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Il profumo della vittoria |
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Già dagli albori dell’era moderna il numero dei fronti su cui si combatte una guerra si è moltiplicato in via esponenziale, fino a rendere il fenomeno bellico talmente complesso e sfaccettato da non permettere spesso una chiara visione d’insieme e un’analisi completa del suo svolgimento e delle sue motivazioni, e dall’impedire ai più una realistica previsione di quali ne saranno gli esiti. Se appaiono quindi puerili e destinate al voyeurismo mediatico le ricostruzioni da grande quotidiano o da salotto televisivo in cui si espongono le forze in campo in un conflitto con un prospettino di dare/avere (tot aeroplani, tot camion, tot pezzi d’artiglieria), non possono neppure essere considerate esaustive le – pur valide e fondate – analisi del retroterra geoeconomico e geopolitico, quindi dell’influenza dei mercati, delle oligarchie di regolamentazione monetaria, delle dinamiche legate al transito delle linee di trasporto energetiche. Se è infatti vero che nei conflitti già da tempo ai cingoli dei carri armati si accompagnano le manovre dell’economia e della finanza, occorre considerare un ulteriore fattore che dalla prima metà del Novecento ha avuto un’importanza crescente e si è sviluppato sotto molteplici forme. Parliamo naturalmente delle relazioni diplomatiche internazionali e di quanto queste si dipanino – in seno alla conduzione di una guerra o di uno stato di conflittualità – non solo su un piano reale (che spesso è celato al pubblico e all’informazione, è il livello “esoterico” delle diplomazia a porte chiuse) ma anche e sempre di più su di un piano propagandistico e di condizionamento psicologico, ed è questo il livello delle relazioni diplomatiche che viene divulgato al pubblico al fine di condizionare il consenso, di legittimare i guerrafondai e di demonizzare il nemico. Sia chiaro, la (sporca) “guerra psicologica” è sempre esistita: gli statunitensi ne erano maestri indiscussi già dal secondo conflitto mondiale, quando alla sua conduzione furono preposti anche degli appositi Istituti (P.W.B., ecc.). La novità degli ultimi anni sta però nel “matrimonio” tra questa tecnica bellica e le relazioni internazionali. Fino alla fine della guerra fredda questa interazione sarebbe stata di molto più difficile realizzazione, data la possibilità di deterrenza reciproca comportata dalla suddivisione del pianeta tra i due “blocchi di Jalta” e la forza numerica del (pur emarginato) Movimento dei non-allineati. Erano tempi in cui la demonizzazione dell’avversario strategico non era possibile, se non in forma di blanda propaganda hollywoodiana, o che comunque era inficiata dalla contrapposizione di blocchi continentali con opposte dottrine di politica internazionale. Nel 1980, gli Stati Uniti si decisero per il boicottaggio delle XXII Olimpiadi di Mosca, per protesta contro la politica espansiva dei sovietici in Afghanistan. Il boicottaggio internazionale è un arma potentissima, soprattutto se in mano a una superpotenza: è una manifestazione di non riconoscimento della sfera giuridica di un’altra Nazione. Ciò nonostante le Olimpiadi si tennero ugualmente, regolarmente e conseguirono il consueto successo mediatico. Addirittura alcune nazioni gravitanti nell’orbita nordamericana decisero di partecipare ugualmente, gareggiando sotto la bandiera olimpica. Ciò fu possibile solo grazie a una situazione mondiale formalmente non unipolare, grazie quindi alla forza internazionale dell’Unione Sovietica. Se il boicottaggio americano fosse avvenuto solo vent’anni dopo, le Olimpiadi verosimilmente non si sarebbero neanche tenute, manco le avesse organizzate Belzebù. Quando venne costituito lo stato d’Israele, la maggior parte dei Paesi arabi non lo riconobbe. Non solo: molte nazioni del mondo manifestarono, chi più apertamente chi