La canzone napoletana, un tesoro trascurato
 







di Rosario Ruggiero




Due recenti iniziative, a Napoli, legate al mondo della musica, inducono prepotentemente ad una riflessione.
Il primo evento è la mostra documentaria dedicata a “L’ora della canzone napoletana”, seguitissima serie di spettacoli che fu curata dal tenore Lino Cavallaro, durata ben due lustri, oggi, purtroppo, estintasi. In una capiente sala teatrale, l’appassionato cantante realizzava, periodicamente, serate monografiche dedicate alla canzone partenopea nel corso delle quali un esperto opportunamente scelto illustrava brevemente un particolare argomento inerente a quella specifica forma espressiva, un autore, un interprete, un particolare genere, come la “canzone di giacca”, la “macchietta”, la tarantella o la serenata. Seguiva una ampia serie di canzoni, a coronare l’illustrazione, eseguite da vari interpreti, giovani o già di lunga carriera, famosi o aspiranti alla gloria. L’esposizione ultimamente conclusasi di fotografie di quella iniziativa,
locandine ed altro, ospitata nella biblioteca comunale “Benedetto Croce”, ha inteso perciò ricordare quei momenti, i loro protagonisti ed i diversi temi trattati.
Il secondo evento è stato invece un’applaudita manifestazione che ha avuto luogo tra le prestigiose pareti del conservatorio di musica “San Pietro a Majella”, nella Sala Scarlatti, serata già similmente svolta lo scorso anno, tutta dedicata ad E.A.Mario, al secolo Giovanni Ermete Gaeta, fecondo autore di musiche, parole o entrambe insieme, di indimenticabili canzoni come “Santa Lucia luntana”, “Funtana all’ombra”, “Canzona appassiunata”, “Dduje paravise”, “Tammurriata nera” ed infinite altre ancora. Iniziativa fortemente voluta e curata dai discendenti del compianto artista, affollata ed applaudita, ma unica del genere, il conservatorio napoletano limitandosi poco più che ad ospitarla, senza farla seguire da iniziative analoghe per celebrare, ricordare e diffondere la conoscenza di altri autori ed altre opere di questo
specifico repertorio.
La considerazione che ne viene fuori è spontanea. Il valore artistico e più ampiamente culturale della secolare canzone classica napoletana è così grande e clamoroso, sia dal punto di vista linguistico che musicale, storico o sociologico, da rendere superfluo dimostrarlo e ribadirlo ancora. Perché allora ancora sostanzialmente il suo ruolo riduttivo di semplice espressione folcloristica o redditizio prodotto commerciale? Perché non cattedre di studio universitario  circa le sue musiche, i suoi testi, la sua storia o la sua tecnica interpretativa? Perché non luoghi espressamente consacrati al suo più attento ascolto collettivo se non il contributo sensibile, ma faticoso, necessariamente limitato e spesso occasionale di privati cittadini? E questo nella stessa Italia che ospita nei suoi conservatori lo studio di una forma musicale, il jazz, nata dal canto dolente o d’evasione di un lontano popolo africano tristemente trapiantato oltreoceano.
Viene da
pensare che forse la scandalosa trascuratezza in Italia dei più profondi valori culturali della canzone napoletana, amarissimo monito, sia l’ulteriore lezione civile di questo meraviglioso tesoro.