Chi ha bruciato l’oro di Napoli
 











La storia del suicidio più drammatico avvenuto nei paesi mediterranei, ovvero l’eliminazione di una grossa parte delle primizie dell’agricoltura a favore dell’economia illegale dei rifiuti, per qualche giorno è sembrata interessare i media nazionali e la politica. D’improvviso il tema dell’avvelenamento delle terre campane ha attraversato il dibattito nazionale, quello striscione con la parola "Biocidio" è apparso nelle foto, nei siti, nei tg, ed è riuscito a provocare indignazione, paura, promesse di cambiamento. Molti parlano di Terra dei fuochi, pochi sanno cosa significa davvero. In queste settimane in rete circola l’immagine di un documento che risale agli anni 80, stilato dalla sezione del Partito comunista di Casal di Principe. Con quel documento si denunciava, mentre accadeva, l’avvelenamento dei terreni, la fine per sempre della Campania felix. Sapevamo già tutto. È per questo che quando Carmine Schiavone nel 1997 diceva che gli abitanti della Terra dei fuochi "sarebbero tutti morti nell’arco di venti anni" sbagliava: essi erano già morti, civilmente morti.
Sono anni che, insieme ad altri, racconto le sciagure della Terra dei fuochi, che nel tempo ha finito con il fagocitare interi comuni, estendendo sempre più i suoi confini. Da quando Peppe Ruggiero di Legambiente usò questa suggestiva espressione, così lontana dalla Terra del fuoco descritta da Magellano. Come l’esploratore portoghese vide dal mare i fuochi sulla costa, così chi viaggia sulla Strada Statale 7 bis Terra di Lavoro (la Nola-Villa Literno) o sull’Asse Mediano, se distrae lo sguardo dall’asfalto vede tutt’intorno fumo salire dalla terra e se abbassa il finestrino sente un odore acre che brucia in gola lasciando un sapore acido. Un odore cui non è possibile assuefarsi.
Come è potuto accadere? Come è stato possibile intombare tanti rifiuti tossici, fino a renderne difficile se non impossibile l’estrazione dal suolo? C’è la via, tra virgolette,
"legale". Da trent’anni diverse aziende del Nord hanno appaltato - e purtroppo ancora appaltano - lo smaltimento dei loro rifiuti speciali a ditte specializzate, apparentemente legali, che riescono a fare enormi sconti: specialmente in una congiuntura economica come questa, possono fare la differenza tra sopravvivere o fallire. È una dinamica chiara: non è forse questo il tempo in cui i grandi Paesi industrializzati affermano di non essere in grado di osservare i vincoli posti dal Protocollo di Kyoto? Basti pensare, a titolo di esempio, come gli stakeholder italiani (ossia i mediatori tra industria e ditte che smaltiscono) sono riusciti, nel 2004, a garantire che ottocento tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, proprietà di una azienda chimica, fossero trattate al prezzo di venticinque centesimi al chilo, trasporto compreso. Un risparmio dell’80 per cento sui prezzi ordinari. Le aziende che in questo modo si liberano dei rifiuti prodotti sono colpevoli, certo, ma allo stesso tempo legalmente tutelate, perché le ditte che forniscono il servizio di smaltimento producono documentazioni legali. Poi, il gioco sporco comincia con i giri di bolla che fanno risultare che il ciclo è apparentemente rispettato. Quello dei giri di bolla è il secondo passaggio e avviene nei centri di stoccaggio. I titolari fanno in modo di raccogliere i rifiuti speciali che, in molti casi, miscelano con rifiuti ordinari, diluendo la concentrazione tossica e declassificando, rispetto al Cer (Catalogo europeo dei rifiuti), la pericolosità dei veleni.