meno, un’esplicita ostilità e il sostegno alla causa palestinese, alla lotta armata alla resistenza. Ciò fu possibile grazie alla forza del movimento non-allineato dei Paesi che facevano riferimento a una politica (quando di matrice “araba”, quando di matrice “anti-imperialista”) di indipendenza dai dettami dell’Occidente. Alla fine del Novecento, ciò sarebbe stato impensabile: gli Stati che mettevano in discussione chiaramente lo stesso diritto all’esistenza dello stato ebraico erano messi all’indice, esclusi dal consesso internazionale, additati come “terroristi”. L’apice di questa politica di guerra psicologica condizionante la diplomazia internazionale fu toccato tra la fine del secolo scorso e i primi anni del nuovo millennio: quando si stabilì che Saddam Hussein e l’Iraq ba’athista erano dei “mostri”, nessuno trovò nulla da eccepire, tutti si trovarono d’accordo. Quando George Bush figlio stabilì che alcuni ostacoli si scontravano con i progetti di egemonia americana, non ebbe esitazioni a definirli “Asse del Male”, senza mezzi termini. Da una parte c’era il “Bene”, dall’altra L’Iran, l’Iraq, Cuba, la Siria, la Libia, la Corea popolare. E nessuno fece nulla. Ma il giochino si ruppe. Cominciò a manifestare le prime crepe qualche anno dopo la guerra alla Jugoslavia del 1999, quando gettarono al suolo il vaso di Pandora riconoscendo (in piena Europa!) l’indipendenza conseguita con le armi alla provincia di uno Stato non conforme alle direttive internazionali. Indipendenza che a tutt’oggi resta “sospesa” nella reazione di un mondo “extra-americano” che sta cominciando a rialzare la testa. È lo stesso scatto d’orgoglio che ha reso possibile, tra il 2009 il 2010, l’apertura di un vasto fronte sudamericano di Paesi che non riconoscono l’entità sionista, o la necessità di negoziare con una Russia tornata protagonista l’inserimento di questo o di quello Stato, di questo o di quel movimento, nella lista dei “cattivi”. Per gli Stati Uniti questa caduta è il moto uniforme di una pallina su un piano inclinato, che non può più essere arrestata. Ulteriori conferme si stanno avendo dalle confortanti notizie che giungono dalla guerra imposta alla Siria sovrana. Gli Usa, trovando una facile sponda nei Paesi “amici” (?), hanno già da tempo delegittimato il governo di Damasco attraverso la chiusura dei rapporti diplomatici e il riconoscimento – a livello internazionale – della cosiddetta “opposizione siriana” quale unica rappresentante del Paese. Solo pochi anni or sono, ciò avrebbe significato un punto di non ritorno: si sarebbe dovuto solo attendere che le armi e la violenza confermassero il verdetto, rovesciando il governo. Potrebbe, per la prima volta nella storia recente, non essere così: grazie anche alla grave disfatta dell’opposizione e dell’ “esercito libero” (??), alla politica di vicinanza con Damasco della Russia e della Cina, al coinvolgimento dell’Iran e della vera resistenza palestinese, il mondo occidentale potrebbe essere costretto a tornare sui propri passi, mettendo al passivo delle sue scellerate campagne di aggressione una grave sconfitta e un drammatico (per loro) precedente storico-politico. Impossibile? Affatto. Il rifiuto, da parte della stessa Unione Europea, della proposta da parte inglese di rafforzare l’opposizione internazionale a Hizbollah inserendo la formazione politico-militare nella lista nera del terrorismo internazionale, ne è un segnale eloquente. È la salutare rottura di un mondo unipolare e violento. È il riconoscimento inequivocabile della Civiltà da contrapporre alla barbarie. È la riaffermazione della volontà dei popoli di tornare a far sentire la propria voce, di non cedere alla violenza. È il profumo inconfondibile, di cui si sentiva da troppo tempo la mancanza, della Vittoria: che proviene da Damasco e che dovrà irradiarsi in tutto il mondo. Fabrizio Fiorini |
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