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“Soloni”. Cioè: quelli che danno le “sòle”...
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C’è un pezzo di storia finanziaria (ed istituzionale) italiana nella recente sentenza della Corte Costituzionale 186, pubblicata il 12 luglio. Non è solo un intervento a favore dei creditori delle pubbliche amministrazioni di cui tanto si discute – da qualche mese. No: è la condanna di una prassi invalsa nell’ultimo ventennio (quello della cosiddetta “seconda repubblica”) più congeniale ai governi di centrosinistra o comunque non berlusconiani che a quest’ultimi, ma comunque non estranea neanche a questi. E c’è,del pari, la demolizione (implicita) di alcuni degli idola del costituzionalismo pret-à-porter (o da rotocalco) e della sinistra radical-chic. Tra i quali l’evidenza che la costituzione, solennemente proclamata intangibile come le tavole mosaiche, è allegramente, ripetutamente e crassamente violata dai governi (e maggioranze) “costituzionalmente corretti”. Basti dire che le norme dichiarate incostituzionali sono la ripetizione, con cambiamenti solo lessicali e formali, di norme di legge già promulgate dai governi Ciampi e Prodi, per “entrare in Europa” e “risanare i conti”. All’uopo, e a partire dal ’93, nel bel mezzo della tempesta giustizialista, si iniziò a limitare l’esecuzione forzata nei confronti degli enti pubblici, proseguendo con norme che frapponevano ostacoli ai creditori (e a quel paria della magistratura che è il giudice delle esecuzioni civili) a realizzare il credito. Con l’art. 11 della legge 19 marzo 1993, n. 68 concernente “disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica”, si integrava l’art. 24 della L. 720/84 del comma 4 bis; ed in particolare si precisava che non erano ammessi atti di sequestro o di pignoramento presso soggetti diversi dal Tesoriere dell’Ente. Con una norma siffatta il sistema volpino (si fa per dire) per non pagare il creditore era (ed è) semplice: basta far andare in “rosso” il conto presso il Tesoriere e dirottare su altre disponibilità le liquidità dell’Ente. Ma anche tale norma pareva non bastare. Con l’art. 113 del D.L. 25/2/95 n. 77, si disponeva nuovamente: “1) Non sono ammesse procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli enti locali di cui all’art. 1, comma 2, presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri. Gli atti esecutivi eventualmente intrapresi non determinano vincoli sui beni oggetto della procedura espropriativa”. Ciò che accomuna questi (e similari espedienti) a quelli dichiarati ora illegittimi dalla Corte Costituzionale è d’agire sui diritti (processuali) dei creditori e sui poteri (processuali) del Giudice vanificando con limitazioni varie il diritto sostanziale delle parti. Il che non deve stupire: non è nuovo né originale, ma è attraente per debitori pubblici, tentati a ripeterlo. Infatti le norme (del 2010-2012) dichiarate incostituzionali con la sent. 186 disponevano che “i pignoramenti e le prenotazioni a debito… non producono effetti dalla suddetta data fino al 31 dicembre 2012 e non vincolano gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri, i quali possono disporre, per le finalità istituzionali deio predetti enti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo” e la disposizione successiva chiariva e aggiungeva anche “che nel novero delle azioni esecutive oggetto di blocco vi sono anche i giudizi di ottemperanza” e, tanto peggio per i creditori dello Stato, che “i pignoramenti e le prenotazioni a debito … sono estinti di diritto dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Dalla medesima data cessano i doveri di custodia sulle predette somme, con obbligo per i tesorieri di renderle immediatamente disponibili, senza previa pronuncia giurisdizionale” (alla faccia della magistratura, in altri casi tanto ossequiata). Queste norme abnormi (anche se reiterate) erano rimesse da vari giudici alla Corte per la violazione degli articoli 3, 24, 41, 111, 117 della Costituzione (ma ne manca almeno un altro: l’art. 97), cioè più di quante spesso ne violi un qualsiasi governo per adottare misure d’eccezione. A che serve – se il risultato è questo - non avere previsto nella costituzione italiana misure eccezionali? Solo a farla violare, perché, come sosteneva Santi Romano, la necessità è fonte di diritto superiore alla legge e perciò, ove ricorra quella, deroghe, rotture, sospensioni alle norme costituzionali sono