E poi c’è la via criminale. Lo smaltimento illegale tramite combustione: i fuochi. Bruciare copertoni, bruciare vestiti, ogni sorta di plastica, bruciare cavi di rame per liberarsi della guaina, bruciare rifiuti d’ogni sorta speciali e ordinari. È la folle scorciatoia presa da chi vuole evitare costi di smaltimento elevati. Si brucia perché così si diminuisce la massa dei rifiuti e poi si mescolano al terreno le ceneri. Queste terre
vengono considerate semplicemente spazi, spazi da riempire, spazi su cui guadagnare. Capita spesso, quando si viaggia in questa parte di Paese, di vedere aree di sosta colme di rifiuti. Il pensiero più immediato e il più lontano dalla realtà, è pensare che i campani siano incivili perché invece di differenziare la loro spazzatura, invece di gettarla semplicemente nel cassonetto sotto casa, si prendono la briga di caricarsela in macchina e di lasciarla in strada per dare di sé e della propria terra l’ennesimo mortificante spettacolo. Non è così. Quelle aree di sosta sono spazio, metri quadri dove sversare. Tutto questo è l’esatto contrario di ciò che sembra. Non è inciviltà. È criminalità, ovvero una forma organizzata di guadagno. Sommando la superficie di tutte le piazzole di sosta del napoletano e del casertano, ingombre di rifiuti, si raggiungerebbe l’estensione di una grande discarica. E questo è anche il segno dello stadio terminale del disastro. Il rifiuto non è più identificabile, circoscrivibile: il rifiuto ha pervaso le nostre vite. Avanza, fino quasi a lambirci o a sommergerci, come è già accaduto nella città di Napoli qualche anno fa.
Ma come si è arrivati a tanto? Perché queste terre preziose per le coltivazioni sono diventate cimitero per rifiuti? Pomodori, broccoli, zucchine, cicoria, cavolfiori, fave, peperoni. E poi arance, mandarini, mele, pere. Tutti questi prodotti, la grande distribuzione ha iniziato a pagarli ai coltivatori campani sempre meno. Il rischio, se non avessero accettato di abbassare i prezzi, era che li avrebbero acquistati all’estero, in Libano, in Grecia, in Spagna. E così cade la barriera: l’agricoltura smette di essere la fonte primaria di guadagno per i coltivatori diretti che spesso cedono o affittano una parte delle loro terre alle imprese, o più spesso a loro intermediari, per lo sversamento illecito di rifiuti. Con quei guadagni vanno avanti e mantengono in parte le coltivazioni, tratti in inganno dalle
rassicurazioni che quei rifiuti non arrecano danno. Ben presto si scopre che non è così. Che spesso si tratta di sostanze tossiche che fanno marcire interi raccolti.
Una domanda non può essere elusa. Chi sono i responsabili di questo disastro ambientale e umano? Io credo che personificare il male sia inutile artificio, quando ci si trova al cospetto di una tale sequela di opere, omissioni, silenzi e ferma volontà di ignorare quello che accadeva. La puzza c’è sempre stata e per i nuovi nati è divenuta normalità, come le piazzole di sosta delle statali divenute discariche improvvisate. Quei silenzi, quelle omissioni e a volte quelle opere, sono state della borghesia campana, napoletana e casertana nello specifico. Il disastro ha creato un indotto economico, foraggiato dalla politica dell’emergenza. E poi ci sono le responsabilità politiche, al di là di quelle giudiziarie. Solo se accettiamo tutto ciò, possiamo poi risalire fino a coloro i quali, plebiscitariamente eletti, hanno
rappresentato il potere in Campania negli ultimi anni. Due personalità si stagliano in questo scenario di morte: Antonio Bassolino e Nicola Cosentino. Il primo è reduce da una piena assoluzione all’esito del processo che avrebbe dovuto ricostruire le eventuali responsabilità connesse al disastro del ciclo dei rifiuti in Campania. Il secondo è attualmente sotto processo, anche con riguardo alle vicende del consorzio Eco4: la rete dei consorzi di gestione del ciclo dei rifiuti ha costituito l’ossatura del sovvertimento democratico, che ha condotto allo spreco di risorse pubbliche, che ha prodotto enormi profitti per la criminalità organizzata e che ha compromesso in maniera difficilmente rimediabile una qualsivoglia normalità nella gestione dei rifiuti. I consorzi erano retti da un sistema di potere consociativo. Nei consorzi centrosinistra e centrodestra sono sempre stati alleati. Per la enormità di queste evidenze il peso che incombe sulla Procura della Repubblica di Napoli è enorme: il fallimento di un processo durato anni può rappresentare un boomerang devastante. Il tentativo di sanzionare le responsabilità politiche con lo strumento del processo penale, può implicare due terribili conseguenze: da un lato, l’incapacità di focalizzare le reali responsabilità penali qualora esse vi siano; dall’altro, il rischio di trasformare l’assoluzione all’esito del processo in un’assoluzione anche dalle responsabilità politiche. È quello che è successo con Antonio Bassolino, la cui assoluzione in tribunale non cancella però la responsabilità che come politico ha avuto nel permettere che tutto degenerasse fino a questo punto.
