Cosa ci insegna il caso web tax
 











Qualche lettore giustamente malizioso mi chiede qui e altrove se «ho il coraggio» di scrivere qualcosa sulla web tax, dopo che l’editore per cui lavoro – quello che mi passa lo stipendio – si è espresso a favore con tanta determinazione e in diverse sedi pubbliche (qui il post sull’Hp, ad esempio, ma l’ho sentito questa mattina anche a Radio24).Ovvio che sì, «ho il coraggio», un po’ perché grazie al cielo questa non è West Point un po’ perché sul tema ho passato gli ultimi giorni a leggere di tutto oltre che a intervistare gente in merito, quindi credo di essermi fatto un’opinione abbastanza definita.Bene: di sicuro la proposta originale Boccia-Fanucci era devastante, oltre che un po’ ridicola.Ipotizziamo pure che fosse animata da buone intenzioni (far pagare le tasse in Italia a corporation come Google, Facebook e Amazon, che le eludono attraverso partite di giro e triangolazioni internazionali): ma erano proprio gli esiti, gli effetti, a essere pessimi.Perché imponeva di fatto a migliaia di aziende di ogni angolo del pianeta e di ogni dimensione – comprese quelle piccole e le start-up – una cosa per loro lunare (aprire una partita Iva in Italia) per vendere qualsiasi cosa nel nostro Paese.Il risultato facilmente prevedibile sarebbe stato che la gran parte di queste aziende straniere – specie le più piccole, che sono spesso anche le più innovative – avrebbero preferito rinunciare a vendere alcunché nel nostro Paese: un bel disclaimer "il servizio non è disponibile in Italia" e via.Con l’ulteriore conseguenza che il famoso tessuto produttivo italiano (di nuovo: specie le piccole e medie imprese, ma anche le ditte individuali o semplicemente i "free agent" del terziario) non avrebbero più potuto usare le infinite possibilità offerte da questi servizi e da questi software.Una tagliola al decantato ’sviluppo’, un disincentivo all’innovazione della nostra imprenditoria, una livella che abbassava tutti verso l’arretratezza in un Paese che nelle classifiche Ue è già agli ultimi posti per digitalizzazione e uso della Rete.L’equivoco nasce forse da una scarsa comprensione di quell’iceberg che è Internet: Boccia e gli altri credono che il Web sia solo i suoi marchi più noti, come appunto Google, Facebook e Amazon, e non vedono la parte sommersa, le migliaia di imprese innovative che magari stanno nei posti più strani – da Kansas City all’India – e i cui nomi non appaiono mai sulla stampa generalista. Una "pancia" di creatività e di ideazione che l’Italia non avrebbe più potuto utilizzare, da cui ci saremmo tagliati fuori.Questo, per quanto riguarda la versione iniziale della legge.Come forse sapete, la notte scorsa il testo è stato modificato dopo le molte proteste: così l’obbligo di aprire una partita Iva è stato tolto per quanto riguarda l’ e-commerce, mentre è stato mantenuto per la vendita di spazi pubblicitari (qui il testo attuale).Cosa significhi concretamente questa marcia indietro è cosa che vedremo meglio nei prossimi giorni: il diavolo è spesso nei dettagli, nei "collegati", e comunque il testo può essere modificato ancora.Di certo la frettolosa revisione notturna è un’ammissione che, così come era stata pensata, la norma produceva più danni che benefici. Quanti danni produca ancora nell’attuale versione, è appunto al momento una cosa da capire (anzi, se ci sono lettori più esperti di me su queste technicalities, sarò loro grato se ci saranno d’aiuto).Detto questo, e tornando al centro della questione, il problema dell’elusione fiscale delle big corporation digitali esiste – e sarebbe sciocco negarlo.Le tasse pagate in Italia dalle varie Google, Amazon, Apple e Facebook sono ridicole e non rispecchiano minimamente i loro fatturati nel nostro Paese.Più in generale, le imposte versate da queste grosse aziende sono pochissime ovunque (non solo in Italia, dico), perché sono bravissime nei giochetti – legali – di travasare costi e ricavi da una società all’altra, con sedi in Paesi diversi, con il risultato che alla fine non pagano quasi niente da nessuna parte. Più in generale ancora – se posso – è tutto il meccanismo mondiale dei cosiddetti "paradisi fiscali" che fa veramente schifo, grida vendetta a Dio e meriterebbe una battaglia politica globale.E anche per far pagare ai giganti digitali le tasse dovute l’unica cosa che può funzionare è una battaglia politica se non globale, almeno europea.Lo hanno capito bene in Francia, dove in passato i gollisti hanno cercato di far passare una cosa simile a quella nostrana firmata Boccia, poi i socialisti hanno incaricato un gruppo di esperti di studiarne gli effetti e l’attuale ministro Fleur Pellerin ha cambiato del tutto rotta, rinunciano a varare norme locali e facendo partire invece una campagna di pressione