Cicciano, un paese nel mondo
 











Cosa può fare la parte sana della società per contrastare una politica egemone che, attraverso vari stratagemmi (alcuni dei quali spudorati e offensivi), riesce a detenere posti di governo, ignorando in tal modo la voce che invoca il cambiamento? E se quella parte sana vive in un comune del Sud, in particolare della provincia di Napoli, dove è consentita un’osmosi di poteri criminali le cui diramazioni sono ormai ben note entro e oltre i confini nazionali, può ancora sperare di essere ascoltata o, piuttosto, deve soffocare la sua voce più di quanto non facciano già i fumi degli innumerevoli roghi tossici e i miasmi dei rifiuti industriali seppelliti nelle campagne o usati per costruire strade, case e asili?
Le risposte non possono essere semplici, come invece erano le vite di quei cittadini, della cui bontà hanno approfittato in tanti.
La campagna rigogliosa si estendeva a perdita d’occhio, ed io mi ci potevo tuffare. Lasciate alle spalle le
ultime abitazioni, cominciavo a percorrere la strada – una sorta di mulattiera – che mi conduceva alla solita meta, una fontanina situata in un’amena zona campestre chiamata “Tavernanova”. Una volta sul luogo, mi rinfrancavo dalle estenuanti fatiche e di lì a poco ripartivo alla volta di nuovi cantucci.
Quella testé descritta sinotticamente, era la prima di una lunga serie di giornate, vissute durante le vacanze estive. La sensazione più vivida che mi sovviene, è la totale assenza di minacce, di qualunque sorta. Quella giornata, apparentemente semplice, riaffiorava nella mia mente molto prima, per l’esattezza allo sbocciare dei primi fiori, che pressappoco coincideva con il periodo pasquale, durante il quale cominciavo a pregustare sapori, profumi e immagini di un momento particolare, a tratti magico e misterioso. Questo fermento delle mie cellule – una sorta di sublimazione – raggiungeva il suo apice durante l’ultima settimana di scuola. A partire dal lunedì, la mia impazienza
diveniva incontenibile. Una tale gioia che sprizzava da tutti i pori; il tipico colore verde dei banchi mi catturava e il vociare festoso dei miei compagni di classe mi perveniva alla stregua di un ininterrotto canto, diretto dal maestro il quale, soddisfatto ampiamente del profitto, sembrava accompagnarmi con lo sguardo in quel mio agreste preludio. E così, fantasticando, balzavo dal banco alla mia bicicletta, a bordo della quale davo inizio a quel tuffo tanto vagheggiato.
Oggi, a distanza di anni – circa trentacinque – quell’immagine m’imperla gli occhi, e non perché sia cresciuto io, ma perché è stato pugnalato il mio paese. Spesso mi viene in mente una frase di Emily Dickinson, estratta dalla sua lettera al mondo (compreso Cicciano): «Imparai presto a non aspettarmi niente dagli altri».
Vorrei che qualcuno, trovandosi a posare gli occhi su queste parole, mi aiutasse a decifrare quella frase. Intanto, espongo la mia esegesi, sull’onda dell’emotività. Prendendo in esame la
parola “niente”, le si può attribuire un solo significato: niente di buono. Ma una simile difesa, in cui predominano parole forti, è possibile a Cicciano, o in altri luoghi derelitti? In altri momenti li visiterò ma, per ora, resto nel breve raggio, costringendo – per quanto possibile – la mente e l’anima ad arrivare solo fin dove arriva la mia vista.
Rivolgo questo scritto innanzitutto ai politici onesti, molti dei quali rinchiusi nelle loro case.
In alcune regioni, la popolazione è stata talmente soggiogata da non riuscire più a ribellarsi, anche i movimenti a volte appaiono rallentati e offuscati. In questi luoghi, compreso Cicciano, resistono sparute minoranze di persone oneste, ligie al dovere e rispettose del prossimo, le quali ogni giorno si battono per una vita normale. Un esempio di forza, eclatante, è l’impegno profuso per la ricostruzione di “Città della scienza”, il museo scientifico interattivo, famoso in tutto il mondo, recentemente incendiato da un potere che
sfregia e annienta. “Città della scienza”, nonostante la devastazione, rimane un simbolo, e in questo caso, di vita (visto l’impegno profuso per la ricostruzione), rapportabile all’intera provincia di Napoli che, come il famoso museo, è ferita ma non è morta. E allora, curiamo quelle ferite e ripartiamo.
