IRAQ: una guerra illegale ripudiata
Stanza 1304
La finestra sulla guerra
 







a cura di Rita Criscione




Baghdad, Piazza del Paradiso, 28 aprile 2002, a mezzodì, in pieno sole si inaugurava il monumento di Saddam.Erano state predisposte delle coperture per proteggere almeno una parte della folla, che c’era, in abbondanza; era  rilevante, anche tenendo conto dello spazio in cui piazza e monumento, data la mole della costruzione, si identificavano. Tutto alla grande. Questa volta Saddam in effigie levava la destra come chi garantisce protezione, sicurezza, mentre richiama a sé l’attenzione. Tutto spettacolare: l’emiciclo delle colonne altissime, concluse in alto come candelieri, veri e propri riflettori, le fontane i cui potenti getti diventavano variopinti per i giochi di luce sottostanti; un trionfo di marmi e d’impotenza con il quale non potevano gareggiare le gigantografie del rais disseminate un po’ ovunque.
Dominavano sia nella hall del Palesatine che dello Sheraton, si aggiungevano a quelle che dovunque identificavano nel dittatore tutte le attività e le pratiche feriali e festive. Guida senza alternative e factotum assoluto nei giorni di tutti, Saddam giganteggiava in tutte le salse: era simbolo di tutte le attività ministeriali; unico attore dai mille ruoli si dichiarava prototipo e riferimento come uomo di fede, sposo, cacciatore, fotografo, guerriero a cavallo, guida in ogni lavoro; insomma in formato massimo o minimo, dato che non mancava chi, per vedere che ora fosse, incontrava perfino sull’orologio il volto del padrone. Ogni luogo abitato ostentava il suo lare inequivocabile, Saddam si proponeva nelle vesti dell’educatore e del difensore della patria.
La già folta presenza dei mille volti dell’unico e irripetibile dittatore che , tra l’altro, si garantiva l’ubiquità grazie ai numerosi suoi sosia, si era infittita nella settimana dei festeggiamenti del suo genetliaco: tutto il paese in festa, tutti compatti all’ordine di festeggiare con decentramento: qui un monumento da capogiro, li una parata, altrove l’inaugurazione di un complesso residenziale, con l’ostentazione di mezzi militari bene in vista sulle piattaforme dei vagoni del treno che avanzava lento sull’unico binario. Clima di esultanza, sussiego, divise, matrimoni celebrati nell’occasione, XII festival dell’arte fotografica: fermento a comando e controllo evidente. Torniamo in Piazza Paradiso. In prima fila i soliti bambini quelli piccolissimi, dalle vocine squillanti, usi a consumarsi la gola inneggiando a Saddam padre e protettore. Gli strilli che avrebbero dovuto essere intonati, avevano la loro funzione; li risentivi nelle piazze, nell’università, nelle cerimonie ufficiali.
Vada pure bene per i bambini, comunque non signori della loro volontà, ma, di rito, alle loro voci, appena dopo la breve nota di chi apriva i giochi, ecco seguire i poeti del regime.
Saddam aveva i suoi aedi (chissà dove saranno ora) che recitavano versi d’encomio con tutta la passione di chi altro non ha cuore se non la testimonianza
di quel tutto buono e tutto eccellente che spetta al signore di tutti e merita la gratitudine per l’elargizione, generosa come la sue gesta.
Fanciulli, poeti, musici, anche il 28 aprile 2002 resero onore al rais: l’immenso monumento si popolò, le luci fecero frementi i potenti getti d’acqua, la statua fu scoperta; due montoni furono sgozzati, secondo buona usanza, innanzi all’imponente simulacro di chi prometteva certezza di futuro e dava speranza.
Le carcasse dei due montoni vennero allontanate dal podio dei discorsi ufficiali, scaricate, dopo breve corsa, su di un prato; il popolo e le autorità, per l’occasione più autoritarie, ebbero la loro consolazione: fuori dal riparo il sole picchiava forte.
