I cento tentacoli della trattativa Stato-mafia
 











Michel Bersce
Stato e mafia
olio su tela, cm 40x50

C’è un fascicolo che la Procura di Reggio ha aperto e che fa tremare i polsi in oscure stanze che in qualche caso sono anche lontane dalla città dello Stretto. Un fascicolo che – di Procura in Procura, di pm in pm – da oltre vent’anni esige risposte. Secondo fonti vicine alle indagini, anche Reggio Calabria avrebbe iniziato a lavorare sulla trattativa Stato-mafia. Quella passata dagli omicidi Lima, Falcone e Borsellino. Quella che ha visto la ‘ndrangheta tra i diretti protagonisti. Stando alle prime indiscrezioni, si tratterebbe di una costola dell’inchiesta Breakfast, che un anno fa non solo ha messo a soqquadro il Carroccio e costretto lo storico segretario Umberto Bossi alle dimissioni, ma ha lasciato affiorare in superficie una struttura di potere fatta di ndrine, pezzi di Stato, massoneria e destra eversiva che torna puntale a manifestarsi nei momenti topici della storia della Repubblica e non si esaurisce in un caso di ordinaria malversazione. Sotto la superficie dello scandalo che ha travolto l’ex tesoriere della Lega Belsito, pizzicato a far sparire i soldi della Lega attraverso canali che i magistrati sospettano forgiati dalla ndrangheta, secondo alcune ipotesi investigative ci sarebbero relazioni e personaggi che negli ultimi quarant’anni di storia della Repubblica hanno svolto un ruolo molto preciso, che si intreccia con gli anni delle stragi palermitane ma lì non si esaurisce perché “quell’ articolato piano di attentati ordito dai vertici di Cosa Nostra a partire dal ’92 – scrive il gip palermitano Morosini nel rinvio a giudizio - per “ricattare lo Stato e costringerlo a ridimensionare l’azione di repressione e contrasto alle organizzazioni mafiose” e che in pezzi delle istituzioni ha trovato sponda sembra essere solo la parentesi più evidente e manifesta di una strategia eversiva più articolata e di più lungo periodo che per decenni ha visto muoversi sottotraccia uomini dei sistemi criminali, massoni, vecchi arnesi della destra eversiva e pezzi di Stato.
E mentre da lunedì 27 Leoluca Biagio Bagarella, Salvatore Riina, Giovanni Brusca, oggi collaboratore di giustizia, Antonino Cinà, il postino del “papello”, insieme a uomini chiave degli ultimi trent’anni della storia occulta della Repubblica e gente che con loro ha avuto a che fare, come Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo, Vito, considerato uomo cerniera fra i clan e lo Stato, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, e tre alti ufficiali dei carabinieri, i generali Mario Mori e Antonio Subranni e l’ex colonnello Giuseppe De Donno, dovranno affrontare il giudizio di fronte al Tribunale di Palermo, altrove le indagini non si fermano.
Nel mirino dei magistrati ci sarebbero infatti gli anni che hanno condotto alle stragi palermitane, individuate come passaggio intermedio di una strategia che passa dalla Calabria e dal ruolo che fin dagli
anni Settanta il gotha delle ndrine calabresi – forse proprio in virtù di questo divenute tali – hanno giocato e tutt’ora giocano. Anni in cui, all’ombra di una rivolta di popolo, in seguito capitalizzata dalla destra eversiva e non, si gettavano le basi di quel grumo di potere impastato di massoneria, ndrangheta, Cosa Nostra, destra eversiva e servizi che verrà individuato ma non perseguito – per “necessarie ulteriori indagini” affermerà lo stesso pm dell’epoca - dall’inchiesta Sistemi Criminali dell’attuale procuratore capo di Palermo, Roberto Scarpinato.
Sistemi al lavoro tanto in Calabria, come in Sicilia, regioni divenute laboratorio criminale di una strategia che per teatro avrebbe dovuto avere l’Italia intera. E se in Calabria, a Reggio, verrà pensato il tentato golpe del principe nero Valerio Junio Borghese, sventato poi – dicono alcune fonti – da una telefonata di Licio Gelli, arrivata in quella notte dell’8 dicembre scelta per sovvertire le gracili istituzioni dell’allora
giovanissima Repubblica italiana, è sulle coste della Jonica e della Tirrenica che il rapporto d’amore fra ndrangheta e cosa nostra si è cementato. Non si tratta - o meglio non solo – dei dati ormai acquisiti sui traffici di sigarette e poi di eroina, sulla gestione condivisa del porto di Saline o sui killer vicendevolmente prestati dai clan siciliani alle ndrine e dalle ndrine ai clan, come nel caso della strage di Piazza Mercato, firmata da due sicari di Cosa Nostra in arrivo da Bagheria, Tommaso Scaduto e Antonio Di Cristina.