Quali le prospettive? Che fare? Ciò che è certo è che bisognerebbe uscire definitivamente - anche linguisticamente, prima che nei fatti - dalla logica della emergenza, che nel sud Italia e in Campania in particolare si è fatta cultura. È il tempo dello studio e della osservazione: è il tempo di chiamare a offrire alternative al disastro a quei giovani
e non più giovani espulsi da questa società meridionale intrinsecamente mafiosa. Un ruolo fondamentale dovranno avere i sindaci. La storia di Vincenzo Cenname, primo cittadino di Camigliano, in provincia di Caserta, ad esempio, dovrebbe insegnare a tutti che la soluzione c’è già e bisogna solo fare in modo che venga fuori. Osteggiato dal sistema dei consorzi, Cenname ha resistito, appoggiato dai suoi concittadini, ed è riuscito ad organizzare la raccolta differenziata in totale autonomia: e funziona. Oggi è imperativamente necessario procedere a una perimetrazione a carattere scientifico delle zone inquinate con l’introduzione del divieto di produzioni agricole per le stesse e, d’altro canto, la previsione di incentivi per produzioni non agricole (ad esempio il bioetanolo). Questa proposta, nella sua ragionevole pragmaticità, parte dalla necessità di associare a ogni area un valore preciso, perché non tutte le aree sono state sfruttate allo stesso modo, non tutte hanno lo stesso grado di inquinamento. Non tutte presentano tracce delle medesime sostanze e non tutte nelle stesse quantità. È evidente che alcune terre sono totalmente compromesse, mentre altre possono essere bonificate e recuperate all’agricoltura con interventi meno incisivi e quindi anche meno costosi.
Il danno di questi giorni, che si aggiunge alla devastazione dell’inquinamento e allo sconforto che accompagna il pensiero costante della mancanza di un futuro dignitoso, è che tutto sembra avvelenato. Che tutti i prodotti campani vengano considerati inquinati, dalla mozzarella alle mele annurche, dalle fragole ai pomodori. Tutto viene dato per spacciato, compromesso. Per salvare l’economia agricola della Campania non è più sufficiente semplicemente tracciare la filiera di un prodotto, aggiungere l’etichetta "bio" e vestirlo da prodotto sano. Ora la comunicazione deve essere necessariamente fatta in maniera diversa, non si deve lasciare spazio a dubbio alcuno. Il bollino dovrà esplicitamente dire che
il prodotto viene da terra non inquinata, da terra sana. Deve riportare l’indirizzo di un sito su cui è possibile verificare lo stato di quel terreno attraverso analisi. Ogni qual volta si generalizza sull’agricoltura campana o addirittura si iniziano a vedere nei supermercati "questo prodotto non viene dalla Campania", si sta favorendo l’economia camorristica: in che modo? I prodotti campani diventano invendibili, a quel punto entrano nel mercato illegale. I prodotti avvelenati vengono mischiati con quelli sani e i clan li portano nei mercati ortofrutticoli che - come le inchieste delle Dda su Fondi e Milano hanno dimostrato - sono stati spesso infiltrati dal potere delle cosche. Quei veleni saranno clandestinamente richiestissimi dai grossisti perché potranno comprare a costo bassissimo e rivenderli come prodotti del nord a costi alti e l’etichetta "non prodotto in Campania".
