PETER DEL MONTE, UN CINEMA CONTROVENTO.
 







di Antonio NAPOLITANO




Peter Del Monte

Dopo quasi otto anni di assenza dagli schermi è tornato, con " Nelle tue Mani" il regista Peter Del Monte.
Egli è uno dei "cento autori" della "Lettera al Parlamento" con la quale, a fine marzo di quest’anno, sono state denunciate le norme in vigore per il cinema "che danno sempre meno spazio a competenza, etica e passione”.
Al contempo,  si è stigmatizzato "quel vizio dei media di qualificare le opere in “vincitori e vinti al botteghino" finendo col privilegiare- di fatto- film da spiaggia e "cine-panettoni".
Del tutto estraneo a tali prodotti è, appunto, Del Monte, nato a San Francisco (USA) ma italiano a pieno titolo. Egli si è diplomato al Centro Sperimentale di Roma nel 1969 con un interessante "Fuori Campo", mediometraggio in cui ha analizzato un rapporto coniugale, osservandone, come al microscopio, la disgregazione molecolare attraverso i giorni e i mesi.
Chiamato dalla RAI TV, ha trascritto poi per il piccolo schermo, un
testo di A.Camus ( "Le parole a venire" e "Le lettere di Jacopo Ortis [1972])": due referenti letterari abbastanza indicativi dell’iter che percorrerà  in seguito.
Sarà, però, nel 1975 il film "Irene, Irene" a mettere in risalto la sua personalità di regista.
La vicenda è quella di un anziano giudice abbandonato dalla moglie. E, certamente, la scelta di un Alain Cuny come protagonista si rivela determinante ai fini dell’indagine psicologica, volta a scavare nei rammarichi e negli struggimenti dell’uomo. Nulla e nessuno riescono a blandirlo tanto meno l’afasica ragazza che spesso incontra nelle sue passeggiate lungo il Lago Maggiore, alla ricerca d’un tempo perduto. Un critico francese parlerà entusiasta di "una luce particolare che brilla, in questa storia dall’indubbio stile" (J.L.Passek).
In Italia, invece, l’opera risulta piuttosto snobbata da quanti cominciano a stravedere per un cinema tutto politico e,  seguono  "il vento dell’Est" di marca
neogodardiana, magnificando perfino i retorici "balletti rivoluzionari" di obbedienza maoista.
Passeranno, infatti, cinque difficili anni, prima che il secondo film venga presentato al pubblico cioè "L’altra donna".
Esso riconferma la tendenza dell’autore a filtrare il sociale nel privato, scansando ogni approccio populistico. E, intanto, a ben vedere, è la prima pellicola a trattare la questione della "integrazione" nel nostro paese. In essa, infatti,  si snoda la problematica amicizia tra una borghese romana e la sua colf, immigrata dall’Africa.
Nel 1982, un filo di benevola ironia apparirà in "Piso, Pisello", favola allegorica alla Zavattini, nella quale l’adolescente, divenuto padre, trasforma in teneri nonni i propri genitori reduci dalle utopie del ’68. Non gli lesina elogi G.Grazzini che parla di "grazia gentile e garbo",doti perdutesi nel velleitarismo delle attuali palingenesi sociali, che attizzano scontri e guerriglie. Meno convincente sarà il seguente
"Invito al viaggio" realizzato in Francia: una sorta di bizzarro "gothic novel" del XX secolo (dal romanzo "Moi, ma soeur" di Jean Bany). Forse una parentesi sperimentale, che non mette Del Monte a suo agio, dati i termini di partenza.
Due anni dopo, con "Piccoli fuochi" del 1985, egli tornerà a concentrarsi sulle vicende quotidiane (ma non banali)  di un bambino trascurato dai genitori. Egli si inventa dei fiabeschi amici finendo col restare in bilico tra fantasie fanciullesche e rischiose precocità (la gelosia per la baby sitter, una V.Golino al suo esordio). E M.Morandini chiosa:"P.Del Monte è un fuoristrada del cinema italiano che merita attenzione e rispetto".
