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Letta parla, le aziende scappano |
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Potremmo costruire le prossime Alfa Romeo all’estero... E’ bastata una frase di Sergio Marchionne per gelare il sangue a chiunque abbia a cuore il futuro della produzione industriale in Italia. Il numero uno della Fiat, infatti, non è nuovo a questi colpi di scena. Tre anni fa, nello stabilimento di Mirafiori, erano già partiti i lavori per ospitare la linea della 500L quando arrivò l’annuncio che tutto andava trasferito in Serbia. E così oggi, sul futuro della fabbrica torinese e di quella di Cassino, dove il manager aveva detto che sarebbero state assemblate le Alfa, gli interrogativi sono pesantissimi.«Il governo sta lavorando perché si possa fare industria», ha detto il premier Enrico Letta al termine di un incontro con Marchionne e il presidente Fiat, John Elkann. Parole rivolte a tutti gli imprenditori che, però, sono state accolte con cautela. Un po’ perché il futuro del governo sembra ancor più incerto di quello dell’Alfa. Un po’ perché è ormai da tempo che le ricette per bloccare la fuga delle fabbriche sono sul tavolo, senza che nulla venga fatto. Per capire che cosa servirebbe per invertire un declino che dall’inizio della crisi ha cancellato un’impresa su quattro in settori come la farmaceutica o il tessile,"l’Espresso" ha isolato cinque aree su cui gli imprenditori concordano che si dovrebbe intervenire. Ma nelle quali, per colpa dei veti incrociati, ogni riforma è stata bloccata. Un dilemma che rischia di riproporsi in autunno sulla prima questione all’ordine del giorno: la riduzione delle tasse che gravano sul lavoro, un imperativo che si scontra con la battaglia per ridurre l’Imu, cara a Silvio Berlusconi. IO LAVORO TU INCASSI Da mesi la Confindustria sostiene che serve depennare 11,3 miliardi dal costo del lavoro delle manifatture italiane. L’idea è questa: agli imprenditori ogni dipendente costa un botto. Se però si tolgono imposte e contributi (il cuneo fiscale), ai lavoratori resta in tasca poco: il reddito reale è tornato ai livelli del 1997, mentre il costo del lavoro non ha smesso di crescere. Un fattore che contribuisce a frenare l’occupazione, come hanno ripetuto vari osservatori, dalla Banca d’Italia all’agenzia Standard & Poor’s. Il motivo per cui non è stato fatto sta tutto in un numero: l’anno scorso lo Stato ha incassato grazie all’imposta sui redditi (l’Irpef) pagata da dipendenti e pensionati oltre 130 miliardi, 12 in più rispetto al 2007. Molte fabbriche hanno chiuso, il numero dei cassintegrati è esploso ma il gettito Irpef è aumentato. Il significato è uno solo: in un Paese dove l’evasione fiscale è alta, spremere all’osso chi paga le tasse è l’unico modo per far quadrare i conti. Tuttavia il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, è stato chiaro: i costi delle imprese vanno ridotti e il lavoro è la prima voce su cui intervenire. «Serve una terapia d’urto», ha scritto, indicando anche altre misure per andare nella stessa direzione, fra cui l’eliminazione del costo del lavoro dal complesso meccanismo che serve per calcolare l’Irap (con un beneficio per le imprese di 9 miliardi). Da notare che, su questo punto, si è detta a favore anche Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, molto cauta invece quando si parla di una riduzione generalizzata del cuneo fiscale, alla quale preferirebbe misure specifiche per favorire chi crea occupazione. PIU’ CONSUMI, PLEASE Il dilemma, ben descritto nell’intervista a pagina 110 dal ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, è far sì che gli sgravi non vadano solo a ingrassare i profitti ma favoriscano gli investimenti e sostengano i redditi di chi lavora. La Confindustria ha indicato espressamente nel crollo dei consumi delle famiglie il motivo dell’ondata di recessione del 2010, e ha scritto che il governo deve puntare su un loro aumento del 10 per cento nel giro di quattro anni perché l’industria torni a crescere. Yoram Gutgeld, un esperto di economia che ha lavorato al colosso della consulenza McKinsey, oggi deputato Pd, pensa che i due obiettivi - riduzione del costo del lavoro e sostegno ai consumi - possano essere colti grazie a un sistema di detrazioni Irpef limitato a chi guadagna meno di 2 mila euro al mese: «Bisognerebbe far sì che si ritrovino in tasca circa 100 euro al mese in più», dice, ipotizzando che il governo dovrebbe mettere in gioco per