|
|
Per un’alternativa al capitalismo
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Grande è il disordine sotto il cielo. E la situazione non è eccellente. Da questo disordine, che ha origine da una crisi di sistema e investe l’intero ambiente sociale e naturale fino a sconvolgere il comportamento dei singoli, non sta nascendo una speranza per il futuro né una lotta per il cambiamento, con obiettivi chiari e concretamente perseguibili. Prevalgono l’inquietudine, lo smarrimento, il ripiegamento nel particolare e nel privato. E, simmetricamente, la rabbia e il ricorso ai gesti disperati. Il fatto è che brancoliamo nel buio di una crisi ormai entrata nel settimo anno, accecati da una cultura dominante diventata largamente senso comune che nega la possibilità di qualsiasi alternativa, presentata o come una catastrofe o come impraticabile per i costi proibitivi. Eppure dovrebbe essere ormai chiaro che se si resta in adorazione dei dogmi liberisti, che predicano (e praticano) la totale libertà del capitale, dalla crisi non c’è via d’uscita, se non nell’esplosione delle contraddizioni interne al capitalismo e tra i capitalismi, che non esclude l’incendio della guerra. Ma, d’altra parte, non accendono la luce e si dimostrano del tutto inadeguate nel mettere a nudo le cause più profonde della crisi, e quindi a individuare i percorsi del suo superamento, anche le più diffuse teorie post keynesiane, che fanno asse non sul modo di produzione e sui rapporti di proprietà bensì sulla distribuzione del reddito e della ricchezza,. In un articolo significativamente intitolato “Per un capitalismo sostenibile” pubblicato di recente da la Repubblica, Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini propongono con dovizia di argomentazioni, anche non banali, la seguente tesi. Poiché “il capitalismo realizza l’obiettivo mancato dal movimento operaio: una vera e propria ‘internazionale capitalistica’ che provoca enormi disuguaglianze tra capitale e lavoro e minaccia di deprimere la domanda”, occorre “ridurre i divari nella distribuzione della ricchezza non solo perché disuguaglianze troppo marcate sono moralmente inaccettabili ma perché costituiscono un freno allo sviluppo dell’economia”. Tanto più che “la crisi attuale è stata fronteggiata attraverso la sostituzione del debito privato con quello pubblico e con l’espansione della moneta da parte delle banche centrali”. E di conseguenza gli Stati, indebitati per salvare le banche, e quindi puniti dai mercati per i loro disavanzi, “riducono le spese sociali addossando i costi della crisi ai ceti più deboli”. Proprio perché il capitalismo produce gli effetti distruttivi e socialmente insostenibili da loro denunciati, al punto tale che in Italia i primi dieci patrimoni nazionali posseggono oggi tanto denaro quanto i tre milioni di italiani più poveri, e nel mondo 63 mila super ricchi concentrano un patrimonio di 39.900 miliardi di dollari (vale a dire una cifra superiore alla somma delle economie degli Usa e del Giappone), ci saremmo aspettati che Ruffolo e Sylos Labini dichiarassero alto e forte: “noi, tra il capitale e il lavoro, scegliamo il lavoro”. Vale e dire, un modello sociale non più fondato sullo sfruttamento sistematico della persona umana, che finalizza l’intera costruzione della società all’ottenimento del massimo profitto e all’accumulo della rendita. Bensì una civiltà meno primitiva e più avanzata, nella quale l’economia sia al servizio degli esseri umani e non il contrario. Loro invece si propongono di salvare il capitalismo, depurato però delle sue brutture e contraddizioni. Vogliono un “un capitalismo sostenibile”. E per questo - strano destino di tanti innovatori - sono costretti a pensare (e riprodurre) il passato. Non si accorgono che quando dicono di voler “tornare a un capitalismo governato”, “a un nuovo compromesso storico tra capitalismo e democrazia”, si collocano nella insostenibile posizione di chi non può andare avanti perché ha la faccia rivolta all’indietro. Non solo perché il capitalismo, nella sua evoluzione storica, tende oggi a distruggere le condizioni stesse della sua riproduzione, e con esse la democrazia rappresentativa. Ma perché, contro ogni ragionevole forma di pensiero critico, Ruffolo e Sylos ci stanno dicendo che il capitalismo, a differenza di ogni costruzione umana, non ha un inizio e una fine. È immortale, come lo Spirito Santo. E perciò al massimo si può pensare a un suo “riorientamento etico”, come più volte ci ha ricordato Giorgio Ruffolo. La cosa è tanto più sorprendente perché si tratta di due studiosi abituati a maneggiare con destrezza le armi della critica. Solo Berlusconi potrebbe affermare che il capitale è una categoria dello spirito, che trascende l’impura materialità di se medesimo. Ma se restiamo con i piedi per terra, inevitabilmente si impone una