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Enrico Letta prepara le larghe intese in salsa europea
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Il 2014 è l’anno dell’Europa», ha ripetuto in tutte le occasioni, in pubblico e in privato, un atto di fede e al tempo stesso un gaudium magnum per lui che fin da piccolo è il più europeista dei politici italiani, che ai consigli di Bruxelles si diverte e si destreggia come mai si vede fare nell’aula di Montecitorio, che lavora per identificare il suo futuro con quello dell’Europa. Il 2014 sarà l’anno del vecchio continente, le elezioni per il nuovo Parlamento di Strasburgo del 25 maggio e poi lo straordinario risiko di poltrone, a partire dalla presidenza e dagli altri membri della Commissione che per cinque anni ridefiniranno la mappa degli equilibri di potere tra Stati, governi e Bruxelles. Per Letta c’è il semestre italiano di presidenza europea che coincide con i mesi in cui ogni governo nazionale proverà a misurare i suoi rapporti di forza per imporre agli altri i nomi e le deleghe più pesanti nella Commissione. «Vedrete, in quell’occasione conoscerete il vero volto di Enrico: un uomo di Stato, lo Stato europeo che è il suo sogno», garantisce Francesco Sanna, ben più che un semplice deputato lettiano, l’amico più fidato, il consigliere più ascoltato, la sentinella di Palazzo Chigi nei corridoi parlamentari. Un appuntamento cui il premier italiano arriva preparato. A Bruxelles gli uomini di Palazzo Chigi stanno lavorando da tempo. Per garantire la buona riuscita del semestre, ma anche in vista di un possibile incarico di Letta. Le grandi manovre sono cominciate con la bordata lettiana contro la possibile candidatura alla presidenza della Commissione del finlandese Olli Rehn, attuale commissario per gli Affari economici e monetari, il cane da guardia del rigore che ha approvato o bocciato negli ultimi anni le leggi di bilancio e le manovre finanziarie degli Stati membri. Un’aggressività sconosciuta in patria che dimostra la disinvoltura con cui Letta gioca sul campo europeo, un’apertura di ostilità che intende segnalare che questa volta l’Italia dirà la sua sui portafogli-chiave (l’ultimo rinnovo fu una débâcle, a Massimo D’Alema fu preclusa la nomina a ministro degli Esteri europeo, il governo Berlusconi si accontentò della riconferma dell’incolore Antonio Tajani). La presidenza della Commissione è un obiettivo impossibile, con Mario Draghi al timone della Bce, un incarico importante può essere raggiunto. Per un nome italiano di prestigio. O per lo stesso Letta, se nei confini nazionali la legislatura dovesse volgere al termine. Un’exit strategy, un piano B che Letta coltiva da mesi, con discrezione e riservatezza. E con improvvise accelerazioni, quando in Italia l’orizzonte si fa nebuloso. Come in questo incerto inizio 2014. Tutto da rifare, dopo otto mesi di governo e di navigazione a vista. «Pensavamo di avere una prospettiva di un anno e mezzo, i famosi 18 mesi di cui parlò Enrico a inizio mandato, o almeno di un anno. Invece ogni settimana rischiamo», si sfoga un giovane sottosegretario. Non è bastato un voto di fiducia, con la presa d’atto del passaggio di Forza Italia all’opposizione, per rafforzare l’esecutivo. Uno stato di incertezza accresciuto dallo scivolone di fine anno, il groviglio del decreto salva-Roma, più affollato di emendamenti e stanziamenti di ogni tipo della zattera delle meduse dipinta da Théodore Géricault, su cui il governo aveva messo la fiducia ma che poi è stato costretto a ritirare: ufficialmente per un rimbrotto di Giorgio Napolitano, il primo all’indirizzo di un governo e un premier che considera sue creature predilette, in realtà perché la maggioranza non era più garantita, tra le assenze natalizie e i malumori del gruppo di Scelta civica. Lo schiaffo del Quirinale, unito alle prese di distanza di ambienti che finora avevano sostenuto in modo entusiasta l’esperimento delle larghe intese, gli editoriali del direttore del “Sole 24 Ore” Roberto Napoletano e di Ferruccio de Bortoli sul “Corriere”, gli affondi del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, la crescente delusione di sindacati e imprese, raccontano di un governo costretto a farcela da solo, senza più poter ricorrere all’alibi dell’emergenza o a qualche protezione esterna. Il «nuovo inizio» annunciato da Letta in Parlamento, ed è già passato quasi un mese, si chiama patto di governo. Già ribattezzato Impegno 2014, con un termine molto democristiano: così si chiamava la corrente dorotea della Dc (“Impegno democratico”). In apparenza descrive un obbligo, nella sostanza allude a una buona volontà dispiegata a piene mani, anche a prescindere dai risultati. Ma di risultati, concreti e in tempi rapidi, ha bisogno il nuovo segretario del Pd Matteo Renzi per giustificare il suo appoggio al governo. Enrico il Temporeggiatore e Matteo il Conquistatore possono convivere solo se la durata del governo coincide con le sue realizzazioni. Difficile, a giudicare dai toni ruvidi usati dai renziani e dal leader a cavallo del nuovo anno. Il rifiuto del sindaco-segretario, addirittura, di essere accomunato a Letta e Alfano nell’immagine, cara al premier, della svolta generazionale: «Io con quei due non ho nulla a che fare, sono un’altra cosa». «Il governo Letta è nato in un’altra epoca, sulla base di presupposti che non esistono più, bisogna