Eppure si temeva la guerra; qualcuno giurava che sarebbe scoppiata, ma quel popolo buono, lo è davvero, paziente, perché costretto alla pazienza, rivelava a prima vista l’appartenenza.
C’erano i semplici, gli umili cui nessuno avrebbe mai potuto sottrarre la libertà dei poveri. C’erano i servi del regime e quelli facevano paura: se prestavi attenzione alle richieste di un ragazzo, ti guardavano con disprezzo, gli sputavano addosso o lo colpivano con una pedata. I cani dei padroni abbaiano e mordono, spiano e denunciano: il controllo era pesante.
Il popolo iracheno, quello vero, era buono, provato dalla guerra, esperto di bombe intelligenti i cui effetti erano evidenti nelle macerie e nei ruderi ancora presenti tra altri edifici in piena efficienza.
Era un popolo sottratto al suo passato, alla sua grande storia di primati letterari, scientifici, di sereni rapporti culturali testimoniati nel nostro medievo e nel nostro umanesimo: ancora ci stupisce il lungo colloquio tra Enea Silvio Piccolomini e Maometto II.
Dittatura e miseria, quella che attenta alla dignità e alla libertà personale ancora prima che la  privazione dei beni di prima necessita, camminano in parallelo.
I fatti dimostrano la laicità di Saddam che pur ostentava nelle gigantografie la sua devota pratica religiosa; il comportamento del popolo dimostra la sua pietas, la sua fede sincera.
Era tangibile nella moschea di Alì, dove i pellegrini s’illuminavano, si ritrovavano: non c’era tra loro la distanza che pur s’avvertiva tra i religiosi. In quella moschea Bin Laden aveva insegnato per dieci anni.
La magnificenza della moschea di Alì era di tutti, apparteneva anche a quelli che, prima della sepoltura, venivano alla tomba del santo nelle umili bare,coperte da veli o tappeti, ondeggianti sulle spalle dei due portatori che nel grido straziante e consolatorio insieme dichiaravano che nessuno è più grande di Dio.
Tra la  Moschea e il mercato adiacente c’erano mille interessi, La statua di Saddam, inaugurata in occasione del suo compleanno giganteggiava promettendo lunga vita al potere dominante.
Non è stato così. Quella scultura non ha avuto la possibilità di compiere almeno il suo primo anno di vita. Che sia crollato un simulacro dello strapotere è
interessante: transita così la gloria nel mondo, ma la domanda che ci assilla è sempre la stessa: esistono le guerre giuste?  

STANZA 1304 La finestra sulla guerra
B
aghdad, piazza del Paradiso, un anno dopo: 9 aprile 2003, ore 17.00; gli insorti erano poco più che un manipolo. Circa trecento persone, dopo aver fraternizzato con i marines, i cui cannoni erano stati simbolicamente infiorati, mossero all’abbattimento della statua del rais. Un fiore o due, nelle bocche dei cannoni, urla d’acclamazione in quelle che osannavano ai liberatori e tanta furia contro il simulacro di un potere da scardinare. Senza il contributo delle catene e dei cingolati americani il gigantesco bronzo celebrativo non sarebbe stato certo rimosso. Il racconto di Vittorio dell’Uva ridimensiona, nella concretezza del visto e riferito secondo l’etica dell’inviato speciale, presente al fatto, eventuali esorbitanze di registi televisivi delusi dalla “mancata coreografia prevista dal Pentagono”  e, pertanto, propensi a rendere meno cocente la delusione con qualche ritocco per rimpolpare la folla.
