Identità nello specchio
 











Al principio c’è lei: la Tentazione. Che si declina in tutte le possibili combinazioni, a cominciare da quella di fuggire: “fuggire è questo vivere nei giorni”, recita un verso del Novecento.
Sì, se i giorni sono un calendario inesorabile dove un marito si deve districare fra un molosso ringhiante travestito da suocera, una madre/mater pietosa che non l’ha fatto crescere, l’ha soverchiato di quell’amore comprensivo che indebolisce il carattere, di una moglie/statuina che a forza di sentire ripetere che meritava di più, che quel fannullone lì non era l’uomo giusto, ha finito con il rinfoderarsi nel bugigattolo della sua guaina e non tirare fuori un sentimento che dicasi uno. Questa la vita di Mattia Pascal, anzi “Il Fu Mattia Pascal”, primo romanzo di Luigi Pirandello, presente sulla scena del Quirino, trasformato in testo teatrale da Tato Russo, che cura anche la regia e dà vita al personaggio eponimo. Mattia Pascal è un omino che in seguito a
raccomandazione dell’assessore di turno, santo locale preposto alla conquista, ora come allora, di un posticino per la sopravvivenza, diventa vice bibliotecario, incarico da condividere fra la polvere con le generazioni di topi, che lì si sono pasciuti e ne reclamano il diritto, parsimoniosamente pagato, tanto che se non ci fossero quei quattro denari rappattumati dalla vendita dei pochi ori materni si farebbe la fame. Poi di colpo, ecco, la Tentazione gira magnanima il suo sguardo briccone e lo specchio di Alice accende la luce verde. Ora si può giocare, nientemeno che con la vita e la morte e sconfiggere l’ultima perdendo la prima, con il privilegio di sapere che è tutto per gioco e per caso e che in realtà la vita c’è ancora e che la si può gustare in quello scintillante casinò di Montecarlo, fra belle donne e uomini pronti a tirarsi un colpo alla tempia. Ma c’è chi vince, come Mattia. Ora è ricco, libero e mentre la Tentazione si traveste del corpo di una donnina adescatrice, mentre il treno del ritorno nell’inferno domestico già sibila, libero anche di leggere sul giornale che è stato riconosciuto in un cadavere cui l’acqua del fiume ha sottratto i lineamenti. E allora Mattia può attivare la corda folle della Tentazione e decidere di trasferirsi in un nome e in un cognome diversi, diventare un Adriano Meis, esotico e senza appartenenze, venuto chissà da dove a Roma, nella pensioncina che guarda il Tevere e i tramonti barocchi sul Cupolone.
E qui la beffa, innamorarsi di una donnina tutta fragilità e tenerezza, un personaggio come una emanazione di materia sottile, ectoplasmatico, che riproduce alla lontana quella moglie senza carattere. E la suocera? Chi impersona il suo ruolo? Avida e crudele com’era? Qui c’è il cognato, vedovo della sorella di Adriana, che dovrebbe restituire la dote, quelle dodici mila lire ( allora ci si comprava un palazzo in città) che la povera morta aveva avuto dal padre e che doveva servire per il suo mantenimento. Questo
cognato manigoldo e ladro è tentato da quella valigetta che Adriano/Mattia tiene nascosta, che contiene il suo tesoro, dal quale può rubare senza pericolo le dodicimila lire da restituire, per poco, però, certo di averle indietro, impalmando la cognata Adriana, non fosse per lo sconosciuto venuto a disturbare i progetti. Il garbuglio diventa intricato come una foresta di mangrovie: ci sono esseri che si sono riciclati, in una improbabile coppia sudamericana, ad esempio, maschere intercambiabili ( Tato Russo genialmente utilizza gli stessi attori per rendere più visibile l’effetto), e bisogna arrendersi all’inevitabile, se non esisti che virtualmente non hai protezioni sociali, non puoi denunziare un furto, non puoi difenderti dall’accusa di molestatore, e l’amore per Adriana, quel bacio rubato complice il buio, non ha diritto alla sopravvivenza se non nel tessuto leggero della fantasia. Non resta che fuggire dai giorni e nei giorni, tornare dopo tre anni a indossare la pelle, le ossa e le viscere di Mattia Pascal. Ed ecco lo specchio riaccendersi, ecco il treno che ritorna indietro, che corre lungo le medesime parallele, che lo riporta al paese. Ma si può varcare il confine senza conseguenze? Davvero si può entrare e uscire dalla morte quando ci aggrada, si chiede Pirandello? Perché l’assenza ha creato nuovi linguaggi ed equilibri. C’è ancora posto per chi dopo essere partito pretende di tornare? In questo adattamento che converte i codici narrativi in drammaturgici c’è l’unica risposta finora possibile. Sobrio, credibile, naturale Tato Russo, Mattia/Adriano e la sua voce narrante, sovrastante nel nero a temporale della scena, dice no, a gran voce. La vita e il suo carico di briscola sono lì, impegnati in una partita che ci vede sconfitti sempre, facendoci dono dell’ironia per tentare di spezzare il fatalismo e le coazioni a ripetere gli errori, con le sue marionette bifronti, sempre le stesse, determinate in un a-priori che non ci appartiene, come se il cesto consegnatoci alla nascita, quando non sapevamo rifiutare contenesse già tutto quello che ci toccherà incontrare nella vita, anche le persone, i sentimenti e la grande beffa. Ma se siamo qui, a recitare la parte, maschere inevitabili, possiamo accettare, anzi apprezzare questo allestimento dove i personaggi sono tutti lì, pronti ad entrare ed uscire dal ruolo, e a prendere vita con la potenza di un occhio di bue che li illumina in una scena sobria e quasi vuota di Tony Di Ronza, che si anima di oggetti coperti da tele fino al momento del loro utilizzo. Se partire è un po’ morire, tornare assicura solo la possibilità di una sentita preghiera sulla tomba che rinserra l’identità perduta. Il fu Mattia Pascal per l’appunto. In scena Katia Terlizzi, Francesco Acquaroli, Marina Lorenzi, Renato De Rienzo, Massimo Sorrentino, Francesco Ruotolo, Antonio Rampino, Peppe Mastrocinque, Carmen Pommella, Sarah Falanga e Davide Sacco, vestiti da Giusi Giustino si animano sul tessuto musicale assai sobrio di Alessio Vlad. Franzina Ancona