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I magistrati della Corte dei Conti hanno condannato l’austerità e la politica dei tagli lineari alle spesa pubblica. Le scelte politiche degli ultimi cinque anni sono state responsabili di difficoltà che avrebbero potuto essere evitate con una strategia differente. I giudici hanno accusato Governi e Parlamento numeri alla mano, così come si dovrebbe fare nell’ambito delle scienze economiche. Troppo spesso, si è accettato di dover applicare politiche recessive perché “lo chiedeva l’Europa” o lo sosteneva una certa dottrina economica. Linea di pensiero minoritaria visto il numero di premi Nobel apertamente critici nei confronti delle strategie di Commissione europea e Banca centrale. Tagli alla spesa accantonati anche negli Stati Uniti, patria del liberismo, dove la Federal Reserve ha preferito stampare moneta non curandosi di un leggero aumento dell’inflazione. Politica adottata ormai anche a Tokyo. Insomma, il documento della Corte dei Conti serve solo a consacrare quanto si sostiene da anni: la politica economica comunitaria sta uccidendo il Vecchio Continente. Il processo di involuzione sarà chiaro a tutti entro la fine dell’anno, quando sarà confermata la recessione dell’economia tedesca. “L’austerità serve ma non basta, anzi, se assolutizzata rischia di peggiorare la situazione”, questo emerge in un passaggio del Rapporto 2013 sul Coordinamento della Finanza Pubblica, elaborato dalla Corte dei Conti. Nell’ultima legislatura (2008-2013, di cui l’ultimo anno di governo tecnico) “l’adozione di una linea severa di austerità non ha, peraltro, impedito che gli obiettivi programmatici assunti all’inizio della legislatura fossero mancati”, anzi “è stata, essa stessa, una rilevante concausa dell’avvitamento verso la recessione”. Il presidente della Corte Luigi Giampaolino punta il dito contro “il mancato conseguimento del programmato pareggio di bilancio, con un indebitamento netto risultato alla fine di quasi 50 miliardi più elevato dell’obiettivo originario”. Per il nostro Paese - secondo il Rapporto - gli ultimi anni sono costati 230 miliardi di mancata crescita del Pil, la caduta del gettito fiscale che ha portato nelle casse dello Stato “quasi 90 miliardi in meno della proiezione”, senza peraltro una riduzione della pressione fiscale, che dal 2009 è aumentata “di oltre un punto in termini di Pil a livelli incompatibili con le esigenze della crescita”. E anche i risparmi sulla spesa, sebbene importanti sono risultati inferiori di oltre 40 miliardi rispetto alle attese di Palazzo Chigi. I giudici chiedono a chi governa maggiore equità, il rigore e basta non porta a nessun risultato apprezzabile. “Si è raggiunta la consapevolezza per cui l’emergenza della decrescita e della disoccupazione appare acquisire quantomeno un rilievo analogo a quello assegnato al percorso di riequilibrio di disavanzi e debito pubblico” - si legge nel documento – con un “giusto peso oggi riconosciuto alla crescita”. La Corte dei Conti invita comunque a non indulgere in facili ottimismi: “Ciò che serve all’Italia dall’Europa sono stimoli per crescere di più, non deroghe per spendere di più. Non si tratta di rincorrere defatiganti trattative per l’ennesima ridefinizione di regole e criteri dell’azione di riequilibrio dei conti pubblici, ma, piuttosto, di ritrovare le ragioni dell’appartenenza all’Unione Europea non nei soli vincoli di bilancio, ma nell’adozione di progetti di rilevante interesse strategico comune”. Il nuovo governo - osserva Giampaolino - “sembra proporre un primo tentativo di operare in discontinuità da una politica di bilancio che, a partire dall’estate 2011, ha dovuto fare affidamento su consistenti aumenti di imposte, nonostante le condizioni di profonda recessione in cui versava l’economia”. Nonostante le parole precise e severe, pochi nel mondo dei partiti si sono sentiti in dovere di svolgere un mea culpa. È stato più facile cadere dal pero e, contemporaneamente, esibirsi in applausi per le parole del Presidente della Corte. Come se per lunghi anni nessuno avesse messo in guardia il Parlamento, mentre si convertivano in maniera acritica decine di decreti legge sulla materia economica e finanziaria, c’era chi sosteneva la follia della tecnocrazia e dei suoi sodali. Le parole dei magistrati devono far avviare una riflessione in seno a tutte le forze politiche. Continuare sulla stessa strada rischia di essere fatale per tutti: Stato, imprese private e cittadini. Senza stimoli non ci può essere crescita. Matteo Mascia
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