su tutte le istituzioni Ue per arrivare a uniformare le imposte sui proventi digitali.Ci sono molte ragioni per cui l’internazionalizzazione della questione è indispensabile: se ne volete una sintesi, leggete questo post di Ernesto Ruffini.Quello che invece a me preme dire è che questa vicenda tutto sommato minore può esserci preziosa come stimolo mentale per capire definitivamente che - in generale, su moltissime questioni etiche e sociali, dalla Google Tax alla Tobin, passando per il pareggio di bilancio etc etc – quello che combiniamo noi in Italia ormai non conta nulla e che bisogna sempre di più muoverci insieme alle opinioni pubbliche degli altri Paesi, o almeno alle loro fette più avvertite.Sì, lo so che lo slogan "globalizzazione delle lotte" è tutt’altro che nuovo, ma ormai è molto più che uno slogan: è proprio una pratica quotidiana da implementare sul 99 per cento di quello che facciamo e proponiamo, ogni giorno.E questo, forse, è appunto il maggiore insegnamento che può venirci da questa pasticciata vicenda. alessandro gilioli,l’espresso                                                    Perché la web tax non minaccia la Rete
Tassati e tartassati, come purtroppo siamo, rischiamo ormai lo shock anafilattico anche solo a sentir parlare di nuove imposte o nuovi tributi. E così diventa facile scambiare lucciole per lanterne fiscali. Ma in realtà non c’è nessuna "web tax" in vista che minacci la libertà della Rete né tantomeno l’isolamento dell’Italia nel cyber-spazio.
Piuttosto, la norma introdotta nella legge di Stabilità tende a combattere l’evasione via Internet, per difendere la concorrenza sul mercato interno e contribuire magari a ridurre il cuneo fiscale sul lavoro. Non a caso è stata denominata più correttamente "Google
tax": proprio perché colpisce i giganti del web, tra cui il più potente motore di ricerca del mondo, insieme ad altri come Facebook, Apple e Amazon. E non a caso ha suscitato la reazione della lobby di interessi alla quale questi colossi appartengono, come l’American Chamber of Commerce in Italy che notoriamente non è un’associazione filantropica o di beneficenza.
Il fatto è che Google e i suoi "fratelli" realizzano i loro ingenti fatturati nel nostro Paese o altrove e poi pagano le tasse dove vogliono o dove più loro conviene, di fatto sottraendo gettito al fisco nazionale. E parliamo di un’elusione legalizzata, in funzione della quale i ricavi si contano in miliardi di euro e invece le imposte in pochi milioni. Una forma di dumping tecnologico, insomma, che danneggia il commercio, la produzione e l’occupazione Made in Italy: tanto più che i prodotti acquistati su Internet, come anche i servizi o le campagne pubblicitarie, vengono pagati con redditi realizzati sul nostro
territorio.
Nel provvedimento contestato, analogo a proposte già presentate in altri Paesi europei, si prevede perciò l’obbligo di acquistare beni e servizi online soltanto da soggetti titolari di partita Iva italiana. Trattandosi di operazioni che si realizzano con la "moneta elettronica", è possibile individuare con certezza il beneficiario effettivo del pagamento ed esigere di conseguenza il versamento corrispettivo delle tasse. Non c’è alcuna ragione, del resto, per cui l’esercente di un negozio fisico sul territorio italiano ne debba pagare più di chi gestisce un negozio virtuale attraverso un sito con sede legale all’estero: per esempio, in Irlanda o in Lussemburgo, dove l’imposizione è largamente inferiore.
Questa elementare esigenza di equità è ancor più avvertita sul mercato della pubblicità, già fortemente condizionato nel nostro Paese dalla concentrazione televisiva che danneggia in particolare la stampa e i nuovi mezzi di comunicazione. Il search advertising, cioè
l’acquisto di spazi dei link sponsorizzati che appaiono nelle pagine dei "Risultati" sui motori di ricerca, deve corrispondere agli stessi parametri fiscali che regolano la raccolta dei mezzi tradizionali sul territorio nazionale. Altrimenti, anche in questo modo surrettizio si rischia di compromettere il pluralismo dell’informazione e la libera concorrenza.
Nessun Trattato europeo o accordo sul commercio internazionale può trasformare dunque l’Italia in un paradiso fiscale per i "signori del web". La libera circolazione di merci, servizi, persone e capitali, garantita all’interno dell’Unione, non contempla e non autorizza il "contrabbando virtuale" dell’e-commerce a danno degli operatori nazionali. Se è vero che il cyber-spazio non ha confini, ciò non implica tuttavia un regime di extra-territorialità tale da consentire l’evasione generalizzata. Una Rete senza regole, giuridiche o economiche, è destinata prima o poi a degenerare nell’anarchia.Giovanni Valentini,repubblica

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