Piazza Taksim e velleità ottomane
 











Ancora oggi, mesi dopo, quando arrivi a piazza Taksim e vedi quei pochi malinconici alberelli che costituiscono il Gezi Park?, ti chiedi: «Ma come? Un intero paese che si solleva, manifestazioni di massa in tutta la Turchia, e tutto per un giardinetto?». Perché nessuno ha notato la straordinaria anomalia di quella che ormai è etichettata come la «primavera di Istanbul». E cioè che è la prima volta nella storia che la protesta divampa in un’intera nazione contro una speculazione edilizia. Non era mai successo che tutto un paese insorgesse a causa di un’operazione immobiliare. Come dice il geografo Jean-François Perouse, «non si era mai vista una rivolta così urbanistica» 1.
I dimostranti che il 28 maggio occuparono Gezi Park? protestavano infatti contro un piano di riarredo urbano fortemente voluto dal governo per risistemare la centralissima piazza Taksim. Da lì la protesta dilagò e vi furono manifestazioni in 79 delle 81 province turche. La
repressione poliziesca fu selvaggia. Cinque dimostranti furono uccisi, 5 mila feriti e molte centinaia arrestati. Era la prima volta da 11 anni, da quando il Partito per la giustizia e lo sviluppo (in turco Adalet ve Kalk?nma Partisi, Akp) era salito al governo, che il paese registrava un dissenso così generalizzato, dopo ben tre elezioni, non vinte ma stravinte del premier Recep Tayyip Erdogan, che infatti fu colto di sorpresa dall’ampiezza delle manifestazioni: nei primi giorni di scontri, la tv turca continuava a trasmettere programmi sui pinguini al Polo Sud.
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C’è da chiedersi come mai Gezi Park? sia stato l’epicentro di un tale terremoto politico, che nessuno aveva previsto e che nessuno è realmente riuscito a spiegare ex post. Il parco Gezi era stato creato nel 1940 da un architetto francese là dove in precedenza sorgeva una caserma ottomana. La caserma era stata costruita nel 1806 (non era proprio un monumento antico) ed era stata demolita sull’onda della campagna
culturale volta a cancellare il retaggio ottomano. Ora il governo di Erdogan progettava non solo di tagliare una cinquantina di alberi, ma di ricostruire la caserma ottomana facendola diventare un centro commerciale, di costruirvi di fronte una grande moschea, tirare su un enorme complesso residenziale di lusso in un’area abitata da immigrati curdi (questo progetto era stato appaltato a un gruppo immobiliare guidato dal genero di Erdogan), di costruire altri due shopping malls, uno buttando giù uno storico cinema sulla I?stiklal Caddesi, e l’altro costruito su un vecchio ospedale armeno espropriato agli inizi della repubblica turca negli anni Venti del secolo scorso. Il progetto includeva la demolizione del Centro culturale Atatürk e la costruzione al suo posto di un’Opera lirica.
Com’è noto, Atatürk significa «padre dei turchi», ed è il titolo che fu dato a Mustafa Kemal (1881-1938), il generale che nel 1916 sconfisse a Gallipoli il corpo di spedizione anglo-francese e respinse
l’invasione greca (1919-1922), l’eroe nazionale che fondò nel 1923 la repubblica turca. Mustafa Kemal riteneva che il declino, la debolezza e infine la caduta dell’impero ottomano fossero dovuti all’influenza islamica e al retaggio arabo: Atatürk pensava che la potenza degli occidentali dipendesse dalla struttura secolare delle società e degli Stati occidentali. Ecco perché la sua repubblica doveva essere secolare, nazionalista e rinnegare ogni aspetto della cultura araba. Ecco perché abbandonò l’uso dell’alfabeto arabo e al suo posto impose l’alfabeto latino (corredato di alcuni nuovi segni per trascrivere fonemi specifici turchi). Così facendo, rese incomprensibile, letteralmente illeggibile ai turchi il loro passato e la loro eredità culturale, creando una drammatica discontinuità nel tessuto storico della nazione. Nello stesso tempo proibì il velo alle donne e la barba agli uomini (i baffi divennero la divisa maschile nazionale). Plasmò l’esercito turco sul modello militare tedesco e l’amministrazione dello Stato sul modello della burocrazia francese 2.
Si capisce ora meglio il significato politico del progetto urbanistico del governo a piazza Taksim: per Erdogan e per l’Akp, ricostruire la caserma ottomana, erigere una grande moschea e demolire il Centro culturale Atatürk sono tutti elementi funzionali all’obiettivo di sradicare il legato kemalista e sono strumenti di un progetto politico detto «strategia neo-ottomana» 3. Lo scopo di questa strategia è ricreare un potere nell’area un tempo dominata dall’impero ottomano (che comprendeva i Balcani, il Caucaso, tutto il Medio Oriente e l’Africa del Nord), questa volta non più attraverso l’occupazione militare ma con l’influenza economica e l’esercizio del cosiddetto soft power. La caserma a Gezi Park? non è il solo edificio ottomano che il governo vuole ricostruire, o reinventare: come mi diceva Jean-François Perouse, nella sola area centrale della città le autorità stanno ricostruendo, o reinventando, 200
strutture ottomane. Assistiamo a una riscrittura della storia per mezzo di strumenti urbani. Le città non sono state create solo per assolvere alle quattro funzioni fondamentali enumerate da Le Corbusier (abitare, lavorare, circolare, ricrearsi), ma anche per conseguire obiettivi politici. Per esempio, gli israeliani hanno elaborato e messo a punto una vera e propria «architettura dell’occupazione», come dice il sottotitolo di uno straordinario libro (anche da un punto di vista epistemologico) dell’architetto israeliano Eyal Weizman, che in Italia non ha ottenuto il riconoscimento che merita 4.