domanda, che tuttavia alcuni cercano in ogni modo di evitare e altri non pongono con sufficiente chiarezza: se oggi la disuguaglianza è massima, e su di essa si innesta e si riproduce la crisi, qual è allora la causa di fondo che dà origine a questa condizione, vale a dire alla “squilibrata” distribuzione dei redditi e della ricchezza? La corruzione della casta dei politici, le loro ruberie e malversazioni? L’avidità dei banchieri e l’immoralità dei manager? La differenza di genere? Il deficit di formazione e di cultura? E così via. Non che questi fattori siano inesistenti e pesino in modo diverso, ma se le crisi si ripetono dopo avere generato due guerre mondiali e infiniti conflitti, e costituiscono dunque una componente organica del capitalismo come formazione economico-sociale, vuol dire che la risposta va cercata nella natura più profonda del capitale senza farsi distrarre dai mascheramenti, o dalle “distorsioni” comportamentali e “asimmetrie” etiche. Il tentativo di tornare al capitalismo “buono” ci fa solo imboccare strade senza uscita, giacché il capitalismo “cattivo” di oggi non è altro che la risultante storicamente determinata delle contraddizioni ineliminabili del (presunto) capitalismo “buono” di ieri. Dovrebbe far riflettere il fatto che nella fase della finanziarizzazione globale la contraddizione tra capitale e lavoro non solo non scompare, ma al contrario esplode in tutta la sua drammaticità e virulenza. Ciò conferma in modo inequivoco che il capitale, prima ancora di una quantità monetaria o di un insieme di mezzi di produzione e comunicazione, è un rapporto sociale che fissa in modo indelebile la divisione della società contemporanea in classi contrapposte. Tra chi vende e chi compra la forza lavoro umana. Tra chi è proprietario dei mezzi necessari alla produzione di beni e di servizi, e quindi alla stessa riproduzione della vita, e chi - d’altra parte - è proprietario solo delle sue capacità intellettuali e fisiche, che aliena in cambio dei mezzi per vivere. Dunque, la proprietà è il centro del problema. A maggior ragione se mai come oggi i non proprietari dei mezzi di produzione, di comunicazione e di scambio sono stati così numerosi in Italia e nel mondo. Mentre - d’altra parte - mai come oggi la proprietà capitalista è stata cosi concentrata e pervasiva, tanto da dilagare in ogni angolo del pianeta e nei più profondi recessi della nostra vita. Questo è il risultato del processo di produzione capitalistico, che mentre immette nel mercato merci che incorporano un plus valore riproduce al tempo stesso il capitale. Vale a dire il rapporto capitalistico di sfruttamento: da una parte, il proprietario, dall’altra il dipendente, la massa priva di proprietà che non siano i mezzi per vivere. Quindi, “se il capitale non è una cosa - come aveva scoperto il rivoluzionario di Treviri - bensì un determinato rapporto di produzione sociale appartenente a una determinata formazione storica della società”, ne consegue che la distribuzione della ricchezza dipende in ultima analisi dalla distribuzione della proprietà. Proprio questo tipo di rapporto proprietario sta alla base delle ricorrenti crisi del sistema. Infatti il capitale vive sullo sfruttamento del lavoro per ottenere un profitto. E perciò ha bisogno di contenere i salari per alzare i profitti. Ma il contenimento dei salari, come ci dice la realtà di ogni giorno, riduce il potere d’acquisto. E quindi, ostruendo gli sbocchi sul mercato, impedisce la realizzazione delle merci e del profitto. A ben vedere, la storia del capitalismo moderno, dalla fine dell’Ottocento ad oggi, è la storia dei tentativi di superare questo continuo movimento contraddittorio del capitale, che risulta insuperabile dentro il perimetro dei rapporti di proprietà capitalistici, La globalizzazione, nella duplice versione di finanziarizzazione universale del capitale e di gigantesca subordinazione del lavoro al capitale, è stata la risposta alla crisi del modello fordista fondato sulla produzione seriale di massa, alla perdita di efficienza del sistema (tra il 1973 e il 2003 la crescita del pil mondiale si è quasi dimezzata ed è diminuita di due terzi se si esclude la Cina), e alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Si è così costruito il modello che adesso è esploso, nel quale il potere d’acquisto generato dai salari è stato sostituto dall’indebitamento di massa, l’occupazione dalla precarietà, il profitto dalla rendita finanziaria. Nell’illusione che la ricchezza si possa generare saltando la mediazione della produzione e riproducendo vertiginosamente denaro che figlia denaro (virtuale). L’effetto è stato quello di ricoprire il mondo di titoli di debito, e di concentrare la ricchezza reale nelle mani di un pugno di proprietari universali, che in conseguenza della privatizzazione di ogni attività umana