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Milano afflitta da -questioni mortali- in un saggio scritto da Aldo Bonomi
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di Agostino Petrillo
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Da tempo si è aperto un dibattito socio-economico sul futuro di Milano, complesso e controverso non solo per l’importanza delle poste in gioco e per gli orizzonti coinvolti, ma anche perché i mutamenti della città non hanno potuto contare, per essere compresi, su ricerche significative. Sebbene alcuni volumi recenti abbiano riaffermato, al di là delle «voci di declino», la centralità di Milano come «nodo della rete globale», magari per metterne in rilievo anche la cresciuta «vulnerabilità», il tentativo attuato dal volume di Aldo Bonomi Milano ai tempi delle moltitudini, (Bruno Mondadori, 2008, euro 26) è più ambizioso e i suoi risultati molto meno rassicuranti. Restituendoci in forma saggistica i dati provenienti da una serie di ricerche condotte negli ultimi anni insieme ai suoi collaboratori sulla realtà urbana milanese, Bonomi per un verso ci sorprende utilizzando categorie innovatrici mutuate dalla filosofia politica contemporanea, tanto che senza eccessiva pruderie filologica impiega concetti come quelli di «moltitudine», «general intellect» e «nuda vita»; ma per un altro verso fornisce uno spaccato della Milano attuale meno retorico e prudente di altri lavori più tradizionali. Finisce anzi per porre alcune delle «questioni mortali» intorno a cui sembrano giocarsi oggi i destini della città, mettendo per esempio in luce con chiarezza il problema delle élites, della loro variegata composizione, della difficile e limitata «territorializzazione» dei ceti dominanti attuali, e della crisi del ruolo storicamente svolto dalla borghesia tradizionale. Inoltre, Bonomi sottolinea alcune tra le cause del lento degrado in cui si vanno smarrendo sia i fattori storici dell’integrazione che i legami tra classi dirigenti e città: la difficoltà di trovare una vocazione chiara nella «lunga transizione terziaria» postfordista, il trionfo della rendita, la mancanza di una significativa mobilità sociale, il discutibile utilizzo della forza-lavoro immigrata, la precarizzazione del lavoro. Globale e locale raramente si parlano e si incontrano solo fisicamente sul terreno della città senza fondersi in una visione unitaria, rinviando inesorabilmente ad ambiti separati, in cui si costituiscono come universi non comunicanti i mondi dei vincenti e quelli dei perdenti. Forse, la parte più efficace del testo è proprio quella in cui viene descritto il rumore di fondo che sale dalla «città invisibile», ossia dalle cerchie di coloro che sono spremuti ed espulsi dal mercato del lavoro, da chi paga i costi umani e sociali della trasformazione. Sono «naufraghi del fordismo» di vario genere: migranti impiegati nei nuovi lavori servili, giovani disoccupati o precarizzati, manodopera ipersfruttata dal ritorno del caporalato e dal dilagare del lavoro nero, soprattutto in settori come l’edilizia. A Milano, il mercato del lavoro è frammentato, e la componente «in nero» funge da potente elemento di alterazione; ma il disagio della città si rende evidente anche nella descrizione dei percorsi di coloro che vengono definiti - con formula un po’ enfatica e parziale - «capitalisti personali», i lavoratori della conoscenza, i «no-collars», gli specialisti delle industrie creative. Anche per loro Milano non è più una terra promessa, e più si fa tenue il tessuto relazionale di cui hanno bisogno, più lunghi e vischiosi sono i percorsi di affermazione personale. Tuttavia, l’affresco rimane in sospeso, raggelato in un’immagine tutto sommato ancora edulcorata dei processi in corso; e quella decadenza della città che nel libro viene paventata forse invece è già cominciata. Chi rifacendosi magari a studi un po’ invecchiati, come quello menzionato nel testo di Peter Taylor sulle World Cities continua a consolarsi pensando che nonostante tutto Milano rimane una città globale tra le più importanti del pianeta, rimarrà sorpreso del posto che alla città viene attribuito da studi più aggiornati. Milano, infatti, scende nel ranking delle classifiche internazionali delle città, sembra perdere terreno, si provincializza, ristagna, come peraltro paiono confermare alcune delle interviste che costituiscono uno dei maggiori fattori di ricchezza del libro. Su Milano si allungano le ombre di economie mafiose, si infittiscono i legami con le orbite di capitali di dubbia origine. La città, insomma, è lo specchio della crisi del paese e sebbene mantenga una sua vitalità, sebbene abbia ancora strutture organizzative solide e possa continuare a guardare al nord-Europa per trovare nuove opportunità, il suo stallo è evidente. Il punto sul quale gli studiosi delle città globali concordano è che dal «melting-pot postfordista» devono emergere vocazioni chiare: tra le capitali mondiali dell’economia non c’è posto per chi fa confusamente «un po’ di tutto». Nel libro di Bonomi, inoltre, si legge una sorta di «naturalismo» dei processi tale per cui i cambiamenti sarebbero riconducibili a grandi trasformazioni d’epoca più che a scelte avvenute in precedenza. Insomma, non si vede mai il ruolo della politica. Proprio in un’epoca in cui il peso delle amministrazioni locali è decisivo nel decidere il successo o il fallimento di intere metropoli, qui sembra che tutto sia avvenuto per opera di forze trascendenti e che la situazione attuale sia quasi il frutto di una serie di concatenazioni casuali.de Il Manifesto |
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