Se la lotta politica è in primo luogo uno scontro per far trionfare la propria narrazione del passato (e del futuro), a Gezi Park? lo scopo era quello d’imporre la visione splendente di un glorioso passato ottomano e islamico contro la narrazione di una repubblica secolare strettamente turca sconnessa dal suo passato ottomano e dalla sua eredità araba. La città di Istanbul diventa il libro su
cui riscrivere la storia buttando giù monumenti ed erigendone altri. Quando scendi nella stazione della metro di Taksim, e vedi una serie di quattro affreschi in maioliche che descrivono la presa di Costatinopoli da parte di Mehmet II nel 1453, con gli ottomani grandi e imponenti e i cristiani piccoli piccoli 5, non puoi fare a meno di ripensare ai tre pannelli marmorei su via dei Fori imperiali vicino al Colosseo, che descrivono l’espansione dell’antica Roma, con l’area bianca su fondo nero che nel primo pannello è un punticino al centro dell’Italia nel 753 a. C., e che al terzo pannello, otto secoli dopo, abbraccia tutto il Mediterraneo, l’Africa del Nord, il Medio Oriente, l’Europa fino alla linea Reno-Danubio e l’Inghilterra; come Erdogan «vende» al mondo e ai turchi un remake scenografico della Sublime Porta, così Benito Mussolini cercava d’imporre una visione dell’Italia moderna come riaffermata erede dell’antico impero dei Cesari.
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Quindi piazza Taksim non è solo il
centro geografico della megalopoli stambuliota, ma è il luogo in cui convergono le contraddizioni simboliche e materiali del modello di sviluppo turco e della strategia politica dell’Akp. Contraddizioni materiali: l’edilizia è stata ed è il motore trainante della crescita dell’economia turca (questo è il primo dei molti aspetti per cui il boom economico turco del primo decennio Duemila ricorda quello spagnolo degli anni Novanta). Non solo Istanbul, ma tutta la Turchia è un immenso cantiere aperto, l’intera costa egea è devastata dal cemento. Guardando all’inconcepibile rapidità con cui Istanbul è passata da sonnacchiosa e decadente città medio-orientale a immane megalopoli, si può valutare meglio il peso spropositato che il settore edilizio ha avuto in questo modello di sviluppo. Quando la visitai per la prima volta, nel 1972, non c’era nessun ponte sul Bosforo e Istanbul aveva meno abitanti di Roma (che allora sfiorava i 3 milioni di abitanti) 6. Ma poi la popolazione di Istanbul è praticamente raddoppiata ogni 20 anni: è passata da 3 a 7 milioni di abitanti tra il 1970 e il 1990, e da 7 a 14 tra il 1990 e il 2012. Negli ultimi 22 anni Istanbul ha aggiunto altri 7 milioni di abitanti, come se avesse inglobato più che tutta Berlino e tutta Madrid. E ora ha una popolazione maggiore del Belgio e solo un po’ inferiore all’Olanda. La metropoli ormai si estende per 5.300 kmq (a paragone, i cinque boroughs di New York coprono solo 770 kmq). Dal 1980 a oggi, la città ha importato 250 mila nuovi abitanti all’anno, per la stragrande maggioranza impoveriti contadini anatolici. Questi milioni di immigranti arrivavano alla stazione di autobus di Harem in Usküdar, sulla riva asiatica (il primo ponte sul Bosforo fu inaugurato nel 1973), dopo un viaggio in corriera anche di 30 ore, e sbarcavano senza soldi, senza qualifiche, un sacco di parenti e tanta speranza di una vita migliore.
Questi nuovi arrivati dall’Anatolia profonda cominciarono a costruire le proprie capanne o
baracche nel giro di una notte, perché costruire era illegale, da qui il loro nome gezekondu, in cui geze significa «nel giro di una notte» e kondu «insediato». Dalla sera alla mattina intere baraccopoli di più di 10 mila alloggi spuntavano nel nulla, senza infrastrutture, né strade, né elettricità, né acqua corrente, né fogne. Poi col tempo la baracca si dotava di pareti in muratura, poi anche di un tetto e magari un orticello prendeva forma sul retro. In Centroamerica, nello stesso periodo, gli stessi arrivi massicci di immigrati rurali erano chiamati con un nome più crudo ed espressivo: invasiones. Quest’epopea è descritta con grande partecipazione da Doug Saunders nel lungo capitolo che dedica a Istanbul nel suo libro Arrival City 7.
Fino al 1983 questi insediamenti erano a volte tollerati, a volte era concesso un condono parziale, altre volte erano rasi al suolo, ma sempre erano visti con sospetto dalle autorità politiche e dall’esercito. Era tempo di guerra fredda e ogni
sommovimento sociale infondeva il sospetto di un complotto comunista per promuovere la causa dell’Unione Sovietica. I raid contro questi abusivi portarono molti di loro in prigione, soprattutto dopo il colpo di Stato militare del 1980 in cui almeno 200 mila turchi furono arrestati, imprigionati, la maggior parte torturati 8.
Il clima cambiò nel 1983, quando i militari lasciarono che fosse un economista, Turgut Özal, a guidare il governo. Özal non solo concesse un condono plenario e totale, ma nello stesso tempo dette agli abusivi gezekondu la certezza di essere proprietari: garantì la proprietà degli edifici abusivi che avevano costruito e del terreno su cui sorgevano. Ai neoproprietari fu offerta la scelta se vendere la terra a un promotore immobiliare (in cambio avrebbero ottenuto non solo denaro, un piccolo capitale, ma anche un appartamento nei nuovi condomini) oppure costruirsi da soli una sopraelevazione fino a cinque piani e quindi affittare gli alloggi e gli spazi
commerciali così ottenuti.
Con questa legge di Özal, cittadini che erano stati contestatori, persino rivoluzionari, divennero proprietari di case, rentiers, e una nuova piccola borghesia fu creata a Istanbul e nella sua periferia. Gli effetti taumaturgici dell’essere proprietari di case erano noti da tempo negli Stati Uniti, dove vari presidenti avevano cantato i peana di questa nuova categoria sociale, gli home owners. «Una nazione di proprietari di case… è invincibile» aveva detto Franklin Delano Roosevelt, mentre per Calvin Coolidge «nessun contributo più grande può essere dato alla stabilità di una nazione, quanto di farne una nazione di famiglie proprietarie di casa» 9.
E questa nuova borghesia era fatta di devoti contadini musulmani dell’Anatolia profonda. Lo stesso premier Erdogan (59 anni) è di famiglia gezekondu originaria dal Nord-Est dell’Anatolia, vicino Trabzun. Cresciuto in un quartiere gezekondu, vendeva cibo per strada prima di diventare il rappresentante locale
della sua comunità religiosa e poi uno dei leader del partito islamico (il cui nome a quel tempo era Partito del benessere e della prosperità), e nel 1994 fu eletto sindaco di Istanbul, il primo sindaco islamico di una città laica: per la prima volta gli immigrati costituivano la maggioranza assoluta dell’elettorato urbano. I detrattori dicono che anche oggi, quando governa il paese da 11 anni, Erdogan si sente ancora innanzitutto sindaco di Istanbul.
