Incubo Birmania, centomila morti e gli aiuti bloccati
 







di Junko Terao




Potrebbero essere più di centomila le vittime del ciclone Nargis, che ha spazzato la zona a sud dell’ex capitale birmana Rangoon. Ottantamila solo nella località di Labutta, nel cuore del delta del fiume Irrawaddy, il bacino idrico più grande del paese, dove decine di villaggi sono stati cancellati dalla furia di acqua e vento. Cifre impressionanti soprattutto considerando che si tratta di un bilancio del tutto provvisorio, destinato ad aggravarsi.
Oltre al pericolo delle epidemie - la preoccupazione maggiore nel dopo-catastrofe - cominciano a girare voci di saccheggi a Rangoon, dove il passaggio di Nargis ha lasciato migliaia di alberi abbattuti e detriti di ogni genere che continuano a bloccare le strade perché mancano i mezzi per sgomberarle. Solo nei quartieri ricchi, dove abita la nomenclatura, si vedono soldati al lavoro per rimuovere le macerie e riparare i tetti, ma nel resto della città dei militari nemmeno l’ombra. Dei dodici elicotteri a disposizione del
governo solo cinque sono operativi, mentre non si vedono in giro attrezzature come gru e scavatori. Il black out elettrico in città è quasi totale, buona parte del tetto del principale ospedale se l’è portato via il vento, che ha anche scoperchiato in parte la casa della leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi. La situazione rischia di degenerare e oltre ai saccheggi potrebbero scoppiare le violenze se il prezzo dei generi alimentari, sempre più scarsi, continuerà a salire.
Ancor più drammatica la situazione nella zona a sud di Rangoon, dove l’acqua non si è ancora ritirata e cinquemila chimometri quadrati rimangono tutt’ora sommersi. Una squadra di soccorso arrivata in uno dei pochi villaggi dell’area di Laputta che non sono stati cancellati da Nargis è stata costretta ad andarsene perché intimorita da più di un centinaio di persone affamate che hanno circondato gli operatori al loro arrivo. «Probabilmente volevano solo chiedere cibo, ma abbiamo ritenuto che potesse essere
pericoloso e ce ne siamo andati», ha detto uno di loro.
Finchè la giunta militare non si deciderà ad aprire le frontiere alle organizzazioni internazionali gli operatori già presenti nel paese potranno fare ben poco. Finora, però, i militari non hanno dato segno di voler cedere alle pressioni internazionali e stanno centellinando il rilascio dei visti. Ieri è atterrato nell’ex capitale l’Airbus 300 decollato dalla base di pronto intervento umanitario di Brindisi destito dal Pam, il programma alimentare mondiale dell’Onu, carico di beni di soccorso. Si è trattato del primo aereo occidentale a cui è stato permesso di toccare il suolo birmano e il secondo in assoluto dopo quello thailandese arrivato da Bangkok due giorni fa. Altri tre voli dell’Onu dovrebbero raggiungere presto Rangoon e anche la Croce Rossa ha ottenuto il via libera per l’atterraggio di un aereo carico di materiale di primo soccorso in arrivo dalla Malaysia. Ancora valido, invece, l’altolà agli aiuti americani. Mentre
nella mattinata di ieri sembrava che finalmente avessero ottenuto l’ok, nel pomeriggio è arrivata la smentita. «Non abbiamo ancora l’autorizzazione», ha fatto sapere l’ambasciatore Usa a Bangkok. La portavoce dell’Air Force ha però annunciato che i preparativi per la missione umanitaria vanno avanti e nuovi aerei arrivati in Thailandia sono pronti a partire, così come le navi e gli elicotteri della Marina. Se non sarà dato il via libera, gli Usa non escludono l’ipotesi di lanciare viveri e medicinali dal cielo anche senza il benestare del governo birmano.
L’Onu, da parte sua, ha chiesto l’autorizzazione di ingresso nel paese per un centinaio di operatori di soccorso ma per ora i generali hanno concesso il visto solo ai membri asiatici - quattro - dell’equipe per la valutazione e il coordinamento in caso di catastrofi (Undac). Niente visto per gli altri della squadra. La giunta tentenna, l’apertura totale e incondizionata aprirebbe una breccia nel muro che divide la Birmania dal
resto del mondo, breccia che rischia di far traballare la dittatura militare al potere dal 1988. Ma l’entità dell’emergenza è tale che difficilmente i generali potranno tenere il punto ancora per molto.
La comunità internazionale continua a fare pressione perché la giunta apra agli aiuti. Dopo il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, ieri anche l’Asean (l’associazione dei paesi del sud-est asiatico) e la Cina hanno chiesto ai generali di consentire l’accesso degli operatori. Un appello nello stesso senso è arrivato dai ministri degli esteri francese e britannico, Bernard Kouchner e David Miliband, che dalle pagine di Le Monde hanno anche chiesto il rinvio del referendum per la nuova costituzione, in programma domani. Rimane esclusa, per ora, l’ipotesi di ricorrere all’ingerenza umanitaria, accennata ieri da Kouchner.