A costruire la trama di un disegno eversivo sono le relazioni che gli elementi di spicco di quella che sarà la ndrangheta nuova, forgiata al fuoco di una guerra dai fratelli Paolo e Giorgio De Stefano, fin dai primissimi anni Settanta hanno dimostrato di avere con i cugini pari rango siciliani e che nel tempo hanno coltivato. E così Rosario Pio Cattafi, capo mafia di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), con alle spalle una militanza in Ordine Nuovo e in
stretto contatto anche con Pietro Rampulla, exordinovista convertitosi in “artificiere” della strage di Capaci, così come con soggetti riconducibili a Licio Gelli e a Stefano Delle Chiaie, verrà pizzicato dai giudici milanesi a fare affari con il capo mafia catanese Benedetto Santapaola e il boss Cosimo Ruga di Monasterace, l’ideologo dei sequestri come strumento di pressione sullo Stato. E così il boss palermitano Stefano Bontate potrà permettersi il lusso di chiedere al re di Gioia Tauro, Mommo Piromalli – su mandato di Giulio Andreotti, rivela il pentito di ndrangheta Antonio Mammoliti – di interessarsi per far cessare le pressioni sul petroliere romano Bruno Nardini, divenuto oggetto di minacce e richieste estorsive dopo aver impiantato alcuni depositi di carburante a Vibo Marina. Richieste che – avrebbero saputo i siciliani dai Servizi di Intelligence – arrivavano dal comprensorio di Palmi. E così – ha rivelato il pentito Nino Fiume – sarebbero stati due killer calabresi – o meglio due arcoti - a trucidare, su mandato di Cosa Nostra il giudice Antonino Scopelliti, che avrebbe dovuto sostenere l’accusa nel maxiprocesso alla mafia siciliana in Cassazione. E così l’armiere del clan Lo Giudice, Antonio Cortese sarebbe stato “prestato” ai clan di Cosa Nostra negli anni delle stragi, dopo il secco no delle ndrine alla strategia stragista. Una proposta che le cosche siciliane avevano formalmente avanzato alle ndrine – hanno rivelato pentiti come Nino Fiume – in almeno due riunioni tenutesi nel ’93 in Calabria – una all’hotel Vittoria a Rosarno, un’altra al residence Blue paradise di Parghelia, vicino Limbadi- e che in precedenza era stata abbozzata circa mille e trecento chilometri più su, a Milano dove Franco Coco Trovato – parente e uomo di fiducia del clan De Stefano – aveva il suo regno e dove sul coinvolgimento delle ndrine nella strategia stragista che avrebbe insanguinato la Sicilia – e forse non solo – aveva iniziato a trattare.
Un attacco diretto -
ipotizzava oltre dieci anni fa l’allora pm Scarpinato e confermano oggi i magistrati che hanno costruito l’indagine che ha incassato il visto buono di Morosini – che forse non è che una parentesi di una strategia molto più antica e allo stesso tempo successiva agli anni delle stragi, battezzata con i Moti di Reggio, svezzata con le stragi di Stato – da Gioia Tauro a Brescia – e divenuta adulta negli anni del boom delle leghe regionali. Quei “progetti che - segnalavano gli inquirenti dell’epoca -sembravano poter coniugare perfettamente le molteplici aspirazioni provenienti da quel composito mondo nel quale gruppi criminali con finalità politico-eversive si affiancano a lobbies affaristiche e mafiose” e che avevano in Licio Gelli uno se non il principale ispiratore. Un progetto che in Calabria era cresciuto all’ombra di quella superloggia benedetta dai miliardi del pacchetto Colombo in cui ndranghetisti, vecchi arnesi dell’eversione, pezzi di Stato e della grande borghesia troveranno posto e che avrà emuli in Sicilia e altrove. Un progetto che casualmente troverà voce e gambe nella crociata dell’ideologo della Lega, Gianfranco Miglio, che immaginerà un nuovo Stato diviso in quattro macroregioni, in cuila costituzionalizzazione del potere dei sistemi criminali diventa un asse del sistema. Idee che – casualmente – si concretizzeranno nell’esplosione, avvenuta in quegli stessi anni, dei movimenti leghisti e regionalisti, che avranno – ancora casualmente – la propria riunione nazionale a Lamezia Terme.
Coincidenze, strane casualità, fili che nella storia ufficiale d’Italia non si intrecciano mai. Ma forse oggi potrebbero essere riuniti, riannodati fino a formare un’ unica trama. Quella che ha soffocato non solo il Sud, ma tutto il Paese. Alessia Candito