Istanbul è dunque la pietra angolare del progetto neo-ottomano, e non solo perché era la capitale dell’impero e sede della Sublime Porta: per rompere col passato ottomano e per dare un radicamento nazionale alla nuova repubblica, Mustafa Kemal aveva spostato la capitale ad Ankara, nel bel mezzo dell’Anatolia, una città che Erdogan visita assai raramente, mentre vive e lavora a Istanbul nei lussuosi uffici che si è sistemato in un’estensione del palazzo di Dolmbahçe, che fu la residenza ottocentesca dei sultani (altro elemento simbolico
per dare del premier l’immagine di nuovo sultano).
Per Erdogan e per l’Akp, Istanbul deve essere non solo una «città globale» (nel senso di Saskia Sassen), ma diventare il centro del continente eurasatico. «L’Akp nutre grandi progetti per Istanbul, destinata a essere l’espressione più sensazionale di una potenza e una vitalità turche infine ritrovate, una vetrina sfavillante che attiri turisti danarosi e investitori, una vetrina che ricordi il passato grandioso della Turchia e magnifichi in particolare l’era ottomana come fondamento delle ambizioni contemporanee» 10.
A questo scopo i lavori pubblici si moltiplicano sempre più faraonici. Mentre questo testo va in stampa, sta per essere inaugurato (il 29 ottobre) un tunnel ferroviario sotto il Bosforo (finanziato e in parte costruito dal Giappone) che permetterà di terminare la linea ferroviaria a grande velocità Ankara-Istanbul che metterà le due città a sole tre ore di distanza; mentre è in costruzione un altro tunnel (finanziato
dalla Corea del Sud) per autoveicoli da inaugurare nel 2015. Il 30 marzo Erdogan ha posto la prima pietra per il ponte sospeso sulla baia di I?zmit da ultimare nel 2017, che evitando l’aggiramento del golfo renderà possibile l’autostrada che collegherà Istanbul alla metropoli egea di I?zmir (3,5 milioni di abitanti).
E proprio il 29 maggio, l’indomani della prima manifestazione a Gezi Park?, Erdogan aveva posto la prima pietra di un terzo ponte sul Bosforo (il secondo ponte, inaugurato nel 1988, si chiama Fatih Sultan Mehmet, dal nome del conquistatore di Costantinopoli nel 1453). A sottolineare la connotazione ideologica di ogni minimo gesto del governo Akp, questo terzo ponte sospeso dalle dimensioni gigantesche (i suoi due piloni sono alti 320 metri, a sostenere otto corsie automobilistiche e due ferroviarie, per una larghezza totale di 59 metri), sarà chiamato Yavuz Sultan Selim, dal nome del sultano Selim I (1465-1520) che nel 1514 ordinò il massacro di 40 mila aleviti
anatolici 11. Questo terzo ponte sarà l’elemento chiave di un’autostrada di 200 km che darà luogo a nuovi insediamenti urbani e che suscita le proteste ambientaliste perché raderà al suolo più di 40 milioni di alberi e metterà in pericolo le riserve idriche che alimentano la megalopoli stambuliota. Con questo terzo ponte, Istanbul avrà tre raccordi anulari (o tangenziali) concentrici.
Ma già ora, se guidi su uno dei due raccordi eternamente congestionati, hai tutto il tempo di vedere migliaia di lavoratori che si affannano a piantare aiuole di fiori sulle spalle e sui pendii di bordo. Le aiuole che piantano sono variopinte e ricamano sulla terra disegni molto elaborati, profili di uccelli in volo, animali, orologi. Come prima reazione pensi che in questo modo il comune di Istanbul contribuisca a riassorbire la disoccupazione, una forma di keynesismo floreale. E certo questo è un primo obiettivo. Poi pensi che la decorazione floreale voglia contribuire alla vocazione turistica della
città. E poi che sia un modo per l’Akp di pacificare gli ambientalisti, con cui Erdogan ha un pessimo rapporto. A settembre, ai dimostranti che contestavano l’abbattimento di un bosco vicino ad Ankara, ha detto dal podio: «Se volete vi possiamo mandare nella foresta. Andate e vivete nella foresta» 12. Insomma, forse è ambientalismo alla Erdogan: tagliare alberi e piantare fiori.
Ma la storia umana è come una cipolla, a sbucciarla si coglie sempre un nuovo strato di significati. Verso il 1720 l’impero ottomano fu percorso da una prima ondata di occidentalizzazione nel cui ambito si sviluppò tra i ricchi una vera e propria passione per i tulipani, tanto che quel periodo fu chiamato l’«era dei tulipani». I kemalisti hanno sempre attaccato l’importazione di costosissimi bulbi come il segno della degenerazione del sultanato e del carattere imbelle di una classe dirigente ottomana frivola e spendacciona. I tulipani erano visti dal popolo come un’ostentazione di sfarzo e divennero fonte
d’indignazione, tanto che scoppiò una rivolta guidata da un ex giannizzero, un commerciante di vestiti usati di nome Patrona Halil: palazzi furono saccheggiati, nobili uccisi. Alla fine il sultano represse la rivolta, sterminò 7 mila giannizzeri e uccise Patrona Halil. Perciò quando Erdogan oggi ordina di piantare fiori a tutto spiano, lo fa in polemica con l’ideologia kemalista, e insieme segnala la volontà politica di rendere l’ostentazione di benessere accessibile a tutti, rompendo il monopolio della vecchia borghesia. Così l’Akp si assicura che non ci saranno Patrona Halil nell’era dei tulipani repubblicana 13.
