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La fortezza di Israele, il lutto della Palestina
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di Mi.Gio.
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George Bush ha scelto prima Masada e poi la Knesset, per ribadire il legame fortissimo esistente tra gli Stati uniti e Israele, nel giorno del sessantesimo anniversario della fondazione dello Stato ebraico. «I sette milioni di israeliani non sono soli, ma hanno al loro fianco i 300 milioni di americani...Masada non cadrà di nuovo» ha esclamato il presidente Usa, riferendosi ai mille zeloti ebrei della fortezza sul Mar Morto che nel 73 d.C. preferirono un suicidio di massa alla resa alle legioni romane. «Avete l’America al vostro fianco», ha assicurato il presidente Usa che scegliendo di visitare Masada ha voluto dare il senso più profondo dell’alleanza a tutti i livelli - a partire da quello militare - tra il suo paese e Israele. E mentre pronunciava quelle parole, nei centri abitati palestinesi si levavano verso il cielo 21.915 palloncini neri, uno per ogni giorno trascorso dalla dichiarazione d’indipendenza di Israele, venivano messe in mostra le chiavi delle case distrutte o confiscate nel 1948, assieme ai nomi di 530 villaggi palestinesi di cui oggi, in territorio israeliano, non resta traccia. Sono state le commemorazioni della Nakba, la Catastrofe nazionale del popolo palestinese che nei giorni della fondazione dello Stato ebraico veniva avviato in gran numero - almeno 750 mila uomini, donne e bambini - verso l’esodo forzato. Per loro, Bush non ha avuto neanche una parola. L’uomo della guerra globale non capisce che per fare la pace in Medioriente occorre raccontare tutte le verità e non soltanto una. «Yom Azmaut Sameach», «Felice giornata dell’indipendenza», ha detto Bush al suo ingresso nell’aula principale della Knesset ricevendo un’ovazione da tutti i presenti che si sono alzati in piedi entusiasti. «L’America - ha detto Bush rivolgendosi agli israeliani- sta con voi nello sforzo di scompaginare le reti terroristiche e di negare agli estremisti luoghi protetti. L’America - ha precisato - sta con voi fermamente nell’opporsi alle ambizioni nucleari iraniane. Consentire ai leader mondiali dell’istigazione al terrorismo di possedere le armi più mortali al mondo sarebbe un tradimento imperdonabile nei confronti delle generazioni future». Quindi ha ribadito: «il mondo non deve permettere che l’Iran abbia armi nucleari», indicando che gli ultimi mesi della sua presidenza potrebbero riservare una nuova guerra in Medio Oriente, scatenata da un attacco militare statunitense contro le centrali atomiche iraniane. Nel suo discorso, invece, i negoziati israelo-palestinesi non sono stati quasi menzionati. La parola Annapolis - la località degli Stati uniti dove nel dicembre scorso proclamò la sua intenzione di lavorare a un accordo tra Israele e Anp entro il 2008 - non è stata pronunciata a conferma che quell’incontro in terra americana era soltanto una rappresentazione teatrale. Bush ha preferito parlare della «grande lotta ideologica» in corso fra le democrazie occidentali e quanti, a suo parere, si richiamano a una versione radicale dell’Islam: Hamas, Hezbollah, al Qaida, Iran. Per Bush, a quanto pare, non è Islam radicale quello dell’alleata Arabia saudita, dove vige un sistema social-religioso feudale che fa delle donne uno dei principali bersagli. Il presidente Usa ha poi lanciato attacchi indiretti al candidato democratico Barack Obama che, pur manifestando sostegno a Israele, non ha escluso di poter avere contatti con le «forze del male» indicate da Bush. A pochi chilometri di distanza e nei campi profughi palestinesi sparsi nel mondo arabo, un altro popolo raccontava il suo destino, e puntava l’ indice contro l’ indifferenza del mondo, rappresentata dall’atteggiamento di Bush. In un discorso al suo popolo, trasmesso dalla tv palestinese, il presidente Abu Mazen ha detto che «la continuazione dell’occupazione israeliana è una catastrofe che non procurerà sicurezza a nessuno». E ha aggiunto: «è arrivato il momento di porre fine alla disgrazia umana chiamata Nakba. Israele deve cessare subito ogni attività di colonizzazione». Abu Mazen aveva cominciato il suo discorso ricordando che 60 anni fa «centinaia di migliaia di palestinesi sono stati sradicati dalla loro patria, le loro case e le loro terre e spinti all’esodo» e che oggi sono quasi cinque milioni i palestinesi della diaspora il cui ritorno continua a essere negato. Da Gaza sono giunti toni più militanti di Hamas e le immagini di decine di migliaia di palestinesi in marcia nel ricordo della Nakba. A Ramallah, dove a mezzogiorno il suono delle sirene ha dato il via a un minuto di silenzio, oltre 50 mila persone, molte vestite di nero, hanno affollato Piazza Manara. Tanti si sono fermati in raccoglimento davanti alla tomba di Yasser Arafat. Per un giorno, niente divisioni, ma un popolo unito.de Il Manifesto |
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