Da qualche mese a questa parte, mi ricorre alla mente una classifica che riguarda la qualità della vita nelle province italiane, stilata ogni anno da “Il Sole 24 Ore”, in base a dati statistici. La provincia di Napoli, classificatasi al penultimo posto, centoseiesimo, ha indubbiamente moltissimi nei negativi, di cui dovrebbero parlare i media, di cui innanzitutto le amministrazioni locali dovrebbero interessarsi, nei consigli comunali, provinciali e regionali, visto che, a parte la provincia di Benevento (83° posto), le altre province campane si posizionano tutte agli ultimi posti (ndt).
L’opera da compiere, richiede una profusione d’impegno come non è mai avvenuta, e per tale
motivo rischiosa, la quale, nelle terre del Sud, assume il duplice carattere della sfida – per una vita migliore, libera e dignitosa – e della lotta, anche fino all’ultimo respiro, contro il male organizzato – camorra e mafie varie, oggi più camaleontiche che mai. Ma affinché quella lotta porti alla vittoria, è necessario il contributo di tutti, ovviamente di tutti gli onesti cittadini. Prendendo spunto da una famosa esortazione, mi rivolgo a voi in questo modo: «Onesti di tutti i paesi, unitevi». Soltanto facendo fronte comune – corpo unico – si può ancora sperare. E bisogna farlo adesso, sull’onda del rinnovamento manifestato in politica a livello nazionale. Oltre al riverbero in ambito locale, rimarco la necessità di un fattivo aiuto da parte di tutti, in ogni campo. Ma cosa può fare il popolo di un piccolo paese del Sud, in questo frangente? Può ribellarsi, può dire di no, anzi, deve ribellarsi, deve dire di no. Riavere quell’agreste paesaggio d’un bambino, avvolto dal verde smeraldino, proveniente da quella che fu la “Campania felix” di mnestica latina sapienza, è forse impresa immane, ma lasciare spazio a eredi di una politica al cui interno hanno militato personaggi che, collusi con la criminalità organizzata, hanno fatto scempi in tutta Italia (non solo in Campania), è inconcepibile. Il momento è cruciale, appoggiare quella politica – di matrice democristiana o pdiellina in primis – sarebbe mortale, anche se dalle minacce può sembrare il contrario. È importante focalizzare l’attenzione su ciò che potrebbe accadere, invero uno scenario già vissuto, esattamente vent’anni fa – le stragi di mafia. Recentemente è arrivata al Tribunale di Palermo, sulla scrivania del PM Di Matteo, una lettera contenente una inequivocabile minaccia: «Niente comici e froci al governo». In sintesi, per il mittente, esponente di Cosa Nostra, vanno bene tutti gli altri.
Ridare il proprio consenso a personaggi che lasciano morire un territorio e la sua popolazione, equivarrebbe
ad arrendersi e, consequenzialmente, decretare la propria fine definitiva. Venga fuori, a questo punto, la parte sana della società, esca dalle case, scenda nelle piazze, si appalesi in qualche modo. C’è una parte sana della popolazione che non si fida più della politica, nemmeno dei nuovi attori, incarnati oggi dal M5S. Quella parte di popolazione è pressoché identificabile nei cittadini che si astengono dal voto. A costoro chiedo di dare un segnale, di partecipare, di non chiudersi nelle proprie quattro mura, di trasferire i loro pensieri puri a chi incontrano, ovunque, per strada, nei luoghi di lavoro, in tutti i posti pubblici. Per quanto mi riguarda, mi fido solo delle persone oneste. Purtroppo “nuovo” non è sinonimo di onesto, ma ci si auspica che lo sia. Allo stato attuale, di disastro, di smarrimento, di fame, anche il nuovo va osservato e, se necessario, criticato onde evitare le tragedie causate da chi finora ha governato le nostre vite. Ma quando è necessario muovere una critica? Quando anche il cosiddetto nuovo mostra segni che mettono in dubbio la sua presunta onestà e, fatto molto grave, rischia di mettere a repentaglio proprio quella rinascita alla quale egli stesso anela.