In questa riscrittura ottomana di Istanbul non poteva mancare la rivisitazione moderna e capitalista del Gran Bazar. Di fatto Istanbul è già oggi la capitale mondiale degli shopping malls. Nel 2009 c’erano già più di 100 megacentri commerciali e altri 30 erano in costruzione 14. Tra essi il Mall of Istanbul che sarà più grande del Mall of America di Minneapolis o del Mall
di Dubai: lo shopping mall nella ricostruita caserma ottomana di piazza Taksim diventa quindi solo un ulteriore esempio di una strategia più ampia, di una visione urbana globale, di un modello di sviluppo. Anzi: di un’idea di società che innesta l’osservanza religiosa su un liberismo estremo. L’Akp si vuole in religione un partito confessionale musulmano, ma in economia ortodosso seguace dei dettami di Milton Friedman e dei Chicago Boys, fautore di un «islamismo consumista», di un mix di Corano e shopping malls, di Allah e neoliberismo, che può essere sintetizzato nella formula «pregate e comprate».
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L’Akp si vuole dunque portatore di un islam «moderno», i cui padri spirituali sono Bediüzzaman (che vuol dire «miracolo dell’epoca») Said Nursi e Fethullah Gülen. L’intento anti-kemalista dell’Akp è onnipresente, anche nella pompa magna con cui si è tenuto a settembre il decimo congresso internazionale sulla visione islamica di Nursi, con la partecipazione di 396 accademici di 40
paesi. Nursi (1878-1960) propugnava un islam moderno, con l’insegnamento di materie scientifiche nelle scuole religiose, e all’inizio Atatürk gli offrì il ministero dell’Istruzione nella neonata repubblica; con l’inasprirsi del laicismo fu costretto all’esilio e passò decenni in prigione. L’altra figura chiave dell’«islamismo consumista», come lo chiama Jenny White, è Fethullah Gülen (nato nel 1941), in gioventù discepolo di Nursi, emigrato negli Usa nel 1999 (per prevenire l’arresto da parte della giunta militare allora al potere) e da allora residente in Pennsylvania. Gülen rappresenta la componente per così dire filoamericana dell’islamismo attuale, fautore di un dialogo tra le religioni del Libro, di un’emancipazione della donna (il suo modernismo lo spinge ad affermare che «lo stile astratto di Picasso è in stretta congruenza con la concezione islamica dell’arte» 15). Il movimento di Gülen ha aperto più di mille scuole in Turchia e nelle repubbliche ex sovietiche, e altre nei Balcani, in Europa occidentale e negli Usa. Il presidente russo Vladimir Putin, che di spie se ne intende, ha chiuso tutte le scuole Gülen in Russia accusandole di essere sul libro paga della Cia. Quasi sconosciuto in Europa, Gülen è estremamente popolare nel mondo islamico, dall’Indonesia al Marocco ed è stato persino considerato l’intellettuale più influente del mondo 16. In Turchia è particolarmente influente sulla magistratura, sui servizi segreti e sulla polizia (la vox populi afferma insistente che l’80 per cento dei poliziotti sia gülenista).
Più in generale, l’islamismo consumista e neoliberista costituisce il credo sociale di quella che viene chiamata la «borghesia anatolica», costituita da vari gruppi sociali: gli ex gezekondu riconvertiti in rentiers o piccoli capitalisti, i palazzinari che del boom edilizio hanno usato e abusato 17, gli operatori (albergatori, ristoratori, agenzie) che hanno vissuto sul boom turistico (l’altra gamba, oltre l’edilizia, su cui poggia il
miracolo economico turco: altro elemento di somiglianza con la Spagna degli anni Novanta), i padroncini anatolici di fabbriche a basso tenore tecnologico (l’equivalente anatolico della base leghista nel Nord-Est italiano), insomma tutti coloro che i turchi chiamano i kös¸ey dönmek («quelli che hanno svoltato»). È questa la classe di riferimento dell’Akp, la classe che il partito favorisce in tutti i modi, di cui accompagna l’espansione e la crescita di potere. Una classe il cui stile di vita è americanizzato tanto che la sua way of life non è molto diversa da quella di un texano di Dallas o della Bible belt degli Usa, con la sola differenza che nei suburbi di Istanbul si sta strutturando una Koran belt. E infatti, come in Texas, qui fioriscono le «città private», le gated communities (a forma di grattacieli dotati di tutti i servizi e ipersorvegliati, o di villette circondate da alti muri e protette da armate di vigilantes). Nel 2009 si contavano a Istanbul già ben 141 gated communities 18. Al riparo dei fili spinati e delle telecamere di sorveglianza, ogni comunità può darsi liberamente alla propria religiosità o laicità, nuotare nella piscina privata nuda o in vestiti/pinguino. Oppure praticare discretamente una poligamia che la costituzione kemalista aveva abolito e che ora l’Akp non ha ancora la forza per restaurare ufficialmente. D’altronde, come mi diceva l’economista Ahmet Insel, Istanbul usufruisce della rendita petrolifera degli emirati del Golfo e dell’Arabia Saudita. Istanbul è diventata la città dove i ricchi petrolieri arabi vengono a «vivere» e a divertirsi. O per dirla più crudamente con Jean-François Perouse, «Istanbul ha soppiantato Beirut come garçonnière del mondo arabo».
Ma l’ambizione per Istanbul è ben più grande. L’obiettivo è fare di Istanbul una metropoli globale, renderla la capitale finanziaria di tutto il mondo ex ottomano, la Londra dell’islam, dall’Asia centrale alle coste africane dell’Atlantico, ponte finanziario tra
Francoforte e Dubai. L’orizzonte di questo progetto è a lunghissimo termine e si fissa grandi scadenze. Una erano le Olimpiadi del 2020 (ma Istanbul è stata sconfitta da Tokyo e sulla sconfitta hanno pesato sia la dura repressione delle manifestazioni per Gezi Park?, sia l’investimento faraonico proposto dal governo turco: ben 19 miliardi di dollari – le Olimpiadi di Londra ne sono costate 12 e i giapponesi si propongono di spenderne 4). Un secondo appuntamento è fissato per il 2023, il centenario della nascita della repubblica turca. Ma un terzo appuntamento è ancora più remoto, ed è già fissato per il 2071, per celebrare i mille anni della penetrazione turca in Anatolia (battaglia di Malazgirt vinta dai selgiuchidi contro i bizantini).