Mi sia intanto concesso di osservare che, se i circa trecento erano davvero gli autentici nemici del regime, mi compiaccio del loro coraggio. Se alla loro schiera appartenevano, e sono certo di non poter essere smentito, opportunisti e voltagabbana, allora nulla di nuovo sotto il sole di Baghdad. I lupi uscirono dalla tana nei giorni successivi: alla furiosa caccia a Saddam fece eco la razzia dei suoi beni; la miseria e l’ira repressa si appagarono di trofei pressoché inutili; nulla fu predisposto per mantenere l’ordine pubblico e gli incendi scoppiati proprio dove nulla c’era da saccheggiare, e cioè negli archivi ministeriali, valsero a distruggere prove di certo importanti. Nulla accadde al ministero del Petrolio debitamente sorvegliato; dell’Uva sottolinea che non si scherza sul controllo di due milioni e mezzo di barili al giorno, ed io oso malignare: anche far sparire un’infinità di reperti museali vuol dire evitare che, alla verifica, ci si possa imbattere in falsi chissà come capitati nelle bacheche.
E’ un’illazione, me la suggerisce il rodio di un tarlo impertinente. Più convincente è intanto quella dell’inviato speciale che nei roghi del ministero della Difesa vede in fumo “ i contratti per le forniture di armi, convenzionali e chimiche, ottenute prima e dopo la guerra all’Iran benedetta dagli Stati Uniti”. Ecco come si purificano delle verità imbarazzanti; è previsto per tutte le città aperte, invase, bombardate con metodo, colpendo obiettivi militari e civili inermi, e infine solo questi ultimi, rei di fuggire cercando la salvezza: “La guerra  è di per se un inferno. Ma la morte fa meno effetto. Brutto a dirsi. Direi che fa parte del contesto. Colpisce di più la disperazione dei vivi”.
Il 9 aprile 2003, Vittorio dell’Uva “era di nuovo in corsa”: si era
conclusa la sua prigionia e poteva, da osservare senza paraocchi e bavaglio, liberare obiettivamente quei pensieri che fanno del volume “Stanza 1304 – la finestra sulla guerra” – una narrazione di forte preso sul lettore, non solo per l’essenzialità pregna di riferimenti illuminanti, ma anche per l’inconfutabile propositività dei giudizi dai quali emerge il professionista ben calibrato e l’uomo che, mentre informa, comunica eticità.
La collana “ dialoghi e conversari”, Graus Editori, propone, fresco di stampa, la lunga intervista a cura di Francesco de Core, nella quale due giornalisti de Il Mattino di Napoli procedono per domande e risposte chiarendo “dal vivo” il complesso scenario iracheno nell’evoluzione dalla dittatura di Saddam e dalle violenze squadriste alla guerra che, nelle prospettive della leadership che l’ha voluta, avrebbe dovuto sostanziare semi di democrazia per rapidi e fruttuosi processi. Alla verifica ha determinato invece scenari d’incertezze: si possono fare previsioni sulle violenze che si susseguono in crescendo, ma non sulle ipotesi risolutive.
E’ superfluo sottolineare che “il narrato” è attrattivo, che lo stile è sobrio, pacato, sapido per quei tocchi d’ironia che rivelano come gli anni dell’avventura si sommino a quelli della ragione dialettica e alla saggezza che tutto amalgama su piani di una visione superiore. Corrispondente di guerra e testimone di drammatici eventi mondiali, seguiti in 60 paesi, esperto di scontri d’eserciti, raccontati dal fronte, di prigionia, rischio fatale, di mille traversie che sembrerebbero garantire una sicurezza comportamentale a tutto tondo, dell’Uva si rende conto che è sempre tutto nuovo e impredicibile, specie quando si ha l’arroganza di imporre corsi accelerati di democrazia.
Le domande sono ad arte: chi risponde ripercorre il vissuto con occhi rinnovati alla critica e pertanto riesamina, si conferma nel giudizio.
L’inviato di guerra non ha postazioni prefissate, tutto escogita per essere testimone oculare, per dire il visto da comprendere, per un approccio al vero che è illuminante soprattutto per il “fiuto” dei cani sciolti, magari sfigati, ma allevati e attrezzati alla diffidenza, alla verifica, sempre ostili alla notizia che viene offerta in cornice, bella e impacchettata: “La disinformazione è un arma efficace”, ovviamente a confondere le idee; il film rivela sempre l’impronta dell’abile regista.