Non intendo arrogarmi competenze che non ho, quali – ad esempio – quelle di governare una nazione, ma rimetto ad altri miei concittadini il mio pensiero, nella speranza di addivenire alla corretta lettura dei fatti, dei gesti e delle parole. Innanzitutto, asserisco espressamente: «Ho paura». La sensazione è raggelante e ne conosco la ragione. I politici responsabili del degrado, sono riusciti a tessere un intreccio tale da consentirgli di ritornare sulle poltrone dalle quali stavano per essere strappati. Una genìa politica che, adusa a bagordi, corrotta e farisaica non lascia di certo presagire miglioramenti per popoli e territori falcidiati che lei stessa ha ridotto in tale stato, con il suo espresso o tacito consenso.
Ciò che è accaduto recentemente, è compendiato alla
perfezione da una frase di un giurista e costituzionalista di fama internazionale, il professor Stefano Rodotà, il quale ha espresso pensieri inequivocabili: “I partiti hanno perso la testa: mentre Napolitano parlava delle loro irresponsabilità, quelli applaudivano invece di stare zitti e vergognarsi”. E ancora: “Da tutta questa vicenda è uscito vittorioso Berlusconi, che sta imponendo le sue condizioni, mentre il Pd è andato a raccomandarsi al Colle, e poi ha dato di nuovo spettacolo”. “Non posso mettere fra parentesi il fatto che la larga intesa si fa con il responsabile dello sfascio e della regressione culturale e politica di questo Paese”.
L’appello ai politici veri, tra i quali quelli potenziali, è più che mai urgente e investe questi ultimi di un grande ruolo, poiché essi potranno contribuire a smantellare un sistema di abusi e impiantarne uno di diritti. Ma chi sono i politici potenziali? Sono persone degne di essere chiamate tali le quali hanno una particolare vocazione,
l’inclinazione alla politica che diventa passione e scintilla costruttiva in grado di orientare il loro sguardo intellettivo sul cuore della gente. Il popolo deve essere salvato, a partire dai piccoli comuni come Cicciano, nel quale quella cattiva politica ha attecchito sfruttando i bisogni primari della gente, alla quale sono stati tolti tutti i diritti, e sui quali molti politici, finora, hanno ripetuto impunemente i loro rituali, aventi tutti la stessa matrice: la tecnica della corruzione.  […] «Per reato di corruzione s’intende la compravendita di voti, singoli o a pacchetti, in cambio di denaro, posti di lavoro e altro. È un reato che sta al voto di scambio come l’illegalità sta alla raccomandazione» precisa con puntiglio Nicola Quatrano. Non gli piace che i giornali parlino sbrigativi di voto di scambio: si confonde con il clientelismo, vecchia forma della politica meridionale. «In democrazia il voto è sempre uno scambio. Se un candidato promette migliori condizioni di vita, qualche elettore certo lo voterà e il suo voto sarà stato uno scambio con l’aspettativa dei vantaggi che ha promesso. Ciò è del tutto lecito. Diversa la corruzione diretta dell’elettore, quando in cambio del voto si offre qualcosa di immediatamente personale. L’elettore in quel momento è considerato dalla legge un pubblico ufficiale, in quanto partecipe del corpo di cittadini chiamato a svolgere una funzione costituzionale. Offrirgli soldi, impieghi, incarichi, oggetti, eccetera, significa tentare di corrompere un pubblico ufficiale.» […] [Roberto Ciuni, Le macerie di Napoli, Rizzoli, 1994, pag. 109]
Personaggi biechi, il cui solo scopo – al pari degli esponenti nazionali – era arricchirsi e, al contempo, detenere e alimentare il potere, hanno calpestato e vilipeso ogni sorta di principio, tra cui il principio di competenza, dapprima usato come facciata e poi fatto scemare gradualmente fino a farlo scomparire, quasi del tutto, negli ultimi anni. Per approfondire quest’ultimo