L’intenzione è chiara, ed Erdogan la riafferma senza sosta: riportare Istanbul ai fasti del sultanato, farne la capitale del mondo. O almeno del continente eurasiatico. Per avere un’idea della grandiosità dei progetti di Erdogan, il terzo aeroporto
di Istanbul, ora in costruzione, costerà 22 miliardi di euro (più 4,5 miliardi dell’equivalente dell’Iva) e sarà così grande che impiegherà 150 mila lavoratori e potranno transitarvi 150 milioni di passeggeri (i due aeroporti attuali di Istanbul hanno una capienza combinata di 60 milioni di passeggeri). Così il numero totale di passeggeri sarebbe di 210 milioni l’anno: a paragone, nei cinque aeroporti di New York (Kennedy, Newark, La Guardia, Stewart, Teterboro) nel 2011 sono transitati 109,4 milioni di passeggeri 19. Insomma, la visione di Erdogan è che Istanbul sarà due volte più grande di New York.
Ma il più impressionante megaprogetto, ancora alla fase di studio, è quello di un canale artificiale (Kanal I?stanbul) lungo 48 km, largo 150 metri, profondo 25, che colleghi Mar di Marmara e Mar Nero offrendo un’alternativa al Bosforo per la navigazione anche di superpetroliere, portacontainer di ultima generazione e sommergibili. Anche qui: la ragione addotta è che il Bosforo è ormai
supertrafficato e inquinato. La ragione geopolitica è invece che, in base alla convenzione di Montreux (1936), la Turchia ha l’obbligo di garantire la libera navigazione sul Bosforo a tutte le imbarcazioni straniere (può restringere la navigazione soltanto a navi da guerra e soltanto a quelle che non battono bandiera di Stati che si affacciano sul Mar Nero). Imponendo invece la navigazione su I?stanbul, la Turchia riprenderebbe il controllo di questa via d’acqua strategica.
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Si è sempre incerti, di fronte a visioni così grandiose, se stigmatizzarne la megalomania o lodarne l’audacia. Il tempo s’incarica della scelta (e di solito fa pendere la bilancia sulla prima opzione). Certo è che per dieci anni questo modello di sviluppo e di città ha garantito a Erdogan e all’Akp un consenso incrollabile. La crescita economica, la stabilità politica: noi, nella nostra rattrappita Italia, non ci rendiamo conto di quanto il fornire nuove infrastrutture possa moltiplicare il consenso. Nuove
metropolitane, treni più veloci, autostrade, reti elettriche.
Ma anche il ridimensionamento prima e lo smantellamento poi dello strapotere militare, di quell’esercito che per ottant’anni aveva governato e che nel secondo dopoguerra aveva operato ben cinque colpi di Stato (di cui l’ultimo nel 1997 è stato definito dalla storiografia «golpe postmoderno» perché attuato inviando un fax alle televisioni, senza nemmeno far intervenire i soldati, con la sola minaccia). Un esercito che aveva imprigionato e torturato centinaia di migliaia di concittadini, ne aveva ucciso decine di migliaia, aveva condotto una ventennale guerra senza quartiere contro i curdi. L’azione di Erdogan contro i militari va dalle iniziative più eclatanti, come l’arresto di centinaia di generali e alti ufficiali per un presunto tentativo di colpo di Stato (magari non vero ma certo credibile, visti i precedenti), a un logoramento ai fianchi con mezzi più sottili, uno dei quali ha ancora una volta una dimensione
urbanistica. Il governo Akp ha dato all’amministrazione per l’alloggio collettivo (l’equivalente turco del nostro Istituto per le case popolari, in turco Toki) la facoltà di espropriare i terreni demaniali e venderli o cederli ai costruttori a suo piacimento (aprendo così la via a un favoloso giro di corruzione). Ma nascosto nelle pieghe di questa iniziativa c’è il particolare che la maggior parte dei terreni espropriati (e più pregiati) appartenevano alle forze armate, e quindi gli espropri limano assai l’enorme potenza economica dei militari turchi (comparabile a quella dell’esercito egiziano e di quello pakistano). Questa potenza economica si esercita soprattutto attraverso il fondo assistenza e pensione dei militari, Oyak, costituito nel 1961 e che ha finito per controllare un enorme conglomerato di imprese: nel suo rapporto del 2011 afferma di avere 29 mila dipendenti, ricavi per 19 miliardi di dollari (al cambio di allora) e assets per 21 miliardi (tra l’altro Oyak controlla il 50 per cento della Renault turca, la più grande industria automobilistica del paese). Ora il governo Akp ha espanso il fondo pensioni della polizia (340 mila agenti) e della gendarmeria (205 mila agenti): sul modello francese, la Turchia ha due corpi, uno di polizia e l’altro di gendarmeria, come l’Italia ha polizia e carabinieri. A confronto le tre armi militari dispongono di circa 500 mila uomini. Alla fine del 2012 un generale in pensione ex presidente dell’Oyak è stato arrestato nel quadro del processo per tentato colpo di Stato.
Già solo il ridimensionamento dei militari assicurava una duratura gratitudine per l’islamico Akp da parte di tutti i turchi, compresi quelli liberal e di sinistra e anche laicisti. Il consenso era favorito anche dal lentissimo disgelo curdo: fino a pochi anni fa bastava pronunciare la parola «curdo» per rischiare la prigione (in compenso vige ancora il reato di «lesa turchità»). Anche i più scettici erano accattivati dalla cautela con cui passo dopo
passo Erdogan smantellava il kemalismo e reintroduceva elementi islamici. Ferveva il dibattito sul cosiddetto disegno nascosto (hidden agenda). L’Akp si definiva un partito confessionale moderato e conservatore, paragonandosi alla Cdu tedesca o alla Dc italiana (non è perché compare il termine «cristiano» nel loro nome che sono partiti religiosi). I kemalisti sospettavano che invece Erdogan avesse un disegno a lungo termine ben più ambizioso e che la sua prudenza fosse solo tattica, dovuta proprio alle scadenze epocali che egli affida al suo programma (ricordiamo il 2071!).
La stessa prudenza nei primi anni la esercitavano anche in ambito internazionale Erdogan e il suo ministro degli Esteri Ahmet Davutog?lu, considerato l’artefice della strategia neo-ottomana (anche se lui ha rifiutato la definizione). Il criterio dichiarato era condurre una politica «zero nemici», mediando con tutti i vicini e cercando di ritagliarsi uno spazio di manovra diplomatica all’interno della Nato per
intessere relazioni privilegiate con le repubbliche ex sovietiche fino all’Asia centrale (i turchi Oghuz vivevano in origine intorno al Mar Caspio e al lago Aral), con i paesi dei Balcani e con tutti gli Stati del Medio Oriente (per esempio la Turchia è l’unico paese per cui gli iraniani non hanno bisogno di visto).