Forse, anche per stare alla larga da allettanti proposte commerciali Del Monte va a girare a New York "Etoile" una storia neoespressionista su una ballerina americana che, invitata in Europa si sentirà immersa in una sorta di quarta dimensione. È il tentativo di superare gli stereotipi in voga con una scommessa
estrema, in verità rischiosa dato il difficile tema.
Meglio farà, al ritorno, in Italia, accettando l’incarico di sperimentare il sistema ad alta definizione e realizzando, così,  "Giulia e Giulia", vicenda di una donna sconvolta dalla precoce morte del marito.
In modo affascinante sono soprattutto affrescate le immagini di una Trieste "vivida e malinconica" come sarebbe piaciuta a U.Saba" (T.Kezich).
Ottimamente cesellato è il cammeo di un anziano vittima dell’Alzheimer, altro problema che il regista arriva ad impostare in anticipo, pur senza alcuna esibizione di patemi umanitari.
Nel 1990, "Tracce di vita amorosa" viene a segnare l’apice della sua ricerca "minimalista"  così fuori dalla routine. Il filo della trama è esile, quasi impalpabile, ma le  atmosfere essenzializzate sono fortemente suggestive. È uno "stream of consciousness" realizzato per  immagini. Si è come di fronte ad un "improvviso schubertiano" tradotto in segni iconici e in
riverberi allusivi.
Opera  evidentemente difficile da gustare per palati assuefatti a cose speziate e violente. Ma è di conforto il parere di uno storico quale G.P.Brunetta che acutamente sottolinea "il fascino  emanato da queste pulsioni, rubate o colte, come fosfeni dal flusso della realtà".
Nel 1996, dopo un altro lungo forzoso intervallo si ha "Compagna di viaggio", delicato racconto su un pensionato in vena di bizzarre fughe in treno. M.Piccoli è l’interprete di alta scuola di questo personaggio e gli  tiene giusto bordone un Asia Argento non troppo fuori dei righi. Ed è per la prima volta che una giuria,(Saint Vincent) dedica un premio ("Grolla d’oro") al regista e agli attori, accorgendosi della qualità del discorso.
Due anni dopo, "La ballata dei lavavetri", girato a Roma, con attori polacchi, risulterà un grottesco di sapido gusto, su un altro fenomeno sociale in emergenza nel nostro paese.
Senza calzare coturni demagogici  il regista
scruta  i diversi risvolti della questione evitando sia i pericoli della cronaca compassionevole sia quelli della xenofobia.
Nel  2000, "Controvento", sullo sfondo di una Torino grigia e piovigginosa si muovono  vari personaggi "borderline", non esclusa la psicologa che è al centro della drammatica vicenda(M.Buy). Ella stessa, infatti, apparirà contagiata da tanto disagio umano. Attratta com’è dall’infermiere alcolista (un ottimo E.Fantastichini) si accorgerà, in ritardo, che lui mantiene una relazione anche con la sorella(V.Golino). Questa è un’attricetta impulsiva e dalla esistenza sbandata, sotto le apparenze quietamente borghesi.
Anche qui, Del Monte riesce a fare valere il paesaggio come "correlativo oggettivo" degli stati d’animo. Solo ex abrupto appare il suicidio della ragazza dato che, il "protocollo clinico" descritto dal regista è ben più ampio di quello individuale.
Il suo è quindi, un cinema controcorrente,  fuori dagli  schemi che oggi
costituiscono le matrici dei correnti  film "generazionali"(o post-liceali)  e "poliziotteschi" di troppo facile presa (fatti salvi i pochi validi autori).
Perché, sulle orme della narrativa europea, la poetica di Del Monte è volta all’esplorazione dei territori intimi dell’uomo, quelli che non mutano in pochi decenni o inseguendo le mode.
Essa, proprio per questo, resta aliena da  ogni lenocinio audiovisivo, troppo spesso mirante solo all’epidermide dello spettatore. Insomma, è un regista "controvento" che ci ha già offerto opere che sarebbe giusto rileggere e valutare in modo meno sbrigativo, sottraendosi all’ossessione dell’audience e perciò  alla deprimente subcultura di massa.