Adesso è più importante lavorare che tagliare
 











In questi ultimi quattro anni, salvo una piccola luce all’inizio del 2010, il buio della crisi ha accompagnato quotidianamente la vita e il lavoro, di ciascuno di noi. Tutto, specialmente in Europa, veniva avvinghiato in una spirale che trascinava tutti sempre più in basso. Vista dall’Italia, poi, la situazione appariva ancora più tragica, perché ai guai di una crisi che nemmeno il governo dei “tecnici” era riuscito a risolvere si aggiungeva un passaggio elettorale con un risultato che rendeva la situazione ancor più bloccata di prima, ed un rinnovo del mandato settennale al presidente Napolitano che nessuno avrebbe potuto (e voluto) immaginare. Recentemente però qualcosa ha cominciato a muoversi con segno positivo. Nonostante il persistere cocciuto della Commissione Europea in difesa delle politiche di austerità, la riduzione del tasso di sconto, operata tre volte dalla banca centrale durante il mandato di Draghi, e l’ultra generosa politica di sostegno alle banche, hanno perlomeno ottenuto di fermare i micidiali attacchi della speculazione al debito sovrano dei paesi europei. Troppo poco per esultare, però. Aver salvato le banche non basta certo a salvare l’Europa. Per ottenere questo risultato occorre invertire decisamente la rotta. L’esempio degli Stati Uniti, dove alcuni deboli segnali di ripresa si vedono chiaramente dopo cinque anni di crisi profonda (determinata in gran parte proprio dalle politiche di austerity imposte dai repubblicani), ma ancor più luminosa è la luce che arriva dal Giappone, che per primo ha capito che la chiave della ripresa sta tutta nella capacità di riavviare i consumi. Finché non si rilanciano i consumi interni del paese, non ci può essere nessuna sostanziale ripresa economica. E naturalmente la ripresa dei consumi è strettamente legata al dato occupazionale, a sua volta determinato da un forte ed efficace sostegno alle imprese. Non è da oggi che si sentono anche autorevoli voci dire che occorre sostenere l’occupazione. L’hanno detto anche Monti e Letta tempo addietro, e proprio l’altro ieri l’ha detto anche il presidente Napolitano. Ma detto in questo modo, senza un piano concreto capace di convertire le parole in fatti, diventa puro esercizio retorico, utile forse a creare un po’ di ottimismo, ma niente più. Certamente creare posti di lavoro non è cosa che può fare il presidente della repubblica. È buona cosa che lui lo dica, il guaio è che nessuno lo ascolta. Veri piani per l’occupazione non se ne vedono. Il motivo principale è che al giorno d’oggi vige ancora il mito che l’occupazione si crea da sola. Un mito che si è formato negli ultimi 30 anni grazie alle politiche “liberiste” attuate negli Stati Uniti, e subito imitate da tutti i paesi industrializzati perché per un po’ la strategia ha funzionato bene. Fino agli anni 90 infatti le strategie economiche, a grandi linee, erano due, quella “centralista” dettata dall’Unione Sovietica, e quella “liberista”, dettata dagli Stati Uniti. Con il crollo del sistema sovietico, la strategia liberista ha avuto campo libero ed è dilagata in tutto il mondo libero, un po’ per suoi meriti ed un po’ per mancanza di adeguati competitors. Si è creato così il mito che il liberismo fa crescere insieme le opportunità d’impresa, i guadagni e... l’occupazione. Unico problema: bisogna abbassare le tasse. Perché le tasse, esercitando un peso esterno ed anomalo sulla redditività aziendale, riducono la capacità di competere dell’impresa. Questi liberisti si sono talmente innamorati del loro verbo che hanno completamente dimenticato altri fattori anch’essi essenziali alla buona riuscita di una impresa: per esempio la pace sociale e l’organizzazione evoluta delle relazioni e delle transazioni. Dove mancano questi fattori le uniche imprese che possono guadagnare bene sono quelle dei beni primari e quelle che producono armi. Ma a questi fattori, dagli anni ‘90, se ne è aggiunto un altro che rapidamente è diventato il più importante di tutti: la globalizzazione. La globalizzazione produce il valore positivo di far uscire dalla miseria alcune aree del globo, ma necessita di essere strettamente governata (cioè il contrario del liberismo), altrimenti succede che fa bene da una parte ma fa male dall’altra. Lasciata al capriccio e alla cupidigia dei liberisti crea disastri non solo nei paesi capitalisti ma anche nei paesi in via di sviluppo, come le recenti stragi di lavoratori in Cina e in Bangladesh dimostrano. Per non parlare dell’inquinamento atmosferico e dei mari, che troppi ancora fingono di non vedere per non disturbare il proprio tornaconto. È necessario perciò che le strategie per la ripresa economica dei paesi colpiti dalla crisi siano accompagnate da politiche di contenimento delle delocalizzazioni delle imprese e di monitoraggio per una crescita equilibrata che non vada a discapito delle economie industrializzate. Sul piano interno, per l’Italia in particolare, in questa difficilissima fase di rilancio dell’economia occorre concentrarsi su tutto ciò che è necessario fare per sostenere la ripresa. Quindi, tanto per cominciare, è necessario cancellare la parola “tagli” dal vocabolario del governo. Ovvio che questo è da prendere come concetto, non come rigida regola. I tagli ovviamente si possono fare (specialmente sui costi della politica), ma senza che diventino linea strategica e non allo scopo semplicistico di “risparmiare”. In questo momento, sul piano della macro-economia, tutto ciò che è risparmio di fatto alimenta la recessione, perché toglie denaro ai consumi, e invece in questa fase è indispensabile, per uscire dalla crisi, un forte rilancio dei consumi. Quindi, come priorità tempistica, il sostegno ai “consumi” è più urgente che la razionalizzazione delle spese. E per rilanciare l’occupazione occorre dividere il piano occupazionale in due livelli, quello strategico e quello contingente. Sul piano strategico occorre mettere i lavori che oggi funzionano e quelli del futuro (collegandoli con la scuola, l’addestramento e la ricerca). Sul piano contingente, al fine di dare lavoro a moltitudini che sono state emarginate spesso senza una vera necessità ma solo per convenienza, occorre riattivare quei lavori che nel tempo sono stati sostituiti dalla meccanizzazione e dalla robotizzazione. Ovvio che dovrà essere il campo pubblico a doversene occupare. In campo pubblico esistono decina di migliaia di questi lavori, generati a suo tempo artificialmente al solo scopo di creare quel “voto di scambio” che ha favorito la conquista della poltrona parlamentare a schiere di politici (l’esempio classico è la sanità siciliana.) Ora, per risparmiare sulle spese statali, si parla di eliminare questi sprechi. Il che sarebbe giusto se non fosse che a fronte di quel risparmio si creerebbero sacche di povertà spaventose sul piano sociale. E comunque, come abbiamo già visto, non farebbero nemmeno bene all’economia generale. È scritto nella Costituzione, il lavoro deve essere garantito a tutti. Bisogna organizzarsi per creare lavoratori qualificati, ma in attesa della riqualificazione lo Stato deve garantire il lavoro anche ai lavoratori obsoleti. È un dovere non solo sul piano sociale, ma anche economico. Il ministro del Lavoro può e deve fare molto di più che attivarsi per cancellare le conquiste sindacali. Roberto Marchesi