È evidente che questo nuovo protagonismo diplomatico non sarebbe stato possibile senza la fine della guerra fredda. Proprio come l’esplosione di Istanbul è dovuta in buona parte al crollo dell’Unione Sovietica: fino al 1991 Istanbul era geopoliticamente in un vicolo cieco, un po’ come una grande Trieste, addossata alla cortina di ferro che ne paralizzava le velleità economiche e commerciali. Solo dopo il 1991 Istanbul acquista un hinterland internazionale.
Lo stesso avviene per la Turchia in generale. L’Urss era stata uno dei prodotti della prima guerra mondiale che aveva visto il crollo di tre grandi imperi multinazionali, multietnici e poliglotti che avevano
garantito per secoli la convivenza a popolazioni diverse, cioè gli imperi austroungarico, ottomano e russo. I russi erano riusciti a mantenere l’integrità territoriale del loro ex impero grazie a una sanguinosa guerra civile, ma al disgregarsi dell’impero asburgico e di quello ottomano era state date soluzioni nazionali: in Europa la Cecoslovacchia, l’Ungheria e la Yugoslavia nel 1918; in Medio Oriente il patto franco-inglese (gli accordi Sykes-Picot del 1916, dal nome dei due funzionari che lo siglarono) che definiva le zone d’influenza e avrebbe dato vita, dopo il ritiro delle forze delle due potenze tra il 1941 e il 1945, a Siria, Giordania, Iraq, Libano.
Ora la fine della guerra fredda segnò non solo il crollo dell’Urss, ma il disfarsi di tutto l’assetto «nazionalista» messo su dopo la fine della prima guerra mondiale. Vediamo la crisi di Libano, Siria e Iraq da un lato e di Cecoslovacchia e Yugoslavia dall’altro. E mentre la Turchia perseguiva un disegno neo-ottomano, nella
Mitteleuropa si creava uno spazio socioeconomico unitario formato da Austria, Slovenia, Croazia, Ungheria, Cechia che riproduceva sul terreno sociale la realtà politica asburgica.
In politica internazionale il neo-ottomanesimo va inteso in senso più letterale di quel che si possa pensare, se vogliamo credere alle parole che Davutog?lu pronunciava nel 2011 a Sarajevo per la festa di Aid, che celebra la fine del Ramadan: «Noi siamo stati qui, siamo qui e saremo sempre qui! Nelle nostre tradizioni noi celebriamo l’Aid a casa. È quel che faccio ora. Celebro l’Aid con la mia famiglia a Sarajevo. La Bosnia è la nostra casa e i bosniaci sono i membri della nostra famiglia» 20.
Insistere sul retaggio arabo e sull’identità islamica presenta dunque un vantaggio diplomatico in tutto il Medio Oriente, nell’Asia centrale, nei Balcani. In base al principio degli «zero nemici», la Turchia cercava di mantenersi il più equidistante possibile. Fin dal secondo dopoguerra fedelissima alleata degli
americani e disciplinato membro della Nato, nel 2003 la Turchia vietava agli Usa il sorvolo del proprio spazio aereo per rifornire il loro corpo di spedizione in Iraq. Unico Stato islamico del Medio Oriente ad aver avuto ottimi rapporti con Israele (con cui allestiva anche manovre militari congiunte), nel maggio del 2010 la Turchia inviava al largo della Striscia di Gaza una flottiglia della libertà, attaccata dagli israeliani: nell’attacco morirono 9 attivisti, decine i feriti.
Nello stesso tempo la Turchia cercava di esercitare con maestria il soft power. Uno strumento sono state le scuole di Gülen nelle repubbliche turcofone ex sovietiche. Un altro sono stati i serial tv rivelatisi l’arma più potente per espandere l’influenza turca nelle terre degli ex domini ottomani. Trasmesse in arabo, soap operas come Amore proibito (Ask-i Memnu) hanno conosciuto uno straordinario successo soprattutto da quando nel 2007 sono state doppiate in dialetto siriano e non più in arabo classico
(sembra un’ironia della sorte questo ruolo della Siria nell’espansionismo culturale turco): nel 2008 l’episodio finale di Argento (Gumus) fu visto da 85 milioni di spettatori arabi. Anche qui il disegno politico neo-ottomano è palese: non a caso una delle fiction più vendute è quella su Solimano il Magnifico, intitolata Magnifico secolo (Muhtesem Yuzyil) che alla sua quarta stagione è stata venduta in 47 paesi per 130 milioni di dollari. Tra l’altro il Solimano televisivo ha una strana somiglianza con Erdogan e i cristiani, a partire dal papa, sono molto infidi quando non sciocchi (la serie è trasmessa con sottotitoli italiani su Babel in Sky tv).
Infine, le primavere arabe sembravano aver segnato l’apice del successo per l’Akp: in Tunisia e in Egitto erano saliti al potere due partiti islamici, assai simili alla formazione turca, Ennahda a Tunisi e i Fratelli musulmani al Cairo, generosamente finanziati dall’emiro del Qatar e sostenuti dalla sua rete televisiva Al Jazeera. Malgrado
le diffidenze statunitensi e saudite, si creava così un potente asse religioso-finanziario-mediatico. Non per nulla il governo dei Fratelli musulmani egiziani era stato sostenuto dal Qatar con 6 miliardi di dollari e dalla Turchia con 2 21.
Insomma: fino a maggio di quest’anno tutto andava a gonfie vele per Erdogan e l’Akp, tanto da garantirgli nel 2011 una terza consecutiva stracciante vittoria elettorale. Non dimentichiamo che le ultime faraoniche opere pubbliche sono state lanciate proprio all’indomani della prima manifestazione a Gezi Park?. Come dice Seyla Benhabib, professoressa di scienze politiche e filosofia a Yale, «l’Akp è uno dei partiti che hanno avuto più successo in tutta la storia turca» 22.