Terre a vocazione agricola, terre di pascolo, terre a vocazione turistica, terre di bellezza, avvelenate
sistematicamente sotto il sole, sotto gli occhi di tutti. Sotto gli occhi di chi è rimasto impotente in un paese dove ormai si è convinti che riformare le cose sia impossibile. Ciò che resta è il vigliacco piacere di volerle abbattere pensando a un mondo meraviglioso e nuovo che non verrà mai. E in nome di questo mondo si sta rendendo il quotidiano un inferno invivibile. Questo meccanismo lo descrive benissimo Robert Musil: "Quell’inqualificabile piacere (che molti di noi hanno, ndr) che consiste nel vedere il bene abbassarsi e lasciarsi distruggere con meravigliosa facilità".  Roberto Saviano,repubblica
I broker dei rifiuti Smaltimento rifiuti ed evasione fiscale,per il nuovo business i clan cambiano volto
Il traffico di rifiuti ha bisogno di facce pulite. Commercialisti, avvocati, imprenditori. Professionisti, loquaci e col vestito buono, in grado di sedersi ai tavoli con politici e industriali senza che questi avvertano la puzza di mafia, di camorra, di
affare sporco. Sono i broker ingaggiati dai clan. Intermediari, sensali dei rifiuti. Figure moderne nate per risolvere "problemi" collaterali della produzione, dello sviluppo. Offrono un servizio - il servizio - alle aziende. Figure centrali nel business dei rifiuti. Lavorano di fino, giocano sul filo della legge.  Si muovono nel Paese, lo attraversano da Sud a Nord, cercando clienti che desiderano abbattere i costi dello smaltimento delle scorie prodotte dalle loro imprese. Oppure imprenditori che evadono il fisco e perciò costretti a scaricare illecitamente parte dei rifiuti per eludere i controlli incrociati che confrontano produzione, vendita e tonnellate di spazzatura smaltite.
Il profilo. Nel codice di comportamento non scritto del broker dei rifiuti vige una regola: mai palesare il nome e l’organizzazione mafiosa per cui si lavora. Evitare frasi kitsch da film sulla mafia anni ’50: "Mi manda don Raffaele". I tempi sono cambiati. Gli affari e la legge anche. Al centro più
che il rispetto, l’onore, le regole, ci sono gli affari. E per farli crescere l’atteggiamento è fondamentale. Ecco perché chi si occupa di trafficare rifiuti tenta in tutti i modi di celare metodi criminali con modi di fare apparentemente legali. Gli intermediari si presentano negli uffici delle imprese del nord Italia e propongono l’offerta. Parlano di costi, tempi, luoghi. Descrivono nei dettagli i mezzi che utilizzeranno e il vantaggio competitivo che ne deriva affidandosi a loro. Non una parola sui reali beneficiari del business, né sul nome del datore di lavoro. I broker di professione non impongono il servizio mettendo in soggezione l’imprenditore, minacciandolo e indicandogli il nome del clan per cui operano.
