Palestina, Da Israele una nuova provocazione coloniale
 











Un nuovo progetto per la costruzione di 296 appartamenti nell’insediamento di Beit El, è questa la nuova provocazione israeliana giunta all’indomani dell’ondata di polemiche provocata dal fermo del gran mufti di Gerusalemme.
Provocazione che tocca nel vivo l’Autorità nazionale palestinese, sia perché l’insediamento in questione si trova nei pressi di Ramallah, sede del governo dell’Anp, sia perché appena una settimana fa il presidente Mahmud Abbas aveva nuovamente aperto la porta a possibili negoziati di pace con la controparte. Per di più, secondo fonti militari vicine all’esecutivo di Banjamin Netanyahu citate dalla stampa locale, i nuovi alloggi sarebbero destinati a un gruppo di coloni già residenti in un insediamento illegale nei pressi Beit El, ma che avevano accettato di sgombrare in cambio della promessa di nuove case. A quanto pare dunque l’esecutivo israeliano, nonostante le promesse del suo premier, sta facendo soltanto il gioco delle
tre carte con le proprie colonie: limitandosi a spostarle senza in realtà ridurne il numero.
Un trucco di basso livello balzato subito agli occhi delle organizzazioni per i diritti umani, che hanno denunciato questa ridicola pratica, e degli stessi vertici dell’Autorità palestinese, che hanno parlato di grave minaccia al processo di pace. “Condanniamo questa nuova decisione che è la prova che il governo israeliano vuole sabotare e rovinare gli sforzi dell’amministrazione Usa per rilanciare il processo di pace”, ha affermato il capo negoziatore dell’Anp, Saeb Erekat, secondo il quale l’autorizzazione alla costruzione di nuovi alloggi è “un messaggio indirizzato a Washington”.
Già, perché a differenza dell’esecutivo di Ramallah, che obbedisce senza discutere a ogni ordine della Casa Bianca, il governo di Tel Aviv nel corso degli ultimi anni ha procurato più di un imbarazzo agli alleati d’oltre oceano, impegnati a salvare le apparenze di fronte la comunità internazionale.
Una
comunità internazionale in realtà conscia delle violazioni israeliane nei territori palestinesi e delle loro conseguenze, come testimonia lo studio delle Nazioni Unite diffuso ieri sugli effetti della politica di Tel Aviv a Gerusalemme est, ma che resta immobile a guardare il lento deteriorarsi della situazione.
“L’economia di Gerusalemme Est non è integrata nell’economia palestinese né in quella israeliana: da dieci anni la povertà non cessa di aumentare a causa dell’isolamento della città rispetto al resto del territorio palestinese dopo la Seconda Intifada e la costruzione del muro di separazione”, si legge nel testo redatto dalla Conferenza Onu per il Commercio e lo Sviluppo. Secondo i dati rilevati dal Palazzo di vetro nel 2010 l’82 per cento dei bambini palestinesi di Gerusalemme Est, destinata a diventare la capitale del futuro Stato di Palestina, vivevano in povertà. Le stime evidenziano inoltre come dal 2003 a oggi, il muro di separazione che circonda la Cisgiordania voluto
da Israele, abbia provocato oltre un miliardo di dollari di perdite dirette all’economia della parte orientale della Città Santa. La situazione non è certo migliore nel resto dei territori palestinesi, dove la costante espansione degli insediamenti illegali continua a sottrarre terreno coltivabile o edificabile alle famiglie arabe. Una realtà ormai sotto gli occhi di tutta la comunità internazionale, ma per cambiare la quale nessuno, almeno in Occidente, sembra disposto a muoversi.
Colonna di nuvole. Uccisi più civili che milizianiÈ stata tutt’altro che chirurgica, come l’avevano invece definita i media israeliani, l’operazione “Colonna di nuvole” compiuta dalle forze armate di Tel Aviv sulla Striscia di Gaza nel novembre dello scorso anno. Secondo quanto evidenziato da un rapporto redatto dall’organizzazione dei diritti umani israeliana B’tselem, infatti, dei 167 palestinesi uccisi durante il conflitto, solo 69 erano combattenti. Sempre stando ai dati forniti dall’ong, che denuncia
la violazione del diritto umanitario internazionale, la maggior parte delle uccisioni sarebbe avvenuta nella seconda parte dell’operazione: negli ultimi quattro giorni delle 87 vittime totali fatte dai raid dell’aviazione di Tel Aviv, ben 70 erano civili. Il rapporto mentre in risalto, quindi, dati che dovrebbero cambiare la percezione dell’operazione sia agli occhi della comunità internazionale sia della stessa popolazione israeliana. Non poteva quindi mancare una risposta a quanto riportato dalle autorità militari di Tel Aviv, le quali hanno fatto saper che “la maggior parte dei casi in cui sono stati uccisi civili palestinesi è stata già esaminata” ma che ancora una volta “non ci sono giustificazioni per avviare indagini su reati”.Colonna di nuvole. Emanuele di Cosimo
Uccisi più civili che miliziani
È stata tutt’altro che chirurgica, come l’avevano invece definita i media israeliani, l’operazione “Colonna di nuvole” compiuta dalle forze armate di Tel Aviv sulla Striscia di
Gaza nel novembre dello scorso anno. Secondo quanto evidenziato da un rapporto redatto dall’organizzazione dei diritti umani israeliana B’tselem, infatti, dei 167 palestinesi uccisi durante il conflitto, solo 69 erano combattenti. Sempre stando ai dati forniti dall’ong, che denuncia la violazione del diritto umanitario internazionale, la maggior parte delle uccisioni sarebbe avvenuta nella seconda parte dell’operazione: negli ultimi quattro giorni delle 87 vittime totali fatte dai raid dell’aviazione di Tel Aviv, ben 70 erano civili. Il rapporto mentre in risalto, quindi, dati che dovrebbero cambiare la percezione dell’operazione sia agli occhi della comunità internazionale sia della stessa popolazione israeliana. Non poteva quindi mancare una risposta a quanto riportato dalle autorità militari di Tel Aviv, le quali hanno fatto saper che “la maggior parte dei casi in cui sono stati uccisi civili palestinesi è stata già esaminata” ma che ancora una volta “non ci sono giustificazioni per avviare indagini su reati”.