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Ma a maggio il vento è cambiato sia all’interno che all’esterno. All’interno, le manifestazioni e la loro conseguente repressione hanno mostrato il volto più autoritario, più arcigno del regime di Erdogan. Nel frattempo hanno mostrato che il paese è cambiato e non è più
quello che l’Akp aveva preso in mano nel 2002: in un certo senso le proteste turche sono un altro esempio di quelle «conseguenze non volute» che sembrano governare la storia umana. Come scrive l’autorevole sociologo ed economista Çag?lar Keyder, «il governo Erdogan aveva stanziato più denaro per l’istruzione. Adesso la Turchia ha quattro milioni di studenti universitari e 2,5 milioni di nuovi laureati sono entrati nel mercato del lavoro dal 2008 a oggi. Queste cifre preannunciano una nuova classe media in formazione, i cui membri lavorano in posti di lavoro relativamente moderni, con tempo libero e abitudini di consumo molto più simili alle loro controparti globali. Ma cercano anche nuove garanzie per il loro stile di vita, per i loro diritti alla città, e se la prendono per le violazioni del loro spazio personale e sociale» 23.
Non solo, ma queste proteste hanno anche esposto alla luce del sole le contraddizioni interne al partito islamico. L’ala più filo-Gülen, cui fa capo l’altro
cofondatore del partito e attuale presidente della Repubblica, Abdullah Gül, aveva già da tempo manifestato le proprie divergenze con il premier Erdogan (ad esempio sul raffreddamento con Israele), ma si è nettamente smarcata quando ha condannato la repressione: Gül ha condannato la politica di polarizzazione come una minaccia alla democrazia. Non solo: il movimento di Gezi Park? ha rivelato la guerra senza quartiere tra Erdogan e la famiglia Koç, la più potente famiglia capitalista di Istanbul, con un fatturato da 70 miliardi di dollari, capofila della borghesia laica (cui l’Akp già aveva negato una serie di appalti). Un grande albergo della famiglia, il Divan, vicino a piazza Taksim, ha dato riparo ai manifestanti inseguiti dalla polizia. Erdogan ha parlato di «complotto del grande capitale internazionale» e in luglio ha ordinato ispezioni fiscali nelle raffinerie dei Koç che hanno replicato: «Noi contribuiamo per il 10 per cento al pil turco».
Le proteste hanno indebolito la lira
turca, che ha preso una botta ulteriore dalle dichiarazioni del presidente della Federal Reserve statunitense Ben Bernanke, intenzionato a ridurre la politica di quantitative easing, cioè a imbrigliare il fiume di liquidità (circa mille miliardi di dollari l’anno) che dal 2008 la Fed riversa ogni anno sugli Usa e quindi sul mondo. Sono migliaia di miliardi di dollari che cercano dove atterrare, cercano cioè investimenti redditizi che non trovano nelle economie sviluppate, vista la crisi che attanaglia l’Europa: e che quindi possono far confluire solo in speculazioni di Borsa (fusioni e Opa) e in investimenti nelle economie «emergenti», paesi Bric (definizione in origine riferita ai soli Brasile, Russia, India, Cina, ma poi estesa a Turchia, Messico, Indonesia, Corea del Sud). Perciò ogni stretta sulla politica di quantitative easing chiuderebbe i rubinetti dei finanziamenti che scorrono verso le economie emergenti. (In seguito Bernanke è tornato sui suoi passi, ma il male era fatto, e comunque un giorno o l’altro questa politica dovrà avere termine se non si vuole ridurre tutto il capitale mondiale a carta straccia priva di valore).
Nel frattempo la crescita economica ha dato segni di affanno: un paese in cui secondo l’economista Fikret Adaman più del 40 per cento dell’economia è sommerso e sfugge alla tassazione 24, e che pratica una politica di faraonici lavori pubblici eppure sostiene di avere un bilancio in attivo, deve per forza praticare «contabilità creativa» e nascondere i deficit nelle pieghe degli enti locali o delle banche private: è un altro aspetto in cui il boom turco del Duemila ricorda molto quello spagnolo degli anni Novanta (oltre all’incredibile bolla immobiliare nei due paesi e alla dipendenza dal turismo). Se Erdogan ha trovato il modo di completare mastodontici lavori pubblici a costo zero, deve rivelare al mondo questa ricetta miracolosa o almeno venderla e pretenderne le royalties. Il tutto in un paese gravato da una corruzione endemica
che ha poco da invidiare all’Italia e che ovviamente aggrava i conti pubblici. A luglio la Banca centrale turca ha dovuto alzare i tassi d’interesse (e quindi rallentare la crescita) per difendere la lira. A ottobre la stessa Banca mondiale ha dovuto rivedere al ribasso le stime di crescita.
Il problema è che l’espansione turca si è fatta grazie a un sistematico deficit della bilancia dei pagamenti: tra il 2005 e il 2012, secondo la Banca mondiale, Ankara ha accumulato un buco di 311 miliardi di dollari coperti con prestiti internazionali sempre più a breve termine, e nei soli primi sette mesi di quest’anno il deficit è stato di 42,1 miliardi di dollari (più del 5 per cento del pil turco). Il futuro turco, come quello di Brasile e India, è quindi essenzialmente in mano ai suoi creditori internazionali e al loro ben volere. Gli stessi promotori immobiliari sono appesi alle grazie dei loro banchieri. Fino a maggio le istituzioni finanziarie di Arabia Saudita e Usa avevano guardato con
estrema benevolenza al mix di Corano e neoliberismo propugnato dall’Akp.
Ma ora il contesto internazionale è cambiato e i creditori stranieri possono non essere così ben disposti. In un misterioso e finora inesplicato golpe interno, l’emiro del Qatar ha dovuto cedere il potere al figlio. E poi in Egitto è intervenuto l’esercito. E subito dopo quel golpe, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait hanno regalato al nuovo regime del Cairo ben 12 miliardi di dollari (molto di più di quanto Turchia e Qatar avessero elargito a Mursi in due anni), tanto per chiarire da che parte stavano le loro simpatie. Il nuovo emiro del Qatar ha fatto buon viso a cattivo gioco e così Erdogan si è trovato del tutto isolato.
Ancora una volta l’indizio più significativo ci viene dalla tv: il Financial Times del 9 agosto riferiva che il governo militare appena insediato al Cairo aveva bloccato la trasmissione di soap operas turche già comprate dalle tv egiziane. L’annunciata visita di Erdogan nella
Striscia di Gaza governata da Hamas, passando per l’Egitto, è stata aggiornata sine die dai generali egiziani. Anche qui il presidente Gül non ha mancato di smarcarsi chiedendo che la Turchia riannodi le relazioni con l’Egitto anche sotto governo militare. Erdogan è così non solo isolato sullo scacchiere medio-orientale (e soprattutto sul fronte della guerra civile siriana in cui si è impelagato con molta foga e altrettanta imprudenza), ma naviga in rotta di collisione con i sauditi (e i loro petrodollari). E, ancor più importante, con gli Stati Uniti (e le loro megabanche globali). Dalla politica «zero nemici» è passato alla situazione «zero amici».