Tranquillizzare il cliente. Una tecnica di marketing che tranquillizza il futuro cliente, che si spaventerebbe se consapevole di avere davanti un emissario in giacca e cravatta dei clan. Così l’imprenditore può solo immaginare dove andranno a finire quei rifiuti smaltiti
a costi bassissimi, ma ricevute le dovute rassicurazioni a parole la sua coscienza ritrova la tranquillità e la necessaria determinazione per affidarsi ai manager della spazzatura stipendiati dalle cosche. Far finta di non sapere aiuta a superare le paure prodotte più dallo spettro di un’inchiesta che da questioni etiche e di salvaguardia dell’ambiente. "Esistono varie tipologie di broker", osserva Sergio Costa, comandante provinciale del Corpo Forestale di Napoli e profondo conoscitore del territorio e dei traffici illeciti di rifiuti. "Operano figure con competenze transnazionali, professionisti affermati, nella gestione dei rifiuti di grosso livello, si parla di società, di consigli di amministrazione, di fatture. Lo stesso sistema che esiste per l’evasione fiscale esiste per i traffici internazionali. Poi c’è il livello micro territoriale, più ruspante, di chi fa l’intermediario sul territorio. In realtà la figura del sensale, dell’intermediario, del broker è un metodo che vale per tutte le attività e traffici".
Si paga cash e in nero. I boss utilizzano i broker per chiudere contratti legali. I manager uniscono due mondi quello della impresa e della politica con il sistema mafioso.  I personaggi di spicco della camorra non possono partecipare a riunioni dove siedono persone colpite da provvedimenti. Quindi scelgono persone insospettabili, professionisti, facce pulite. Nel momento in cui vengono "assunti" ai broker viene dato il mandato di firmare i contratti. Sanno perfettamente quanto e fino a dove potevano spingersi. I pagamenti li ricevono cash, tutto in nero. E in caso di inchiesta la strategia è già decisa: i mediatori devono fare la parte delle vittime di estorsione o di usura. Perché il boss accetta senza fiatare una condanna per estorsione e usura ma vuole a tutti i costi mantenere segreto il business dei rifiuti (che prevede reati punibili con pene molto più gravi).
Trattano le facce pulite. Al tavolo delle trattative non siedono i boss ma le
loro facce pulite. Il capo camorra comunica con il broker. E il "manager della monnezza" comunica con l’imprenditore che deve smaltire le tonnellate di rifiuti illeciti. Il primo conosce soltanto il secondo e il secondo interloquisce con il terzo, senza specificare per chi lavora. La gestione del business è a compartimenti stagni. I padrini sono gli unici a conoscere nomi e cognomi dei professionisti a loro servizio. i soldati dell’organizzazione non sono tenuti a saperlo. Anzi se fanno troppe domande rischiano di finire male. Questo serve a limitare i danni nel caso di blitz e indagini. Carmine Schiavone, pentito di primissimo livello, in una delle sue prime ricostruzioni ricorda quando nel 1988 propose a suo cugino Francesco Schiavone "Sandokan" di seppellire rifiuti a Casale. "Ma che vogliamo avvelenare il nostro Paese?", rispose sdegnato. Ma i suoi buoni propositi cambiarono in fretta, e dopo appena un anno la grande famiglia Casalese entrò nel business trascinata dai compari di affari Bidognetti.
I re del disastro ambientale. È l’inventore dell’ecomafia profondo conoscitore della politica nazionale e locale. Il mediatore che ha trasformato in oro e denari per il clan montagne di spazzatura e scorie industriali. L’uomo che ha escogitato il meccanismo delle società commerciali - scatole vuote - per gestire il business della spazzatura. Questo e altro ancora è Cipriano Chianese, sotto processo a Napoli per disastro ambientale e truffa ai danni dello Stato insieme ai boss del clan dei Casalesi e a Gaetano Cerci, inserito in ambienti massonici della P2 e legatissimo al boss Francesco Bidognetti, alias "Cicciotto ’e mezzanotte". Rischiano una pena altissima per avere avvelenato le falde acquifere. Il periodo oggetto dell’inchiesta è quello che va dal 1985 al 2004. Vent’anni di veleni, scorie, liquidi industriali. I continui sversamenti nella discarica di proprietà di Chianese, la Resit di Giugliano, hanno prodotto un danno ambientale enorme. Una catastrofe. E
per la prima volta in un processo sulla ecocamorra viene contestato l’omicidio dell’ambiente. Il massimo della pena prevista è 30 anni di carcere. Il dato storico è che per la prima volta un capomafia qual è Bidognetti viene indicato come il killer di un intera comunità. Un danno di immagine che potrebbe produrre effetti devastanti per i padrini, sempre attenti ad apparire in veste di salvatori del popolo, e ora accusati di avvelenamento. Indicati dalla pubblica accusa come i portatori di mali incurabili e tumori mortali.