fenomeno basta osservare la mutazione antropologica dei politici avvicendatisi al governo, sia nazionale che locale. Una politica soporifera, le cui colpe più gravi ricadono indubbiamente su coloro che sono stati condannati (la responsabilità penale è personale) – grazie a strenue battaglie legali e civili – ma la corruzione non ha riguardato solo i condannati, come dimostrano i tanti casi scoperti, trasversali a tutti i partiti, venuti alla luce grazie a indagini note e meno note, dall’inchiesta giudiziaria “Mani pulite” – correva l’anno 1992 – alle altre che ne hanno seguito l’esempio, fino ai giorni nostri. Oggidì, però, il potere, vecchio e logoro, sembra vacillare ma, all’ultimo momento, si regge e va avanti… e noi, indietro, o in basso, dove esso – il potere – vuole che stiamo tutti. Per mettere in atto il suo proposito, quella suburra si è servita di ogni sorta di mezzo, tra cui primeggia il più subdolo di tutti, la televisione. Quello strumento – apparentemente innocuo – è stato usato da molti politici per svisare la realtà, plasmando l’ignaro popolo il quale, durante il sonno, non si avvedeva dei ladri che gli svaligiavano casa, gli depredavano le campagne, fino a sottrargli tutto… anche l’aria. Al di là delle singole colpe penali, vi sono delle colpe tecniche, vale a dire che i vecchi politici, seppur innocenti penalmente, non sono stati in grado di opporsi ai nefandi piani di sterminio. Come si può osservare, apoditticamente, è impossibile soffermarsi su un singolo ente, considerati i legami nazionali, alcuni dei quali hanno un riverbero anche internazionale. Le dinamiche di un comune, anche se piccolo o piccolissimo, finiscono ineluttabilmente per incidere su tutti, anche a centinaia di chilometri di distanza, soprattutto quando riguardano l’ambiente – patrimonio del mondo. Mi viene in mente, a tal proposito, un “battito d’ali di farfalla”, in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo; un concetto traslato in una tassa pigouviana  alla stregua della carbon tax, per la quale si verifica un paradosso. Sebbene non sia stato stabilito un prezzo, la gente sta pagando con la vita, soprattutto nella mia terra, martoriata fino alle viscere, prima “sventrata” (seguendo l’esempio negativo di Napoli, città per la quale il grido di dolore di Matilde Serao rimane ancora inascoltato, come ci ricorda anche Gianni Infusino) e poi, mentre le ferite – provocate dai colpi di pugnale inferti senza pietà –  erano ancora sanguinolente, il frammisto potere criminale pensava di riempirle di rifiuti tossici, destinando quel canto di mondo ad una lenta agonia.
Un’altra azione criminosa che, seppur trasversale a tutta l’Italia, in queste terre ne amplifica il degrado, è rappresentata dalla piaga dell’abusivismo edilizio, in tutte le sue sfaccettature, come descritto nel libro La colata. Il partito del cemento che sta cancellando l’Italia e il suo futuro, scritto a più mani (Ferruccio Sansa, Andrea Garibaldi, Antonio Massari, Marco
Preve, Giuseppe Salvaggiulo). Le notizie relative a questo reato, mettono in luce che dietro l’abusivismo edilizio non ci sono solo le mafie, ma che anche i cosiddetti insospettabili cittadini hanno una grande responsabilità, soprattutto morale, del dissesto ambientale.
Potranno mai ritornare quei prati cancellati, quei corsi d’acqua prosciugati o avvelenati, quegli alberi secolari, ma anche di pochi mesi, strappati con violenza inaudita?
Ma c’è qualcosa di ancora più crudele, che ti destina alla disperazione, nel caso in cui quella disumana condizione non la si viva come normale. Quella crudeltà è compendiata alla perfezione nella frase più pronunciata dai politici avvicendatisi al governo del bel capoluogo: «Napoli, è una città che, purtroppo, ha le sue contraddizioni». In breve, Napoli ha il bello e il brutto. I paesi, e le varie periferie, hanno adesso solo il brutto. Fino a vent’anni fa, circa, avevano l’ambiente – il paesaggio – bellissimo. Oggi, a queste piaghe, se ne
aggiungono altre ma su tutte ne svetta una che falcidia duramente, una disoccupazione spaventosa. Nella speranza, quindi, che questo messaggio giunga nelle mani giuste, affido a queste pagine la descrizione del territorio che mi è più prossimo, che avvolge quel luogo agreste e incantevole e perfetto che mi cullava da bambino.