questa misura una cifra complessiva di circa 15 miliardi. Gutgeld, considerato uno dei consiglieri economici di Matteo Renzi, ritiene che per finanziare questa mossa serva all’inizio una sventagliata di privatizzazioni, poi misure strutturali, come ad esempio un taglio agli incentivi alle imprese (che la stessa Confindustria quantifica si possano ridurre di 7 miliardi l’anno). CHE COSTO, IL BUROCRATE Fra chi ha provato a scrivere un’agenda per rendere l’Italia più dinamica, non c’è nessuno che non abbia chiesto un’amministrazione pubblica più efficiente. E che, soprattutto, produca risultati più prevedibili. Tra i mille possibili, un esempio recente arriva dallo stop imposto a giugno dal Consiglio di Stato alla costruzione dell’elettrodotto Dolo-Camin, in Veneto. Un’opera delicata, visto che attraversa una regione molto abitata e artisticamente ricchissima com’è la Riviera del Brenta. Ma che è stata bloccata a cantieri già aperti, 11 anni dopo il primo progetto e, soprattutto, a dispetto delle autorizzazioni ottenute da ministeri, enti locali e persino dal Tar. Ai tempi lunghi dei burocrati, si aggiungono quelli della giustizia: per arrivare al giudizio di primo grado in un contenzioso civile, in Italia occorre attendere in media 41 mesi, contro gli 11 della Svizzera. Di qui la richiesta, elaborata nel mese di luglio in un corposo documento presentato dal Comitato investitori esteri di Confindustria, di una serie di misure molto specifiche: revisione della normativa degli appalti privati, l’introduzione di criteri più chiari per il risarcimento dei danni ambientali, ampliamento della competenza del Tribunale delle imprese. Ma non è solo un problema di incertezza. C’è anche quello dei costi che la cattiva amministrazione scarica sui cittadini. Un esempio arriva ancora da Gutgeld: «Noi italiani paghiamo per l’assicurazione auto circa 22 miliardi l’anno, il doppio di quanto avvenga in Francia o in Germania», dice. Il motivo? Non è tanto un problema di concorrenza, quanto di regole. «Non esiste una banca dati che raccolga tutte le informazioni del settore, ad esempio i nomi delle persone che si presentano come testimoni nelle cause con le assicurazioni. E questo, assieme al fatto che può essere fatta denuncia anche molto tempo dopo un sinistro, favorisce le truffe, gonfiando i costi», spiega Gugteld. CHI FIRMA I CONTRATTI E’ il tema del giorno, il motivo delle minacce di Marchionne di spostare l’Alfa oltre-confine. La questione è, in linea di principio, semplice. La Fiom di Maurizio Landini ha ottenuto dalla Corte Costituzionale un verdetto d’incostituzionalità sulla norma dello Statuto dei lavoratori che consentiva di essere rappresentati nelle fabbriche ai soli sindacati che avevano firmato i contratti di lavoro. «La Costituzione torna in Fiat», è l’efficace slogan di Landini. Più difficile capire che cosa accadrà ora. «Dal nostro punto di vista c’è una sola strada: la Fiom potrà essere rappresentata sui luoghi di lavoro ma non potrà partecipare alla rinegoziazione del contratto Fiat, che può essere ridiscusso solo da chi l’ha approvato. A meno che, ovviamente, anche Landini non si decida a firmare», sfida Roberto Di Maulo, segretario del Fismic, il sindacato autonomo dei metalmeccanici, grande sostenitore del contratto che, nel 2010, ha scatenato la guerra tra la Fiat e la Fiom, con ben 62 contenziosi di primo grado di fronte ad altrettanti tribunali (che in 46 casi hanno dato ragione alla casa automobilistica, che però ha perso la battaglia più importante, quella di fronte alla Corte Costituzionale). Su chi potrà sedersi a trattare, dunque, è facile aspettarsi che lo scontro infurierà di nuovo. Di qui l’incontro fra Marchionne, Elkann e Letta, che però non ha rivelato se vorrà o meno procedere con un’ulteriore riforma, come chiede la Fiat. UN BONUS PER LA RICERCA Meno controversa l’ultima questione. Se le imprese in Italia, hanno diritto a incentivi di ogni genere, spesso inutili, troppo pochi sono quelli per ricerca e innovazione. Servirebbero più fondi, soprattutto per favorire gli investimenti innovativi al Sud. La Confindustria ha provato a proporre un credito d’imposta pari al 10 per cento della spesa per la ricerca, chiedendo un bonus strutturale di 1,6 miliardi l’anno. E mettendo in gioco - tra le misure a copertura - persino un aumento delle tasse sulle rendite finanziarie. Perché senza toccare nulla, avanti non si va. Luca Piana -l’espresso
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