Migliaia di tonnellate di veleni. Chianese, appoggiato dal clan Bidognetti, ha, secondo la procura antimafia di Napoli, interrato nella discarica non impermeabilizzata 806mila 509 tonnellate di rifiuti. Ben 30mila provenivano dalla Acna di Cengio, il che vuol dire residui e scorie pericolose derivanti dagli impianti chimici liguri. Il problema invece che risolverlo è stato spostato da Cengio a Giugliano. Gli esperti della procura hanno calcolato che quella massa di
rifiuti pericolosi ha prodotto 57mila tonnellate di percolato, l’elemento che produce il danno peggiore, il quale lento scivola nel terreno e contamina le falde acquifere. La punta massima di inquinamento sarà raggiunta nel 2064, ma produrrà effetti fino al 2080. Per questo è necessaria una bonifica rapida e immediata. Che ancora non è partita.
Una storia durata nel tempo. La storia di Chianese e dei camorristi assassini dell’ambiente inizia tra l’88 e l’89. Secondo i magistrati è durata almeno 20 anni. Chianese lanciò l’idea di creare una società, una scatola vuota, senza mezzi e strutture produttive, chiamata Ecologia 89. Nella gestione diretta entrò anche il massone Cerci. "Attraverso la società Ecologia 89 e altre analoghe strutture hanno creato la copertura formale alla gestione mafiosa dello smaltimento  dei rifiuti". "Operavano in regime di monopolio e consentivano lo smaltimento abusivo in discariche campane, in particolare nelle aree di Giugliano, di quantitativi
ingenti di rifiuti in un arco temporale snodatosi tra il 1988 e il 1994", si legge negli atti giudiziari. Il modello organizzativo fu quello scoperto con l’indagine Adelphi. Processo poi in parte azzoppato dalle assoluzioni ma che ha ricostruito per la prima volta il sistema messo in piedi dai Casalesi per gestire il business dei rifiuti. Già allora Cipriano Chianese veniva indicato come il fondatore dello smaltimento rifiuti in Campania.
Cambiano le rotte. "Il traffico di rifiuti si può dividere in due momenti storici", spiega a Sergio Costa. "Il primo è quello del traffico da Nord a Sud, proseguito fino al 2000, col tempo diminuito di pari passo con l’alzarsi della soglia di attenzione da parte degli investigatori e dei cittadini. I rifiuti hanno seguito questa direttrice per  25 anni". Poi qualcosa è cambiato, all’inizio del nuovo millennio e con rischi sempre maggiori i boss e i loro broker hanno mutato strategia.  "La mia sensazione è che lo spartiacque è stato il
nuovo millennio. Oggi scopriamo discariche precedenti al 2000, nel traffico da Nord a Sud i rifiuti venivano interrati, c’era bisogno di un’organizzazione strutturata. Oggi per esempio troviamo anche rifiuti che da Sud vanno verso Nord: la raccolta del ferro, i metalli non bonificati, che arrivano in Lombardia (Bergamo e Brescia) e nell’est Europa. Il fatto che non si muovano da Nord a Sud non vuol dire che non sia finito il traffico. Per esempio una rotta che oggi i manager dei rifiuti scelgono è quella verso i paesi in via di sviluppo. Dove la corruzione è diffusa e l’attenzione minore. Ci sono i paesi balcanici e alcuni stati dell’Africa".
