che possano sopravvivere al di fuori del grembo materno neonati che fino a poco tempo fa non avevano alcuna speranza. Dall’altro, le cure intensive di rianimazione cui vengono sottoposti sono indubbiamente invasive e gravose, e con rischi iatrogeni importanti, stante l’estrema vulnerabilità di pazienti così piccoli: si pensi ad esempio a manovre quali l’intubazione tracheale, che sono ad alto rischio di lacerazione della trachea e di pneumotorace in età così precoci. Va anche aggiunto che via via che l’età gestazionale si abbassa, i progressi sono sempre più difficili poiché ci si avvicina alla soglia in cui il mancato sviluppo di alcune funzioni vitali del bambino, quali quella polmonare, rende la madre insostituibile; così come, ovviamente, più l’età gestazionale è precoce, più le cure intensive si risolvono in insuccessi. Si pensi ad esempio ad un recente studio toscano sui nati di 22 settimane, dove non si registra alcun caso di sopravvivenza. In sintesi, il dilemma etico suona così: è giustificabile infliggere ai piccolissimi trattamenti così pesanti quando nella stragrande maggioranza dei casi l’esito è nullo, col solo risultato di rendere più dolorosa l’esperienza della nascita? Può il medico decidere da solo, quando le sue conoscenze non sono in grado di guidarlo perché non esistono evidenze di appropriatezza degli interventi da mettere in atto? Come si può «garantire alla madre e al neonato adeguata assistenza», al contempo però evitando «cure inutili, dolorose e inefficaci, configurabili con l’accanimento terapeutico»?
Le citazioni sono dalla premessa della Carta di Firenze, documento redatto da numerose società scientifiche e dalla commissione di codice deontologico della Federazione dell’Ordine dei medici, presentato all’attenzione del Cnb già nel 2006, e di nuovo discusso nel Comitato insediato nel gennaio 2008. Per diversi mesi il Cnb ha lavorato per produrre un parere sulla Carta di Firenze; tuttavia, il documento approvato va oltre, volendo - si dice in premessa- «prendere atto del dibattito vivacissimo»e della cosiddetta Carta di Roma , ossia il documento di un gruppo di ginecologi romani che ha sollevato il problema della rianimazione neonatale in rapporto alla legge 194. Dunque, il parere si distacca dal più puntuale intento iniziale, e mette a fuoco anche il rapporto fra gli sviluppi tecnologici in merito ai prematuri e la problematica dell’aborto e della legge 194: si allinea cioè alla tematizzazione proposta dai vescovi e
dall’ala pro life più intransigente. L’interruzione di gravidanza diventa oggetto di un punto specifico nelle raccomandazioni: si rileva come la sopravvivenza di neonati giunti alla ventiduesima «imponga un profondo ripensamento in ordine alle modalità comunemente usate per le pratiche di aborto tardivo» a norma della legge 194. Il «profondo ripensamento» appare pretestuoso visti i casi limitatissimi di interruzione di gravidanza quando il feto può sopravvivere (semmai la legge sarebbe da lodare perché non indica alcun limite temporale, nella previsione dell’evoluzione delle tecniche); e inquietante, poiché nella specifica eventualità la norma è al massimo restrittiva: l’aborto è permesso nei soli casi in cui la gravidanza e il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna.
La partita si gioca dunque sul piano ideologico. E politico: si sceglie di allargare il campo, a scapito della ricerca di un terreno comune fra sensibilità etiche diverse. Il Cnb pare allinearsi
alla logica maggioritaria: non è importante il dialogo, quanto il prevalere di una posizione sull’altra.
Il giudizio si conferma quando il documento entra nelle questioni di merito all’assistenza. La Carta di Firenze si limita ad individuare criteri di cure proporzionate, solo in base alle possibilità di sopravvivenza dei neonati. Non è l’unico problema etico in campo. Anche la scelta di applicare cure intensive a piccoli pazienti in vista di una vita breve e dolorosa, ha una sua rilevanza: ma è un discorso che registra più aspre divisioni, e che è opportuno non affrontare: per ricercare, ancora una volta, una convergenza fra posizioni differenti e promuovere pratiche più umane. Invece il testo votato continua ad accostare la questione della gravosità delle cure a quella della gravosità della vita che aspetta molti di questi bambini. Per distinguerle, in apparenza; in realtà, per suggerire che l’evocazione della sofferenza legata alle cure «nasconda» il tema della qualità della
vita. Un modo ambiguo per eludere il tema della gravosità delle cure e, insieme, della «proporzionalità» delle terapie che la Carta propone. Se infatti il tema della sofferenza è accantonato, nessuna cura diventa «sproporzionata». E vero che si condanna l’accanimento terapeutico e si plaude alla Carta per aver sollevato il problema della morte dignitosa di questi bambini; ma nella sostanza la si respinge, tanto da ritenere «non eticamente giustificabile» la proposta di non sottoporre a cure intensive i neonati di 22 e 23 settimane, salvo nei casi in cui mostrino capacità vitali significative. E’ quanto peraltro suggeriscono le linee guida internazionali. Così l’accanimento terapeutico rientra dalla finestra; di fatto, a totale discrezione del medico, visto che il tanto lodato coinvolgimento dei genitori non ha comunque alcun valore vincolante. Di nuovo, è il carattere straordinario degli interventi intensivi al di sotto delle 25 settimane a richiedere il rispetto della volontà dei genitori: negando l’uno, si nega l’altro. L’etica della Vita come valore assoluto precipita in una visione della Tecnologia e della Medicina come poteri assoluti: sciolti cioè da qualsiasi approccio critico e perfino da vincolo, umano direi, coi soggetti sofferenti. Ripenso all’audizione dello scorso anno, quando a riprova dell’incertezza circa le terapie più opportune fu citato un recente studio danese: le cure minime non invasive raggiungono pressoché gli stessi risultati, in termini di sopravvivenza, delle cure aggressive: con risultati migliori rispetto alla salute di chi sopravvive. Uno studio che permette uno sguardo critico sulle tecnologie, e che proprio per questo non è stato neppure preso in considerazione. C’è di che avere paura.de Il Manifesto