oggi controllano la finanza, la produzione dei beni materiali e immateriali, la cultura, la comunicazione e l’istruzione, cioè la formazione del senso comune. E infine, ma non per importanza perché questa nella crisi attuale è la questione dirimente, anche la politica, avendo di fatto espulso dai sistemi politici i lavoratori dipendenti e le classi subalterne. Con la conseguenza di mettere in ginocchio la democrazia e la sovranità popolare. In queste condizioni, progettare “un nuovo compromesso storico tra capitalismo e democrazia”, come auspicano i nostri autori, è solo un flatus vocis, dal momento che il lavoro è un fantasma politicamente inesistente, un universo largamente sconosciuto alla politica. Nel Parlamento italiano non è solo Berlusconi a rappresentare la proprietà e il capitale, che sono presenti nelle più diverse espressioni e gradazioni spesso in lotta tra loro. Bisogna invece cercare col lanternino chi rappresenta gli operai di fabbrica, i precari della scuola e dei servizi, le donne che non lavorano, i ricercatori e gli scienziati. Insomma, il vasto e articolato mondo del lavoro. La cruda realtà dei fatti non ci deve però impedire di vedere che l’assunzione del debito come fattore portante dell’economia in opposizione alla valorizzazione del lavoro (in termini di piena occupazione, di crescita dei salari reali, di espansione dei diritti) è il segnale certo del declino di un sistema e di un arretramento di civiltà, di cui occorre individuare i caratteri e le forze da mettere in moto per un’alternativa. Intanto occorre rimuovere un equivoco di fondo, giacché il berlusconismo oscura mediaticamente le cause reali della crisi. E il cosiddetto antiberlusconismo, assumendo simmetricamente lo stesso schema del galleggiamento sulla superficie dei problemi, non è in grado di penetrarli, quando non dà voce in altra forma ai medesimi interessi. Togliere di mezzo Berlusconi è necessario. Ma chi pensa che eliminando Berlusconi si esca dalla crisi non coglie il centro del problema. Questa è la crisi del capitale come rapporto sociale. E da qui occorre muovere, individuando i passaggi intermedi e le alleanze intorno al tema del momento: la costruzione di un’ ampia coalizione politica del lavoro in grado di lottare sul terreno democratico e di massa per una svolta reale. Vale a dire per rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano la libertà e l’uguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Proprio in funzione di questa svolta la Costituzione pone dei limiti alla proprietà, che può essere pubblica o privata; prescrive che in ogni caso le diverse forme di proprietà non devono recare danno alla sicurezza e alla dignità umana, e che pertanto vanno indirizzate e coordinate a fini sociali; rende esplicita la possibilità di trasferire a comunità di lavoratori o di utenti imprese che si riferiscano a servizi pubblici o fonti di energia o a situazioni di monopolio. Queste sono le parole scritte e non dette, che invece dobbiamo pronunciare al alta voce: proprio quando la proprietà capitalista che ci sovrasta sta portando a fondo il Paese, disgrega la società, mutila la democrazia, offende la libertà e la dignità dei lavoratori e di ogni persona. L’idea che il problema centrale, nella crisi che stiamo vivendo, sia quello di salvare il capitalismo è un ideologismo preconcetto, un’idea malata. Nell’ipotesi migliore ci condanna all’immobilismo, dunque all’aggravamento della crisi. Un’idea malata perché il capitalismo oggi non salva miliardi di esseri umani dalla disoccupazione, dalla precarietà, dalla fame, dalla guerra e da una catastrofe ambientale incombente. Se non si è ottenebrati dal dogma (molto poco laico) dell’immortalità del capitale, la questione da porsi laicamente va rovesciata: come si salva l’umanità dalla catastrofe e dalla regressione cui ci condanna il capitale? E, se per salvare l’umanità, ed evitare di essere inghiottiti dalla regressione, è necessario liberarsi del capitalismo, non bisogna avere paura di farlo, imboccando strade sconosciute e disegnando mappe del tutto nuove. Soprattutto dovremmo farlo noi italiani, che siamo illuminati dalla luce della Costituzione. Non esiste una sinistra che non si ponga questo tema e che non rappresenti il lavoro. Diversamente, è una variante del capitale. E proprio nel momento in cui il capitale come rapporto sociale è in crisi, trascinando con sé l’intero universo delle relazioni tra gli esseri umani e di questi con la natura, occorre esplorare le vie del suo superamento. È un’ovvietà sostenere che per uscire dalla crisi occorre riconoscerne e rimuoverne le cause. Ma si tratta di un’ovvietà che porta con sé una rivoluzione, come la nube porta la tempesta. Perché, se la crisi è connaturata con il capitale, per uscire dalla crisi occorre uscire dal capitalismo. Paolo Ciofi |
|
|