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E ora Super Indy combatte l’ossessione rossa. Per ridere |
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di Luca Celada
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In partenza per la Croisette dove presenterà il quarto capitolo di Indiana Jones Il regno del teschio di cristallo - evento inaugurale di Cannes 2008 - Steven Spielberg parla del film, del lavoro e dei motivi che lo hanno portato a rivisitare la saga dell’avventuroso archeologo. Con una dozzina di progetti in cantiere da produttore, un videogioco appena uscito per la Nintendo (Boom Blocks), perfino un flop alle spalle (il reality cinematografico On The Lot) dietro l’angolo due nuove regie più la collaborazione con Peter Jackson su una trilogia di film sul personaggio del cartoonist belga Hergé Tintin in animazione ibrida «motion capture» (quella di Polar Express e Beowulf), il re di Hollywood non rallenta e non dissimula un entusiasmo bambinesco per il ritorno al giocattolo «Indy». Il quarto film della serie ha avuto una gestazione di quindici anni e alcune false partenze come una prima sceneggiatura firmata da Frank Daranbont (regista di Il miglio verde e Le ali della libertà che aveva sceneggiato diversi episodi della serie tv Young Indiana Jones). La produzione è stata circondata da una segretezza spasmodica per proteggerne i segreti da occhi indiscreti (e alimentare allo stesso tempo l’attesa dei fan). Lo scorso ottobre sono stati trafugati dagli uffici di Spielberg una copia del budget, alcuni computer e migliaia di foto di scena. Il blog di cinema cui erano stati offerti in vendita ha però avvertito l’Fbi e il responsabile è attualmente dietro le sbarre. Come ha collaborato con George Lucas? George ha sempre molte idee sullo sviluppo della storia, è questo in assoluto è il suo maggiore contributo. Ha un senso istintivo per la trama e per questo lavoriamo perfettamente assieme. Ma quando arriva il momento di mettere in moto la produzione, George si tira indietro, al punto che in tutti i film insieme credo sia venuto sul set al massimo 4 o 5 volte. Per questo nuovo Indiana si sarà fatto vedere si e no 6 o 7 volte in 80 giorni di riprese che non è molto. Mi lascia fare il mio lavoro, montare il film e io da parte mia gli faccio vedere una versione molto preliminare. In tutti e quattro gli episodi George è venuto al montaggio, ha passato un paio di giorni col mio montatore e ci ha dato degli ottimi consigli - e tutti quelli con cui non sono stato d’accordo li ho ignorati. È il nostro accordo e a lui sta bene così. Non si è mai lamentato gli basta aver avuto la possibilità di esporre il suo punto di vista.. C’è stato, è vero, un momento in cui ho pensato che non avremmo mai trovato un punto in comune sulla sceneggiatura, ma è semplicemente la natura del nostro rapporto. Io e George siamo come fratelli e ci diciamo le cose come le vediamo, è così dal 1967, siamo amici da 41 anni e niente lo cambierà. Piuttosto che costringerlo ad accettare una storia di cui non era convinto avrei rinunciato al film, e il feeling è reciproco. A me piaceva la sceneggiatura di Frank Darabont a lui no, e così ho deciso di ricominciare da capo. E siamo rimasti amici lo stesso. In che modo avete deciso di rivisitare Indiana Jones? La verità è che tutto dipende sempre dalla sceneggiatura anche se a volte ci vogliono quindici anni per avere quella giusta. Se ben mi ricordo tutto è cominciato nel 1994 quando a consegnarmi l’oscar per Schindler’s list c’era proprio Harrison Ford e mentre ci stavamo incamminando dietro le quinte mi dice: «quando vuoi fare un altro Indiana Jones, io sono pronto». Erano passati 4 o 5 anni da L’Ultima crociata e io gli risposi che avrebbe dovuto sentire George. Così ha fatto e una settimana dopo ho ricevuto la chiamata da Lucas che mi dice «Harrison fa sul serio, vuole fare un altro film». Sono semplicemente dovuti passare 14 anni prima che David Koepp sfornasse infine un copione davvero irresistibile, all’altezza dei film della prima serie. Ho capito che ce la potevamo fare quando stavamo facendo i provini del trucco a Los Angeles e c’era Karen Allen (interpretata da Marian Ravenwood personaggio legato romanticamente a Indiana nel primo film ndr.). C’erano una ventina di persone indaffarate attorno al set quel giorno quando Karen e Harrison sono usciti nei loro costumi e si sono abbracciati. Ero commosso ma appena mi sono guardato intorno ho visto diverse persone sulla trentina che piangevano come me, perché erano cresciuti con Indiana, le sue storie avevano avuto un posto importante nella loro vita. Per il nuovo capitolo ci siamo resi conto che il tempo era passato per tutti compreso Indiana Jones. Quindi abbiamo fatto i nostri calcoli sugli anni di Harrison, gliene abbiamo abbonati un paio per buona condotta e abbiamo deciso di ambientare la storia nel 1957. I 50 sono stati un periodo interessante, il nemico è diverso (nemesi di Jones qui è Cate Blanchett nei panni di Irina Spalko un’agente sovietica, ndr); siamo in piena guerra fredda e il paese è ossessionato dalla minaccia rossa, la paranoia dei sovietici che come sapete ha influenzato tante produzioni hollywoodiane. L’intero decennio è caratterizzato dalla psicosi dell’olocausto nucleare, non che faccia parte della vicenda raccontata nel Teschio, per carità - vogliamo semplicemente divertire. Come sono cambiati i film d’azione a Hollywood negli anni trascorsi dai primi episodi di Indiana Jones? Mio figlio è andato a vedere Iron Man e poi ci è tornato il giorno dopo e mi ha detto «Papà è fortissimo perché fa anche ridere!». Tutto è cominciato con Batman di Tim Burton che ha cambiato per sempre il paradigma dei supereroi, da quel film in poi è stato chiaro che i supereroi, derivati dai comics, dai manga o dalle graphic novels, è un genere che non credo ci abbandonerà più. Ci saranno film belli e meno belli, per me il secondo Spider Man rimane fra i migliori in assoluto, io li vado a vedere tutti anche se sono troppi. Ma questo business va così, e ora a funzionare sono i personaggi della Marvel. I suoi prossimi lavori saranno una biografia su Lincoln e una pellicola sul processo ai sette di Chicago. Perché queste scelte? La mia passione per Lincoln risale all’infanzia, quando ritagliavo i ritratti dei presidenti a scuola, come quel personaggio in Minority report. Quello di Lincoln era il mio preferito, poi crescendo ho cominciato a leggere libri, ero appassionato di storia e più imparavo più mi convincevo che Lincoln in quei cinque anni era riuscito a cambiare il mondo. Sto aspettando la sceneggiatura di Tony Kushner (lo sceneggiatore di Angels in America e Munich ndr) e mi piacerebbe finire il film entro la fine del 2009 in tempo per il bicentenario della nascita. Per quanto riguarda i Chicago 7, beh forse perché non essendo mai stato un hippie non mi sono mai drogato, ho forse una visione più obiettiva di quell’epoca dei miei amici che ne erano coinvolti! E poi credo che un film sulle proteste giovanili oggi potrebbe essere istruttivo. Per far vedere alla gente, soprattutto alle nuove generazioni che i giovani di allora ebbero molto da dire sul mondo e sulla guerra del Vietnam, che le proteste sui campus allora la guerra la fermarono. Oggi c’è molta più apatia, anche se la guerra in Iraq si trascina da anni gli studenti sono meno impegnati che nei 60 e ho pensato che sarebbe stata una buona storia da ricordare oggi.de il manifesto |
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