prenderne atto», osserva Sanna. «Fino alle primarie del Pd il premier doveva trovare da solo la mediazione tra i partiti, oggi il pendolo si è di nuovo bruscamente spostato sulle segreterie di partito, e su quella del Pd in particolare. Serve un nuovo equilibrio». Un patto che nei piani di Letta comprende il pacchetto delle riforme costituzionali e le misure sulla crescita economica e sul lavoro, ben sapendo, ragionano gli uomini di Palazzo Chigi, che al tavolo del contratto di governo nessuno può sedersi pensando di far approvare tutto il suo programma: «Anche all’inizio della legislatura chi si opponeva alle larghe intese ha poi dovuto prendere atto che non c’erano alternative in questa legislatura», spiega Sanna. «È bene sapere che questo non è il governo del Pd, per evitare di suscitare aspettative inesistenti. Molte cose si possono fare, per altre serve una legittimazione elettorale, un nuovo Parlamento e un nuovo governo». Un avvertimento che dovrebbe bloccare l’ala massimalista e inquieta della segreteria Renzi, i Davide Faraone e i Dario Nardella, che ogni giorno lanciano ultimatum sui giornali. Ma che rivela anche la fragilità di un percorso, il prudente realismo con cui Letta si avventura nel suo 2014. A piccoli passi, com’è nel suo stile, lasciando che le cose accadano. Nel 2013, senza darlo a vedere, ha chiuso una fase politica durata vent’anni, «la più radicale trasformazione della Seconda Repubblica», non smette di ripetere, la scissione del centro-destra e l’isolamento di Silvio Berlusconi, ma anche l’emarginazione nel Pd di tutta la vecchia classe dirigente, a partire da D’Alema. Merito di Renzi, certo, ma il premier, che il 20 agosto del nuovo anno compirà 48 anni ed è ancora lontano dalla soglia dei 50, l’età della maturità ma anche, a norma di Costituzione, il requisito minimo per essere eletto presidente della Repubblica, non ha nessuna voglia di finire nella foto di gruppo come il più giovane dei vecchi, semmai come il più saggio ed esperto della nuova leva che spinge per conquistare i palazzi del potere. Di questa nuova generazione Letta si propone come regista. Ecco perché non si opporrà a un rimpasto di governo, nonostante la sua personale contrarietà e quella dell’inquilino del Quirinale. Enrico il giovane sa bene che i rapporti di forza sono cambiati, il gruppo di Alfano è sovradimensionato, quello di Mario Monti non ha più rappresentanza nella squadra ministeriale, Renzi si dice contrario al rito del cambio di poltrone ma è opportuno un suo maggiore coinvolgimento nelle scelte governative. Il ministro in odore di promozione è Graziano Delrio, considerato il vero numero due del renzismo, che potrebbe arrivare a un ministero economico pesante, il Lavoro o lo Sviluppo, o al Viminale se Alfano dovesse rinunciare al ministero per mantenere la vice-presidenza. Un altro ministro post-berlusconiano a rischio esautoramento è Gaetano Quagliariello: «Solo in un Paese dove non si fanno le riforme c’è la necessità di avere un ministro delle Riforme», dice Renzi. Ma il ruolo di Quagliariello sarà ridimensionato dalla nuova strategia del governo Letta sulla legge elettorale. Da fare subito, senza vincolo di maggioranza, con il coinvolgimento di Berlusconi e di Beppe Grillo. Una svolta resa inevitabile dal protagonismo di Renzi: sulla legge elettorale si sono bruciati tutti, ora tocca al nuovo segretario del Pd, il premier starà a guardare. Subito dopo la pausa la commissione Affari costituzionali della Camera dovrà fissare un calendario, nominare un relatore, preparare un testo. E l’uomo di Palazzo Chigisi si farà da parte, in attesa di intervenire in una seconda fase, quando si tratterà di ridisegnare i collegi, in caso di ritorno al Mattarellum, o le circoscrizioni elettorali. Un sentiero stretto, ma alternative non ce ne sono se Enrico vuole arrivare ancora al governo all’appuntamento con il semestre di presidenza italiana del semestre europeo. Per la prima volta nella storia il Parlamento europeo si mostra deciso a incidere nella scelta della Commissione, presidente e commissari, a dare un’interpretazione politica all’esito del voto. La cancelliera Angela Merkel guida il fronte dei governi nazionali, decisi a mantenere la prerogativa della nomina dell’esecutivo comunitario. E con un Parlamento spaccato, diviso e dominato dalle forze anti-sistema e no-euro, dal Fronte di Marine Le Pen in Francia al Movimento 5 Stelle di Grillo in Italia, c’è il rischio caos su scala continentale, un groviglio istituzionale in cui Parlamento e Consiglio europeo si contendono le competenze. Difficile immaginare che i sei mesi di presidenza italiana possano portare qualche risultato utile, ma per Letta trovarsi a gestire una situazione di paralisi all’italiana potrebbe trasformarsi in una grande occasione. Le larghe intese in agonia in Italia potrebbero rinascere in Europa. Anche Josè Maria Barroso fu nominato presidente della Commissione europea da primo ministro del Portogallo in carica. La presenza di Draghi alla Bce rende impossibile la nomina di un altro italiano al vertice di un’istituzione europea. Ma l’anno che si è appena concluso dimostra che Letta è abilissimo nel farsi trovare nella posizione giusta al momento giusto, a cogliere l’opportunità quando c’è bisogno di lui. Nel 2014 non vuole perdere l’abitudine. Marco Damilano,l’espresso
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