Il mondo islamico non si chiarisce ad un rapido approccio; il verbo americano non potrebbe ad esempio mai sostituire le strutture sociali che il clero sciito sa creare intorno alle moschee. Quale futuro?
Dove ci sono errori di prospettive gli effetti non sono ipotizzabili né affrontabili in maniera diretta perché alla fine si combatte contro i fantasmi. Le guerre preventive non sono previste dal diritto internazionale, quella che segue il dopoguerra in Iraq è “guerra dopo la guerra” e tutte le ipotesi di soluzione comportano altrettanti rischi, compreso quello di un
assetto nazionale basato sul multinazionalismo.
Vittorio dell’Uva è un giornalista contro la guerra; è contro l’insensatezza e la stupidità delle guerra; sa bene che i consueti arroganti manichei e la stirpe dei farabutti, virale e inestinguibile sapranno comunque trovare esca per focolai di distruzione: la pena estrema sarà sempre subita dagli innocenti. La saggezza saprà comunque sostenere le ragioni dei più deboli, sarà sempre dalla parte di quelli che le ragioni dello strapotere strappano ai processi culturali ed evolutivi.
La storia, poi, riprende comunque il suo corso: le immagini televisive del dopo Saddam hanno mostrato che i rappresentanti del clero islamico, fatti fuori dal dittatore, non sono morti invano. Le loro immagini hanno ri-trovato il consenso della piazza, illuminate dalle lampade ad olio: il loro martirio ha rivendicato la priorità nella lotta contro il regime appena abbattuto.
Intervistato durante la presentazione alla stampa del suo volume, significativo per essere di per sé una finestra sulla guerra, che si parli di tutte le guerre di sempre o di quella in atto in Iraq, guerra del dopoguerra, dell’Uva ha ribadito con la garbata fermezza che lo distingue molte considerazioni presenti nelle pagine di “Stanza 1304”, ha chiarito il ruolo del corrispondente di guerra: deve saper essere al posto giusto nel momento giusto. Spesso la fortuna giova in questa necessità; la paura va dominata e considerata all’occasione un’ottima polizza di assicurazione. La cultura democratica no si acquisisce con un corso accelerato: “ La democrazia è una cosa seria” ; si deve radicare ed esige la pratica.
Nelle grandi trasformazioni sociali, specie se si è abbattuta una dittatura, il popolo vuole sicurezza; il clero ha facile presa sul popolo disorientato; come accadde in Italia dopo il fascismo; così, rotto il freno laico di Saddam, il popolo riscopre il ruolo sociale del sacerdote che sa coniugare religione e politica sociale: rappresenta la sicurezza: “ gli iracheni sono pronti a vendersi pur di avere un contesto di sicurezza”.
E i nostalgici di Sadfdam? Quelli non mancano mai, specie se hanno goduto per decenni di particolari privilegi.
Del resto trent’anni di regime non si cancellano con un colpo di spugna: l’invasore è sempre guardato con sospetto “ un ipotetico comitato di liberazione nazionale” trova sempre i mercenari: “Alla fine del 2003 venivano offerti fino a mille dollari per un attentato chiavi in mano.La miscela fatta di motivazioni e danaro può rivelarsi esplosiva”.
Per quanto concerne la disputa resistenza o terrorismo, dell’Uva chiarisce che, secondo lui, in Iraq agisce la resistenza, ma è stata affiancata dal terrorismo: “ questo non ne muta l’originaria natura. Terrorismo e resistenza viaggiano su binari paralleli. Ma non sono la stessa cosa. I fatti incontrovertibili dicono che l’Iraq, paese sovrano è stato invaso senza credibili motivazioni da truppe di una coalizione straniera. L’effetto domino nasce
dall’ errore iniziale…”.
L’intervista, proprio perché proposta in forma dialogica, tiene vivo l’interesse del lettore e le risposte immediate alle domande dirette risolvono appieno la comunicazione che trova orizzonti ben più ampi di quelli ai quali si fa riferimento perché rispecchiano fenomeni eclatanti.