Nel racconto incipitario mi sono fermato nelle campagne circostanti la località della fontanina, Tavernanova… mi guardo intorno e sento l’incedere incombente del cardiopalmo. Quei luoghi, alla volta dei quali mi dirigevo, in sella alla mia bicicletta bianca, ora si chiamano “Triangolo della morte” a causa dell’altissimo numero di rifiuti tossici ivi seppelliti, provenienti da tantissime aziende. Ai confini di questa landa avvelenata, ne muore un’altra, dall’appellativo non meno evocativo, “Terra dei fuochi”, sbeffeggiato anche dalla Rai, che ha intitolato una trasmissione “Terra dei cuochi”, mortificando questa’altra terra avvelenata. Nel nostro caso, fuochi
sta per roghi, e gli ingredienti non sono patate, uova, sale e pepe ma altri meno digeribili, anzi indigesti come violenza, sopraffazione, minaccia, deturpamento… male. Negli ultimi tempi, le due terre sembrano fondersi, forse per effetto della diossina che coinvolge nell’esperimento chimico anche le persone, tra cui c’è chi combatte strenuamente, come il dott. Alfredo Mazza, il quale rivolge allo Stato il suo accorato ma dignitoso appello, traslato nella petizione “Nola, roghi tossici: ci vuole l’esercito”. Secondo i dati del Ministero dell’Interno sono stati tremilacinquecento circa i roghi dolosi di rifiuti industriali avvenuti nelle campagne a nord di Napoli e del basso casertano nel solo 2012. […] Un fenomeno oramai preoccupante per le ricadute che sta avendo sulla salute pubblica, con un aumento accertato del 20% di mortalità nei comuni a ridosso dei siti di abbruciamento di rifiuti tossici (ndt). Ma l’esercito a volte non basta, come si evince da una notizia risalente all’agosto del 2012, quando circa 3.000 ecoballe furono incendiate, sotto la sorveglianza – ventiquattr’ore su ventiquattro – dei militari (la cui presenza nella zona aveva preso le mosse in seguito alla legittima protesta dei cittadini contro l’impianto dell’inceneritore, nel 2008). Il grave incendio (successivo ad altri anch’essi di enormi dimensioni) fu provocato nella vicina Acerra, già pesantemente ferita (ndt).
Come è noto, nei luoghi in cui è assente o, peggio ancora, farisaico il controllo, attecchisce il vizio, nelle cui pieghe il potere vuole che stia un popolo assopito e abbrutito, giorno dopo giorno, sempre di più.
A circa cinquanta metri da Tavernanova, stazionano tre prostitute; a breve distanza da loro, altre tre colleghe. Nel senso opposto, altre tre, all’imbocco di una strada – chiusa al traffico a causa dell’elevatissimo numero di voragini (formatesi negli anni, come in moltissime altre strade della provincia) – che conduceva all’asse mediano (superstrada di grande
collegamento, il cui stato di incuria, associato alla diffusa scorrettezza degli automobilisti, fa registrare altri tristi e corposi elenchi di morte). Le meretrici, a volte poco più che bambine (come rivela la recente inchiesta della procura di Napoli sulla prostituzione nelle province di Napoli e Caserta), sono proprio le persone più danneggiate, ma le loro storie restano inascoltate (ndt). Quando, circa tre anni fa, notai l’apertura di questo esercizio (all’epoca svolto da una sola persona), pensai che qualche amministratore avesse mal interpretato un concetto di Karl Marx e Friedrich Engels, espresso in un passo del “Manifesto del partito comunista”: la progressiva abolizione della differenziazione tra città e campagna.