Destinazioni lontane. I rifiuti partono dai porti italiani per raggiungere destinazioni lontane, competenza esclusiva di broker internazionali, o meglio, "manager della monnezza". Le nuove frontiere dello smaltimento o del riciclo dei rifiuti si sono spostate a Oriente, Cina e Hong Kong. "Il traffico di rifiuti transfrontaliero è in rapida
crescita, soprattutto in direzione della Repubblica Popolare Cinese e Hong Kong", si legge nella relazione della Commissione parlamentare. Le  attività investigative del Nucleo ecologico dei Carabinieri hanno individuato organizzazioni criminali che attraverso alcune società del settore dello smaltimento dei rifiuti sparse nelle regioni italiane, spedivano rifiuti in plastica camuffandoli alle dogane di Salerno e Gioia Tauro, come materie prime. "Sarebbero poi state riutilizzate nei paesi orientali per la produzione di merci per il mercato europeo. Una volta acquistati i rifiuti in plastica presso varie imprese italiane, l’organizzazione si limita a pressarli e ridurli di volume e con apposite dichiarazioni il materiale era trasformato, da rifiuto in materia prima". In realtà la merce veniva acquistata mediante denaro contante da intermediari specializzati, "consapevoli che in realtà si trattava di rifiuti speciali". Le spedizioni sono poi organizzate tramite imprese di comodo di Hong Kong. Con la complicità di titolari di agenzie di spedizionieri di Bari, Napoli e Salerno, vengono prodotti documenti fasulli che certificano una normale spedizione di merci. E il gioco è fatto.
Imprenditori riciclati. Nel 1999 si chiude in secondo grado il processo Adelphi. Reati prescritti per gran parte delle figure centrali dell’inchiesta. Prescrizione anche per Gaetano Cerci e Luca Avolio. Se di Cerci tanto si è detto e continua a essere protagonista nel dibattimento assieme al broker Chianese, Avolio è scomparso dalla scena giudiziaria dopo Adelphi. Nonostante una dettagliata informativa del 1996 della Criminalpol di Roma-rimasta per lungo tempo nei cassetti della Procura e oggi, dopo 16 anni, acquisita nel processo contro Chianese in cui sono elencati i contatti, le società e le telefonate tra Avolio e i manager dei rifiuti. Un dossier successivo all’inchiesta madre della ecomafia Casalese ma con dati allarmanti. Stessi nomi e cognomi, massoneria, aziende del Nord. Il
copione è lo stesso. In più ci sono le dichiarazioni di un altro pentito, un nome pesante del Clan, Carmine Schiavone, cugino del super boss Francesco Schiavone "Sandokan". Dichiarazioni inascoltate, quasi snobbate dai giudici che non hanno inserito la sua audizione nelle motivazioni della sentenza. Carmine Schiavone nel lontano 1994 "descriveva con dovizia di particolari" accordi tra i vertici del Clan e Cipriano Chianese, l’avvocato, "sia Gaetano Cerci che Chianese sono massoni. Anche Chianese frequentava il circolo massone di Aversa del quale ho già detto".
Informazioni preziosissime. Il collaboratore rovescia sul tavolo dei magistrati napoletani un mare di informazioni preziosissime. "Una fotografia dai contorni netti e nitidi delle varie fasi attraverso cui si realizzavano le attività legali della camorra: un vero e proprio ciclo compiuto che inizia dallo sventramento dell’ambiente approvvigionandosi di materiale per le costruzioni e termina con lo sversamento di enormi
quantità di rifiuti di vario genere negli immensi crateri", scrivono i detective della Criminalpol di allora. Carmine Schiavone indica anche luoghi e zone esatte. Dichiarazioni che non saranno sufficienti a far condannare Chianese nel procedimento Adelphi. In quella informativa di 17 anni fa compare il nome della Bohemia Sud. "Punto di raccordo tra i settori masson-affaristici di Napoli e Caserta" per quanto riguarda la gestione dei rifiuti. In liquidazione dal 1995, la Bohemia Sud è, secondo gli investigatori dell’epoca, la propagine campana della Bohemia con sede a Roma. Ufficialmente commerciano macchine per l’industria, in realtà i poliziotti le descrivono nel loro rapporto come centri di gestione del traffico.
