Keynes, la crisi e la dittatura della finanza
 











A questo si aggiunga che lo Stato ha sempre più un ruolo repressivo – e quindi più forte – nei confronti delle comunità che si oppongono alle mega-opere scelte per il finanziamento, non soltanto per consentire che queste siano realizzate, ma che poi siano anche utilizzate in un modo che generino gli extra-profitti attesi dal settore privato finanziario.
Di fronte ad una tale trasformazione del ruolo dello Stato, lottare per una semplice redistribuzione della ricchezza nella società non è sufficiente, dal momento che se la ricchezza, pur redistribuita tra più persone e classi sociali, continua a essere gestita sui mercati di capitale globali per soddisfare i principali bisogni nella società (pensioni, assicurazioni sanitarie, educazione, edilizia e così via) l’extra-estrazione di valore promossa dalla finanziarizzazione continuerà e di conseguenza anche la sottrazione di ricchezza e beni comuni alla collettività nel suo complesso. Perciò la
redistribuzione della ricchezza va necessariamente accoppiata con una definanziarizzazione generata da un drenaggio sempre più ampio della ricchezza dei lavoratori e della collettività dalla sfera dei mercati di capitale globale, fino al punto di aprire un contenzioso con questi e portare anche una parte della ricchezza dei ricchi fuori da questa sfera di turbo-accumulazione.
La specificità della crisi europea “del debito”
In questa prospettiva la stessa discussione sulla crisi dell’Unione europea e il dramma della creazione dell’unione monetaria risulta parziale e falsata se non si affrontano le cause strutturali alla base degli squilibri macroeconomici nell’Ue, nonché della trasformazione del sistema bancario e finanziario in questa regione. Anche gli eurobond o una transfer union non basterebbero a risolvere il problema. Anzi nel lungo termine potrebbero stabilizzare la situazione sempre e soltanto a vantaggio dei mercati finanziari, se non si mette prima mano
ad altre questioni più profonde. L’introduzione dell’euro ha solamente accelerato un processo già iniziato con il Trattato di Maastricht, che si basava su politiche industriali mirate all’export – per un’Europa che doveva competere nel mondo come potenza egemone – e di ristrutturazione in tal senso del sistema finanziario per compiacere alla City di Londra e alle nuove élite finanziarie emerse con il liberismo. Il progetto europeo è la vittima principale del processo di finanziarizzazione della società come risposta alla crisi di accumulazione, di sicuro oggi più profonda in Europa che negli Stati Uniti o in Giappone. Le attuali politiche continentali cercano di rispondere a questa crisi con ulteriore turbo-finanziarizzazione di tutta la società – inclusa la natura – e una maggiore deflazione sul lavoro. In breve, l’Ue nella competizione globale sogna di sfruttare il vantaggio competitivo della finanziarizzazione fintantoché il gioco non crollerà definitivamente.
La crisi del debito
pubblico è centrale e funzionale alla creazione di nuovi beni finanziari su cui i capitali accumulati possono investire e riprodursi. Ad esempio ogni anno l’Italia genera 300 miliardi di euro di titoli finanziari con tassi discreti per gli investitori – e paradossalmente lo scudo anti-spread garantirà interessi fissi e sicuri in futuro. È chiaro infatti che le politiche di austerità combinate con un aumento della tassazione regressiva falliscono nel risolvere il problema del debito, ma garantiscono il ripagamento degli interessi sul debito, questione più importante per i creditori. E per quanto riguarda i cittadini italiani, quante tasse pagheranno sarà funzione sempre più dell’andamento dei mercati di capitale e delle loro esigenze – cioé in breve la stessa finanza pubblica è stata finanziarizzata, ossia resa dipendente nelle sue funzioni intrinseche, quali la tassazione, dai mercati finanziari globali.