Il fenomeno, come tanti altri, è di emergenza sociale e, ovviamente, andrebbe affrontato con le dovute competenze, ma in alcuni luoghi, come adesso sono questi comuni abbandonati della provincia di Napoli, di certo diventa ancora più difficile risalire dal pozzo,
soprattutto quando il sindaco del capoluogo, Luigi De Magistris, si esprime in questi termini: «Dobbiamo creare un quartiere cuscinetto per le prostitute». Nonostante la legge non annoveri la prostituzione fra i reati, intorno ad essa si continua a commetterne ma, a differenza di altri in cui si riscontrano una vittima e un carnefice, in questo caso tutti i protagonisti sono vittime di un potere che usa la legge solo come deterrente di facciata.
Leggi, carte e codici che, insieme ad altre non scritte regole, formano un volume corposo, denominato Tuop (Testo unico per l’oppressione dei popoli), custodito dal potere nelle sue stanze.
Ma qual è il mezzo subdolo con cui i pessimi amministratori (a volte solo bracci) mantengono il popolo in quelle condizioni? Quel mezzo, già menzionato, è il bisogno. Mantengono le persone in perenne stato di bisogno, e su questo fondano e rifondano il loro meccanismo di potere che – come già detto – in queste terre si traduce nello scambio, a partire
dallo scambio di voti.
In uno scritto recente, ho fatto cenno al “codice inverso della strada”, che bisogna comunque imparare più degli altri, meglio se a memoria e senza tralasciare nemmeno i commi più apparentemente sorvolabili, perché proprio quelle lacune potrebbero costarti la vita.
Partiamo dalla parola “inverso”. Il caso più frequente è quello di trovare veicoli contromano (auto, moto, biciclette – le piste ciclabili di Imola sembrano lontane anni luce). In molte strade, inoltre, non esistono marciapiedi né paletti protettivi atti a delimitare i legittimi spazi dei pedoni. Dove esistono marciapiedi, questi sono occupati da auto e moto, su ambo i lati, quando lo spazio non è adibito a deposito perenne di elettrodomestici dismessi (a volte vengono rimossi, ma subito sostituiti), al fine di adornare quelle strade, solitamente dissestate (il rifacimento del manto avviene ogni dieci anni circa, durante i quali si eseguono rattoppi precari tali da provocare ancora più pericoli)
in cui, all’aria avvelenata, si aggiungono i gas di scarico dei veicoli a motore (mediamente, in un giorno qualunque, percorrono una strada cittadina circa 8.000 mezzi), ovviamente a velocità previste dal codice “inverso”, alcuni dei quali proiettati sulla strada che conduce a quel luogo ameno che ha conservato l’antico nome di Tavernanova.
In aggiunta all’ovvio frastuono causato dai motori, stridono assordanti claxon mescolati a un vociare gracchiante (diffusa usanza partenopea) intermezzato da urla, fischi e strombazzamenti. Ma se si ascolta con più attenzione, e si focalizza lo sguardo – aprendo il sipario dell’indifferenza – quella miscellanea di rumori, folla, traffico e grida appare nella sua accusatoria e al contempo straziante realtà, a tratti come un lamento, altri come un pianto frammisto a singulti dell’inconscio, nel quale è serbata la storia, la loro storia, fatta di abbandono, di mancanza di lavoro e di diritti, di pugnalate, di deprivazioni.
A volte può accadere
che tutti quei suoni confusi vengano zittiti di colpo, anzi da un colpo, al quale ne segue un altro, e poi un altro e un altro ancora, o tutti insieme, a raffica, due, tre, quattro volte… sono gli spari di un’arma da fuoco, il cui riverbero è oggi presente per le strade e incombente, in misura pari alle bande che assaltano ovunque e chiunque: regolamenti di conti, attentati, furti, rapine, come quella tentata a Maddaloni pochi giorni fa, durante la quale ha perso la vita l’appuntato Tiziano Della Ratta, di appena ventisette anni. L’eco ha schivato il crinale della collina ed è giunto fisicamente dalle mie parti, a pochi chilometri dalla tragedia. Oggidì, Cicciano in particolare non è teatro di spari (anche se non sono mancati negli ultimi anni i morti ammazzati dalla Camorra), ma è qui che, all’età di sedici anni, ne ho udito la prima volta il terrificante rumore. Mi trovavo in compagnia di un mio amico, Francesco, quando la nostra passeggiata fu interrotta da quel “suono” che proveniva da una distanza brevissima, circa venti metri.