legittime. Così a parole, protestando l’intangibilità della Costituzione e nelle opere violandola, si ottiene l’effetto di “parere” rigoroso senza esserlo. E fin qui niente che Machiavelli, tra gli altri, non ci abbia insegnato; tuttavia della lezione di Machiavelli i garruli (e ipocriti) governanti non hanno appreso la sostanza. Ché, se è vero che per il Principe è necessario ”parere di avere” doti e intenzioni “buone” perché gli uomini “iudicano più alli occhi che alle mani”, il tutto è necessario al fine di “vincere e mantenere uno Stato” (che non significa, secondo Machiavelli, solo la “poltrona”del governante); per il quale scopo “e mezzi sempre fiero indicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati”. Ma nel caso specifico a cosa è servita questa politica della dilazione dei pagamenti pubblici, spalmata, ora più ora meno, in vent’anni di storia repubblicana? Sostanzialmente a niente. O meglio: se a breve termine ha risolto (forse) qualche problema di cassa, lo ha aggravato nel medio periodo. Il rapporto debito/PIL, per un po’ migliorato, ma ancor di più nascosto con questi (e simili) espedienti, si è aggravato o almeno ripresentato subito dopo. Si noti che queste misure dilatorie coincidono con due periodi: il primo, degli anni ’90 caratterizzato dal crollo della lira e dalla successiva e virtuosa decisione di entrare nell’euro; e quello, conseguente alla crisi, non ancora conclusa, del 2008. Nei periodi di difficoltà lo Stato sociale mette in atto misure straordinarie quanto, nel caso dell’Italia, piattamente monotone: aumentare le imposte e dilazionare i pagamenti del settore pubblico. Il cui risultato è solo quello di rinviare il paese da una crisi all’altra. Il problema della finanza pubblica così non è risolto, ma solo differito. A prezzo di costi, evidenti e occultati, crescenti. Qualche mese fa, ad una trasmissione televisiva post-elezioni politiche, vi fu (l’insolita) presenza dell’ambasciatore britannico. Il quale interrogato sul perché gli stranieri non investono in Italia e gli italiani anche, indicò tre ragioni: a)l’inefficienza delle pubbliche amministrazioni; b) la lentezza (e la poca prevedibilità) della giustizia italiana; c) la lungaggine dei pagamenti del settore pubblico. Ovviamente lungaggini propiziate da norme come quelle dichiarate incostituzionali con la sentenza 186. E da affermazioni come quella, di oltre un anno fa di Monti che si dichiarò “sdegnato” dalla proposta di estendere la compensazione tra crediti e debiti verso lo Stato, resa istituto generale da Giustiniano. Nessuno si chiese quanto avesse contribuito al calo degli investimenti (esteri e nazionali) una così autorevole affermazione di non voler pagare i debiti propri, neppure detraendoli dai crediti vantati nei confronti degli stessi soggetti. In queste condizioni, investire è un suicidio; e non si sa se oltre a far dissuadere dall’investire, le uscite di Monti (ma non del solo Monti) abbiano contribuito a consolidare l’immagine ipocrita e furbesca di una Italia che, programmaticamente, dichiara di non voler pagare i debiti, ma di esigere i crediti (anche quando non sono del tutto tali). D’altra parte con certe premesse, è ingenuo meravigliarsi che il debito pubblico sia stato incrementato da gran parte dei governi, e che solo quello Monti l’abbia aumentato di circa un centinaio di miliardi, ad onta della tassazione compulsiva praticata. Perché la prima regola per far calare i debiti è di estinguerli, pagandoli o compensandoli. Ma se, invece, si rinviano i pagamenti e si sdegnano le compensazioni, è chiaro che i debiti aumentano, non foss’altro che per interessi ed accessori vari. Il tutto corrobora l’opinione che il problema dell’Italia sia soprattutto quello della propria classe dirigente (politica e non, anzi forse più questa che quella): la mancanza di soluzioni che non siano le solite, ripetitive e di provata inutilità; il comportamento da forti con i deboli, ma deboli con i forti; il tenere prediche invece che ottenere risultati, è proprio il contrario di quello che una classe dirigente, che aspirasse ad essere l’hegeliana classe generale, dovrebbe praticare. Ma finché ne avremo una così tremebonda ed incapace è difficile aspettarsi qualcosa di diverso: ed è difficile anche sperare come, dato che questo è il frutto di decenni di controselezione e di diseducazione. Danni lunghi da riparare.Teodoro Klitsche de la Grange |
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