Intrecci societari. Un altro elemento, mai utilizzato nei processi processo, salta agli occhi rileggendo quegli atti ormai datati. Una delle società di Chianese, intestate alla moglie, ha sede nella stessa via e allo stesso civico della Bohemia Sud diretta espressione di
Luca Avolio. Imputato nel processo Adelphi perché titolare della Alma, la società di gestione della discarica di Villaricca (Napoli). Una delle discariche insieme alla Resit di Chianese da cui è iniziata la storia delle ecomafia campana. Entrambe, si legge nelle informative, utilizzate per lo sversamento dei veleni di mezza Italia. Condannato in primo grado, il salvagente della prescrizione l’ha salvato in appello. In quel procedimento c’erano indagati eccellenti. Dal fratello dell’ex ministro Gava al deputato Altissimo, fino a un assessore liberale, Raffaele Perrone Capano, assolto per falso in secondo grado e prescrizione per i reati di corruzione e abuso d’ufficio. Oggi la Bohemia Sud è in liquidazione, ma Avolio insieme ad altri imprenditori risulta nella compagine societaria del Consorzio Ecologico Italiano, con l’ufficio nella centralissima via Toledo a Napoli. Si occupa di smaltimento rifiuti. Anche se non risulta operativa per conto della Sapna, l’ente provinciale che si occupa della gestione integrata dei rifiuti.
Nuovi patti. Sono passati più di dieci anni dalla conclusione del primo processo sull’avvelenamento delle terre di Gomorra. Vent’anni dalle dichiarazioni esplosive e inizialmente sottovalutate di Carmine Schiavone. E solo nel 2011 Cipriano Chianese, il re e primo broker dei rifiuti è stato incastrato. Ma la storia amara di avvelenamento non finisce con Chianese. Ci sono nuovi intermediari, nuove rotte, nuove società. Nuovi patti. E metodi più raffinati hanno permesso di continuare i traffici nonostante la pioggia di sequestri e arresti. I grandi business si decidono negli studi di commercialisti e di avvocati con la passione per "la monnezza" e il disprezzo per l’ambiente.
Questione di fatturato. Anche perché senza "monnezza" il clan muore. Correva l’anno 2001. La polizia accerta il versamento di 30????mila euro a un clan di Mondragone, Caserta. "Contributo significativamente incidente sull’attivo del bilancio mafioso, rappresentando infatti
circa i 2/5 dell’intero fatturato annuale relativo alle entrate ordinarie", si legge nell’ultima relazione della Commissione sul ciclo dei rifiuti. Pentiti hanno parlato di miliardi di vecchie lire,  un quarto del fatturato del Clan dei Casalesi. Cifre impressionanti non scritte su libri contabili ufficiali. Dalle parole del pentito Gaetano Vassallo, principale accusatore di Nicola Cosentino e imprenditore dei rifiuti per i Casalesi, si comprende bene l’entità dell’affare: nel periodo d’oro tra gli anni ’80 e ’90 i clan guadagnarono, solo da Vassallo, la somma complessiva di due miliardi di lire, con incassi di circa 10 miliardi di lire per lo smaltitore. Ecco perché il business fa gola al Clan. E alle mafie.Dallo sversamento nelle discariche e nei terreni agricoli, al controllo della gestione del ciclo dei rifiuti urbani (il caso del Consorzio Eco4 in cui è coinvolto il politico Nicola Cosentino, referente politico della camorra Casalese) e ora il pericolo di infiltrazione nelle bonifiche dei terreni contaminati che gli stessi clan hanno avvelenato. Ci sono segnali in questo senso. Ma le attività degli inquirenti sono blindate dal massimo riserbo.Giovanni Tizian,repubblica