Si intuisce come da quel momento – eravamo nel 1984 – quella serenità  cominciò a svanire, ferita da altri episodi simili, da altri crimini (alcuni quasi ineffabili a causa dell’inaudita ferocia con cui furono attuati – gli abusi da parte di una banda di pedofili, ai danni di un bambino di nove anni, Silvestro Delle Cave, rimane il momento più doloroso, e non solo per Cicciano) e misfatti, al punto che oggi il racconto non potrebbe avere lo stesso inizio, che riscriverei pressappoco così. Lasciati alle spalle gli ultimi rifiuti, depositati in una discarica abusiva situata tra una chiesa e un ristorante, mi muovevo con circospezione sulla strada dissestata, delimitata da guard rail, sterpaglia, sacchetti d’immondizia, materassi, pneumatici, elettrodomestici (perlopiù televisori e lavatrici) e sanitari di varia foggia, misura e colore, intervallati da piccoli fasci di fiori freschi, adagiati accanto alle immagini di giovani
vite stroncate su un asfalto che oggi viene pressato da migliaia di auto e moto (le biciclette sono rarissime), a bordo delle quali viaggerà forse qualcuno che pensa a questo canto di mondo… E osservando quei “fiori” falciati per sempre, non si può non pensare al loro diritto ad una vita normale, lo stesso rivendicato da quelle donne sfruttate su quello stesso asfalto, striato di rosso. Quelle donne sono straniere, molto probabilmente dell’Africa del Sud o dell’Europa orientale, la cui vita – in un modo o nell’altro – è breve, e spesso è resa ancor più breve. E così, da un paese povero (lasciato povero), a un paese apparentemente ricco, sedute su cumuli di immondizia nell’attesa di clienti il cui numero è sempre in crescita (in Italia circa 9 milioni). A queste due categorie di vittime, dicevo, si aggrega una terza, i cosiddetti protettori, costretti anch’essi a stare tra i rifiuti, sui rifiuti, a respirare quest’aria irrespirabile; e non invece l’aria salubre che sono abituati a respirare i loro capi, magari su una terrazza con vista mozzafiato (per essi, in senso figurato) su un golfo, su una laguna, su colli e declivi, seduti su poltrone dai fregi dorati o nelle acque tiepide di una piscina, a un passo dalla suite presidenziale, nell’attesa di essere avvertiti per il pranzo, o la cena, da un ignaro cameriere del lussuoso albergo ospitante, il cui proprietario incasserà, come sempre, abbondanti quattrini provenienti dalla tratta delle schiave, o dagli spregevoli traffici della droga, anch’essi radicati ovunque, dove i consumatori o i piccoli spacciatori si riforniscono presso le piazze di Scampia (la più grande d’Europa), Secondigliano e paesi limitrofi, quando riescono a scansare i proiettili, dati gli improvvisi e continui scontri a fuoco tra clan rivali – scissionisti, sottogruppi, cellule autonome, schegge impazzite. Ma questa è un’altra storia, o solo un capitolo di una storia più grande, quella di Napoli e della sua provincia, che molti vogliono dimenticare o, peggio ancora, ignorare. Secondo uno studio condotto dall’Istituto Mario Negri e dall’Istituto Norvegese per la Ricerca sulle Acque (Niva), in collaborazione con altri gruppi di ricerca in 11 paesi europei, Napoli è la “capitale” italiana del consumo di cocaina (ndt).