Il fine ultimo della gestione della crisi del debito – come fu in occasione
della crisi finanziaria del ’92 in Italia – è quello di promuovere una più profonda privatizzazione dei beni pubblici. Ma questa nuova ondata di privatizzazioni avverrà in maniera finanziarizzata, ossia i nuovi beni privatizzati dovranno subito generare una mole molto più grande e profittevole di asset finanziari oltre a quelli reali, per garantire una extra-estrazione di profitto. Si vedano, ad esempio, le attuali discussioni su come privatizzare i beni demaniali tramite la creazione di fondi di private equity a cui parteciperà la Cassa depositi e prestiti.
Come andare oltre Keynes?
Allora è centrale chiedersi su cosa si dovrebbe focalizzare un’azione di opposizione radicale a tale progetto, così da aprire uno spazio politico per la promozione di politiche alternative di definanziarizzazione della società e per riappropriarsi della finanza pubblica e dei beni comuni.
Nonostante l’urgenza di arginare la disintegrazione finale del sistema di welfare tramite
politiche di austerità, riguardo alle alternative da mettere in campo bisognerebbe spostare l’attenzione dalla logica espansiva – fiscale o monetaria che sia – e dallo stesso mito dell’impossibile ri-regolamentazione dei mercati finanziari e concentrarsi su come togliere linfa vitale dal basso a questi stessi mercati. Va sottolineato che la crisi ha svalutato ben poco il capitale finanziario privato accumulato e gestito sui mercati globali. L’unico modo per svalutare parte del capitale, se escludiamo drammatiche devastazioni collegate a guerre, come la storia ci insegna, o quanto meno arginare la sua crescita smodata, è quello di ricondurne una parte significativa in una diversa sfera a più “ridotta” accumulazione, gestita nell’interesse pubblico, generando così una lunga fase transitoria in cui cambino i rapporti di forza tra capitale e lavoro, e tra capitale e comunità centrate sui beni comuni.
In pratica, bisogna prevenire da un lato che siano prodotti nuovi asset – opponendosi
in tal senso in maniera sistemica a nuove privatizzazioni così come alle grandi opere infrastrutturali – e dall’altro creare nuovi meccanismi di finanza pubblica di investimento che operino fuori dai mercati di capitale privati e anzi assorbano parte della ricchezza privata sottraendola alla gestione di questi mercati.
In tale prospettiva dare un nuovo ruolo alla finanza pubblica non implica soltanto tornare a modelli del passato, significa anche usare la finanza pubblica non solo come strumento di redistribuzione e soddisfacimento di bisogni essenziali della popolazione fuori da logiche di mercato, ma soprattutto come strumento chiave per definanziarizzare l’economia e i mercati, aprendo così uno spazio per una riappropriazione della gestione della ricchezza secondo logiche di interesse della collettività e non di pochi. Questo in una prima fase avverrebbe ancora nell’ambito di logiche di accumulazione, seppur vincolata e “calmierata”, ma nel lungo termine potrebbe avvenire secondo
principi di una società dei beni comuni ben oltre l’accumulazione capitalista.
Tre sono gli assi su cui operare strategicamente nel medio termine secondo gli obiettivi esposti sopra.
È centrale mettere in discussione il pagamento degli interessi sul debito come primo passo per rinegoziarlo contro gli interessi dei mercati finanziari. In tal senso il processo politico – e non solo tecnico – dell’audit del debito, sia a livello locale che nazionale, è tatticamente molto importante. Gestire in altro modo l’“emergenza” debito significa sottrarsi alle logiche dominanti imposte dai mercati finanziari e forzare questi a rinunciare ad una parte della loro extra-accumulazione basato sul finanziamento del debito pubblico degli Stati.