In definitiva il disegno neo-ottomano si rivela sempre più utopico. Nel frattempo ci illumina e ci interroga sui rapporti tra laicità e partiti confessionali, su democrazia e minoranze, su islam e neoliberismo capitalista, su fascismo e riscrittura della storia, su opere pubbliche e consenso.
Ma ad allontanarsi davvero è quel che da
sempre è il segreto sogno di Erdogan: soppiantare Mustafa Kemal e diventare lui il vero nuovo Atatürk («padre dei turchi»). Come mi diceva Çag?lar Keyder nel bellissimo campus della Bog?aziçi Üniversitesi: «La Turchia di padri ne ha avuti fin troppi». Marco d’Eramo, da MicroMega 7/2013
NOTE
1 Jean François Perouse dirige l’Institut français d’études anatoliennes e l’Osservatorio urbano di Istanbul. La frase è tratta dall’incipit del suo saggio «Hyperistanbul. Les grands projets d’aménagement urbain en Turquie», apparso il 24 settembre 2013 sulla rivista online la vie des idées (www.laviedesidees.fr/Hyperistanbul.html).
2 Sul kemalismo e le sue riforme, è molto chiaro il primo capitolo del libro di L. Nocera, La Turchia contemporanea: dalla repubblica kemalista al governo dell’Akp, Carocci, Roma 2013, che costituisce un’utile introduzione alla politica turca attuale.
3 Per l’uso del termine «neo-ottomano», vedi il
cap. XIII del libro di G. Kepel, Passion arabe. Journal, 2011-2013, Gallimard, Paris 2013, in particolare «La Turquie, nouveau califat sunnite», pp. 395-401.
4 E. Weizman, Hollow Land: Israel’s Architecture of Occupation, Verso, London 2007. Cito il titolo inglese perché nella traduzione italiana è stato edulcorato: Architettura dell’occupazione: spazio politico e controllo territoriale in Palestina e in Israele, Bruno Mondadori, Milano 2009.
5 Questo polittico me l’ha fatto notare l’antropologa della Boston University, J. White, autrice di Muslim Nationalism and the New Turks, Princeton University Press, Princeton 2012.
6 Per un rapido sorvolo sulla storia recente di Istanbul, vedi il capitolo scritto da Ç. Keyder per la Cambridge History of Turkey, vol. IV, Turkey in the Modern World, «A Brief History of Modern Istanbul», Cambridge 2008, pp. 504-523.
7 D. Saunders, Arrival City: How the Largest Migration in History Is Reshaping Our World, Vintage Books, New York 2011,
cap. 6. «The Death and Life of a Great Arrival City: Istanbul», pp. 161-196.
8 Una testimonianza di prima mano sulla vita delle famiglie degli arrestati ce la dà K. Öktem nel suo bel libro Angry Nation. Turkey since 1989, Zed Books, London 2011.
9 Sulle virtù salvifiche della proprietà immobiliare ho scritto più a lungo nel capitolo «La fede smuove anche le banche» del mio Il maiale e il grattacielo. Chicago: una storia del nostro futuro (1995), Feltrinelli, Milano 2009, pp. 133-145.
10 J.-F. Perouse, «Hyperistanbul», cit.
11 I circa 10 milioni di aleviti sono una setta sciita anatolica a lungo perseguitata, prima perché sciita e poi perché celebra i suoi riti in curdo, altra minoranza discriminata. Gli aleviti, da non confondere con gli alauiti siriani (altra setta sciita), sono circa il 15% della popolazione turca. Se poi una persona è insieme alevita e curda, è doppiamente discriminata.
12 «Erdogan tells environmental activists to go live in forest», Today’s Zaman,
19/9/2013.
13 C. Tug?al, «The greening of Istanbul», New Left Review, n. 51, maggio-giugno 2008, (pp. 65-80) pp. 76-77.
14 Vedi le straordinarie carte di Mapping Istanbul, Garanti Galery, Istanbul 2009, pp. 183-185 (Garanti è una delle più grandi banche turche, assai vicina all’Akp).
15 www.fethullah-gulen.org/biography.html. Su Gülen il catalogo delle biblioteche dell’Università di California fornisce 169 titoli, tra libri e articoli di riviste.
16 J. Schuessler «Who Is the World’s Greatest Intellectual?», The New York Times, 10/7/2008.
17 Colpiscono come un pugno allo stomaco le immagini dell’indicibile, metafisico squallore delle nuove speculazioni edilizie di Istanbul nel film Ekumenopolis (2012) del regista Imre Azem, scaricabile da YouTube con sottotitoli inglesi: www.youtube.com/watch?v=maEcPKBXV0M.
18 Cifre dedotte dalle carte in Mapping
Istanbul, cit., pp. 156-159.
19 2012 Airport Traffic Report, The Port Authority of NY & NJ, www.panynj.­gov/­airports/pdf-traffic/ATR2012.pdf.
20 G. Kepel, Passion arabe, cit., p.398.
21 Il ruolo turco nelle primavere arabe è raccontato bene da C. Tug?al in «Democratic Janissaries. Turkey’s Role in the Arab Spring», New Left Review n. 76, luglio-agosto 2012, pp. 5-24.
22 In un’intervista del 9 settembre al magazine Dissent online, www.dissentmagazine.org/online_articles/the-gezi-park-protests-and-the-future-of-turkish-politics-an-interview-with-seyla-benhabib.
23 Nel suo blog «The Law of the Father» del 19 giugno sulla London Review of Books, href="http://www.lrb.co.uk/blog/2013/06/19/caglar-keyder/law-of-the-father">www.lrb.co.uk/blog/2013/06/19/caglar-keyder/law-of-the-father.
24 F. Adaman, A. Çarkog?lu, «Determinants of Tax Evasion by Households: Evidence from Turkey» relazione presentata al convegno «Seminar on Democracy and Democratization in Turkey» tenutosi a Madrid dal 21 al 23 novembre 2008.