E allora? Allora il potere schiaccia, calpesta, e i suoi membri si divertono nel lusso, ai danni di tanti cittadini che considerano solo sudditi. A volte, però, alcuni segreti vengono disvelati, ma quelle notizie sembra si vogliano seppellire come i rifiuti di cui parlano. Una di queste riguarda proprio la zona sita alle spalle di quelle donne, a due passi da Tavernanova. Proseguendo su quella strada dai cigli policromatici, ci si imbatte in un’area commerciale enorme, intorno e dentro la quale si svolge la vita commerciale degli abitanti della zona. Il territorio si trova nei confini di Nola, la città che ha dato i natali al grande Giordano Bruno. La gente di questo luogo, proprio come l’illustre
conterraneo, sembra accomunata da un medesimo e ineluttabile destino, finire sul rogo. È cambiato il sistema, ma non l’esito, stante anche alle dichiarazioni di un pentito che riguarderebbero proprio l’area commerciale menzionata sopra, in particolare il centro di servizi “Vulcano buono”, progettato dal noto architetto Renzo Piano. Secondo il pentito – l’ex boss della Camorra, Carmine Alfieri – sotto l’enorme struttura sarebbero stati intombati rifiuti tossici provenienti, all’epoca – anni ’80 –, dalla Germania, quando i casalesi erano solo gli abitanti di Casal di Principe e Sandokan era solo la salgariana tigre della Malesia (ndt). Mi viene in mente una frase di Renzo Piano, riportata fra l’altro nel libro La colata: “Noi, con il nostro studio, ogni anno rinunciamo a due, tre progetti. Meglio lavorare meno, ma essere fedeli al proprio spirito… L’interesse di cui l’architetto deve tener conto è quello pubblico, della città”. Ma la zona ha attirato anche altri personaggi noti, quali ad esempio Luca Cordero Di Montezemolo e Diego Della Valle che, insieme all’imprenditore napoletano Gianni Punzo (ideatore dei vicini Cis e Interporto di Nola) hanno deciso di impiantare, a ridosso del “Vulcano buono”, una grande struttura che accoglie le officine per la riparazione e la manutenzione dei treni “Italo” (NTV ad alta velocità). In queste campagne è arrivata l’alta velocità, spazzando via la lentezza, da sempre presente nelle vite delle popolazioni agresti. Ma lo stupore non è mai abbastanza, come possono testimoniare i cittadini che – qualche giorno dopo la notizia suddetta – hanno udito, con le proprie orecchie, le sconvolgenti parole del ministro Balduzzi, secondo il quale la causa del boom dei tumori in Campania sarebbe da connettere piuttosto all’obesità e allo stile di vita dei napoletani (ndt).
Al cospetto di quel gigante dell’architettura, si resta comunque impressionati, Renzo Piano ha dato il suo tocco d’artista. Decido di entrare e farmi trasportare dalle
novelle teleferiche all’ultimo piano. In un battibaleno sono all’altezza della bocca di questa struttura che ricalca il vicino Vesuvio. L’aria sembra rarefatta (qui tutto sembra ciò che dovrebbe o potrebbe essere), ma è solo un’illusione ottica provocata dai fumi della nube tossica (causata dall’incendio di un deposito di fuochi e razzi di segnalazione per nautica) la quale, lo scorso 26 aprile, ha invaso una vasta area, principalmente le città di Cicciano, Camposano, Comiziano, Tufino, Roccarainola e Nola, le cui amministrazioni comunali – più volte interpellate dagli attivisti di “Rifiutarsi”, impegnati strenuamente sul territorio campano – continuano a rimanere silenti. Un silenzio in cui si dissolvono antiche note di coscienza e d’imbarazzo (ndt). Il mio sguardo si posa su di un manto dai variegati colori che, come i cigli della strada appena lasciata, è costituito dalle centinaia di sacchetti di rifiuti di ogni genere, ma soprattutto scarti di prodotti tessili, provenienti dalle lavorazioni delle diffusissime aziende tessili dell’area vesuviana. Focalizzando lo sguardo si distinguono dei corsi di sostanze liquide che potrebbero anche sembrare belle, ma non possono esserlo. Sono, infatti, brutte, come le persone che ne alimentano i corsi, di notte, di giorno, sotto la luce del sole, perché tutto è consentito ormai, soprattutto uccidere, ammazzare un territorio, togliere l’aria, togliere l’acqua, togliere le campagne. Queste terre sembrano quasi attendere una nuova eruzione, per una nuova Pompei che arrivi fino alle terre alle mie spalle, alla mia destra, alla mia sinistra. Tutte terre martoriate, tra ecoballe, inceneritori, fabbriche dismesse e abbandonate, discariche, rifiuti, composti e elementi chimici.
Guardando queste terre, mi vengono in mente due articoli della Costituzione che, in fondo, aspettano ancora di essere applicati.
Art. 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di
razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 9
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.  Antonio Capolongo