In secondo luogo bisogna riappropriarsi della Cassa depositi e prestiti e della sua gestione pubblica e per finalità sociali, invertendo la logica di privatizzazione e anzi utilizzando questa istituzione per reincanalare in mani pubbliche ricchezza privata,
ben oltre lo stesso risparmio postale. In questo modo si offrirebbe anche una possibilità per creare le condizioni utili agli enti locali per aggirare i vincoli odiosi del patto di stabilità. A questo si aggiunga anche l’importanza di promuovere una diversa gestione della ricchezza che confluisce nell’Inps, nonché nei fondi privati integrativi. Tutte queste misure consentirebbero di spostare ricchezza privata in meccanismi pubblici che dovrebbero agire fuori da logiche di mercato, riducendo così opportunità di accumulazione finanziarie sui mercati di capitale globali.
Infine, cambiare l’attuale sistema di tassazione in senso maggiormente progressivo, incrementando significativamente la tassazione delle rendite finanziarie e proponendo una patrimoniale concentrata principalmente sulla ricchezza finanziaria privata accumulata – ben 3.300 miliardi di euro in Italia, due volte il Pil e più di una volta e mezzo il debito pubblico. In tal senso è anche necessario tassare le transazioni
finanziarie per sgonfiare la mole di operazioni gestite dai mercati finanziari e ridurre le opportunità di investimenti speculativi che diano extra-profitti. Contrariamente, quindi, a quello che spesso si dice della Tassa sulle transazioni finanziarie, il fine ultimo non è stabilizzare i mercati, ma ridurli e sgonfiarli il più possibile. Questo tipo di scelte sulla tassazione della finanza dirotterebbero inevitabilmente parte della ricchezza verso investimenti di lungo termine e meno speculativi, fuori dalla pura sfera finanziaria.
Come gestire la transizione?
Ma non ci si può illudere che, anche qualora vi sia in Italia un governo di vera discontinuità con le politiche seguite fino ad oggi, nell’attuale contesto politico europeo e nel più ampio mercato unico globale dei capitali sia così semplice mettere in campo iniziative politiche forti sui tre assi sopra menzionati senza trovare un’opposizione brutale delle élite finanziarie e degli altri governi da queste mossi.
Alcune
funzioni chiave vanno riattivate per gestire la brusca transizione che scelte eterodosse produrrebbero a livello politico e finanziario.
In primis, è fondamentale reintrodurre un controllo dei movimenti di capitale a livello nazionale, che ovviamente non significa autarchia finanziaria, ma opposizione a una fuga indiscriminata dei capitali italiani all’estero, per evitare di essere svalutati o limitati dalle politiche nazionali. Con la recente crisi finanziaria di Cipro e l’intervento sui generis della Troika nel paese – incluso l’utilizzo di parte dei risparmi dei più ricchi risparmiatori per salvare le banche con la concomitante imposizione del controllo di movimenti di capitale – si è raggiunto un punto di svolta. Le stesse istituzioni europee violano i tanti sacri trattati europei – che prevedono la liberalizzazione totale nella Ue e verso l’esterno del movimento dei capitali – e per la prima volta reintroducono un controllo dei capitali. Per altro qualcosa che lo stesso Fondo
monetario internazionale ha tollerato con il caso di successo dell’Islanda, che ha superato la sua crisi drammatica a pieni voti. In questo modo anche noi ci tuteleremmo da eventuali fughe di capitali o entrate di capitali altamente speculativi nel paese.
Quindi, oltre a una Cdp ripubblicizzata per gli investimenti nel futuro della collettività fuori da logiche di mercato con i soldi dei risparmiatori postali, è necessario dotarsi di alcune banche commerciali pubbliche per sostenere il credito di breve termine ed evitare contraccolpi nella produzione industriale. Ciò risulta ancora più necessario qualora si proceda a misure importanti di regolamentazione del sistema bancario, quali una separazione vera tra banche commerciali e banche di investimento.