Dalla sua finestra sulla guerra dell’Uva scruta percorsi obbligati, azioni belliche, saccheggi, voglie di protagonismo: “ Ricordo un ex pilota della compagnia di bandiera irachena. Si aggirava mostrando documenti. Voleva che si sapesse che anni prima durante il conflitto con l’Iran era andato a Francoforte con un aereo cargo a caricare bidoni di agenti chimici forniti dagli americani. L’esporsi gli sembrava un grande atto di coraggio…”.
E poi c’è il discorso sulle donne, sui bambini, gli orfani, i ministri pagliacci, gli ex gerarchi, la crisi delle democrazie nel mondo, sui fatti di Nassiriya: “ il dolore è un collante”, sulla fine di Saddam: “da ladro di strada…le masse non perdonano…mai si lasciano affascinare dalla debolezza”.
Non ho ancora chiarito come Vittorio dell’Uva abbia conquistato la Stanza 1304 dell’Hotel Palestine. E’ tutto ben siglato nella prima parte del libro, quella in cui il dialogo serrato s’incentra sul mestiere dell’inviato speciale. Sulla tecnologia che fa coincidere informazione e omologazione con le raffica invasive delle notizie. Si tratta di pagine nelle quali vengono messe a fuoco “ segreti” professionali, solidarietà tra colleghi, lealtà di comportamento, rispetto delle priorità, ufficialità delle fonti dell’informazione. Si parla di Bassora mai in rivolta, eppure proposta all’opinione mondiale come pronta ad accogliere le truppe americane con almeno un milione di bandierine  a stelle e a strisce.
Si ricordano gli antefatti della guerra, dal fatidico 11 settembre, si confrontano la prima e la seconda guerra in Iraq, “ un paese che voleva essere libero, ma non aveva nessuna intenzione di finire sotto la tutela dello straniero, soprattutto si parla degli inviati speciali” puledri di razza che cadono sul campo quando meno se l’0aspettano, delle fonti ufficiali che contengono virus e spesso fanno correre il rischio di trovarsi fuori pista.
Quando accade, come appunto a Bassora per sette giornalisti tra i quali proprio Vittorio dell’Uva, si corrono seri pericoli: si rischia di trovarsi prigionieri.
E’ noto che il gruppetto di cui parliamo fu fatto prigioniero dai fedeli a Saddam e che la loro sorte fece notizia, che ebbero modo di vedere i fatti con gli occhi della realtà, per cui non coincidono con l’etica dell’ufficialità. Vittorio dell’Uva porla di questi eventi con la serietà e l’ironia di chi riconosce che tutto il mondo è paese: non subì violenze, furti sì, minacce, sottrazioni di effetti personali, incontri con personaggi tanto più squallidi quanto più rappresentativi. Alla fine eccolo bloccato al Palesatine, stanza 1304, sfigati e fortunati di nuovo insieme: c’era la possibilità di dire
molte verità non ufficiali e ritrovarsi in corsa, con l’occhio alle truppe straniere che prendevano possesso di Baghdad. Al resto già si è fatto cenno.
Fa riflettere la condizione dei giornalisti prigionieri: non subirono violenze, eppure avevano messo in atto pesanti violazioni in un paese dove vigeva la legge marziale. Tutta la pubblicità che il loro caso aveva meritato allorché si temeva per la loro sorte, crollò di colpo quando essi dichiararono d’essere stati trattati bene. Lo fecero, a nome di tutti, Lorenzo Bianchi e Ezio Pasero, ma non piacque all’ufficialità l ‘aggiunta: “ meglio di come noi trattiamo gli immigrati”. La lettura di   “Stanza 1304” – la finestra sulla guerra – erudisce e chiarifica : fa riflettere specie sui farabutti che si utilizzano per le guerre guerreggiate, sulle guerre postbelliche, sull’economia e sulla dignità umana da salvare.
E per l’avvenire? A questa domanda Vittorio dell’Uva risponde asciutto: non lo so.