Di conseguenza, è anche necessario approntare una regolamentazione bancaria differenziata tra i due tipi di banche, andando a rivedere alcuni dei cosiddetti parametri di Basilea e soprattutto muovendo anche la Banca centrale a
fornire una liquidità adeguata alle banche commerciali pubbliche con il fine di permettergli di prestare in alcuni casi anche a perdere, se nell’interesse della collettività ? ad esempio il salvataggio di alcune imprese in difficoltà con la crisi, secondo criteri chiari e trasparenti che chiedano anche una trasformazione verso l’equità e la sostenibilità ambientale del business delle stesse imprese beneficiarie del credito pubblico.
Infine è centrale che siano definite politiche industriali che chiariscano per chi e cosa va prodotto secondo nuovi criteri di redistribuzione del lavoro fuori da logiche globalizzanti spesso a danno del lavoro e dell’ambiente.
È possibile attuare queste misure di “accompagnamento e prevenzione” durante una lunga transizione a livello nazionale anche se altri paesi europei non si muovono sullo stesso solco, e in ogni caso tali scelte non sono in conflitto necessariamente con la legislazione europea. Ciò che è necessario è un governo di forte profilo
politico in grado di resistere alle pressioni europee e dei mercati e quindi capace di aggregare consenso a livello europeo generando dinamiche analoghe anche in altri paesi, soprattutto della più colpita periferia europea. Solo in questo modo si aprirebbe uno spazio politico efficace per sfidare la Bce e la Commissione europea e ottenere un cambio di rotta nelle politiche e nell’assetto istituzionale europeo nel lungo termine.
Chiedere di più di semplici politiche keynesiane
La finanziarizzazione è un processo sistemico e ciclico di trasformazione del capitalismo, e non c’è tempo in questa sede per approfondire la questione. È molto difficile individuare come l’attuale fase possa finire e se aprirà un nuovo ciclo capitalista – con una nuova “impresa capitalista” che incorpori le principali minacce che oggi l’attuale impresa affronta – o porterà al passaggio verso un nuovo sistema non basato sull’accumulazione.
In questa fase, guardare alla ricchezza e alla
sua accumulazione è perciò ancora più importante che guardare alla circolazione della moneta o all’espansione della base materiale e della sfera produttiva. O per meglio dire abbracciare la definanziarizzazione “con un’uscita da sinistra” è condizione sine qua non per affrontare le questioni collegate a quelle politiche industriali e alle loro forme di finanziamento, a partire dal contesto europeo. Politiche espansive fiscali nel breve termine servirebbero per annientare la follia dell’austerità fine a se stessa e salvare parte del sistema di welfare; ma allo stesso tempo tali politiche non potranno mai dare una prospettiva di cambio di modello di sviluppo, anche fuori della logica di accumulazione, sia nel breve che nel lungo termine. Non a caso oggi anche alcuni attori sui mercati finanziari, preoccupati del crollo senza fine della domanda aggregata su cui si innesta il processo di finanziarizzazione, chiedono che i tagli siano più contenuti e intelligenti – e magari rafforzino il ruolo dello Stato come fautore della finanziarizzazione dei servizi pubblici, a prescindere dalla forma di proprietà delle aziende che li forniscono alla cittadinanza.
Per concludere, oggi anche Keynes lo ammetterebbe se fosse ancora in vita: se il genio del capitale finanziario non viene ricatturato e rimesso nella lampada, reintroducendo progressivamente un controllo dei movimenti di capitali – tanto che una vera Tobin Tax dovrebbe mirare a questo più che a stabilizzare i mercati o a produrre nuovo gettito per salvare le banche o ripagare il debito ? è illusorio pensare che politiche espansive e redistributive tramite un nuovo new deal, magari tinto di verde, ci tireranno fuori dalla crisi riportandoci agli anni d’oro del capitalismo del dopo-guerra mitigato da un solido contratto sociale con il lavoro. Per questo la sinistra deve chiedere di più di stereotipate politiche keynesiane e avanzare proposte di azioni e politiche trasformative, al pari del potere trasformativo che la
finanziarizzazione ha oggi nella società a tutti i livelli. Antonio Tricarico