AGNES VARDA: GLI 80 ANNI DI UNA PIONIERA
 







di Antonio Napolitano




Les Cent et une Nuits

A "Cannes 2008"  la "Mostra mercato del Cinema" che si è da poco conclusa, sono state festeggiate due lunghe carriere: quella del regista de Oliveira e della attrice Claudia Cardinale: giustissimi riconoscimenti. Altrettanto occorreva fare, a nostro avviso, per l’ottantesimo compleanno della regista A.Varda, pioniera in più settori della Settima Arte.
Nata in Belgio, nel maggio del 1928, da madre francese e da padre greco, ha vissuto in Francia fin dall’infanzia , frequentando dall’età di sedici anni i corsi di pittura presso il Louvre. Lavorerà, poi, a fianco di Jean Vilar, direttore del TNP ("Theatre National Populaire"). Dopo viaggi, come fotografo e cinereporter in Europa e in Cina, nel 1954 gira il suo primo film "La pointe courte" con Ph.Noiret et Sylvia Montfort. Ne scriverà, affascinato, il critico A.Bazin e, per settimane, i parigini faranno la fila allo "Studio Parnasse" per assistere alla sua proiezione.  L’opera è recensita
assai favorevolmente, sulla rivista "Arts"(gennaio ’56)  da F.Truffaut ancora non al lavoro dietro la macchina da presa.
E, da quel momento, la Varda sarà considerata, e ben a ragione, la pioniera della "Nouvelle vague".
Nel 1958, la regista è invitata a Cannes con "O saisons, o chateaux", un documentario sulla regione della Loira, ricco di finezze connotative e spunti originali.
La fama le giungerà, però, nel 1962, con "Cleo dalle 5 alle 7", in cui tutta l’azione si svolge in tempo reale. Sono, appunto, le due ore di attesa del responso medico che deciderà del destino della giovane cantante, Cleo (Corinne Marchand).
La donna cerca di ingannare questo tempo vagando per Parigi in preda ad un ansia appena trattenuta e aprendosi man mano, ad una visione meno egocentrica della città e dei suoi abitanti.
Poco la consolerà la visita ad una chiromante ma sarà l’incontro col giovane Antoine, militare in partenza per l’Algeria a farle capire che non è lei la sola al
mondo a dover affrontare prove esacerbanti.
Il dramma è scandagliato con souplesse e cronometrica misura, senza sbavature alla mélò. E il film ottiene numerosi premi ed è diffuso con successo in molti paesi in Europa e in America.
Nel 1965, è la volta de "Il verde prato dell’amore", forse una reminiscenza del grande Renoir di "Une partie de campagne", delle sue struggenti atmosfere in chiaroscuro.
La realtà esistenziale è qui tratteggiata con mano ferma senza concessione al moralismo. Pur dopo la tragedia familiare (la moglie annegatasi), il falegname François ritroverà il naturale ritmo della vita. E il prato del picnic nel sobrio finale  è quello di sempre che rinasce ad ogni nuova primavera.
In "Image et son", F.Chevassu  annota che "la Varda  è l’unica cineasta a saper dare una traduzione della luce senza sofisticazioni... quasi insegnandoci a vedere la natura".
E il film ottiene il "Prix Delluc" e menzioni speciali a Berlino e altrove. Solo
l’ipercritico G.Fofi vi scoverà "qualcosa di stridentemente ottimista".
L’anno seguente Agnès gira un breve omaggio a Louis Aragon e Elsa Triolet ("Elsa, la rose",1966). Le immagini risultano preziosamente intrecciate a motivi musicali da Mussorgsky a Ravel e a Gershwin e compongono un ritratto dinamico di una coppia ben in vista, anche per il suo anticonformismo.
Nello stesso anno è invitata a Venezia con  "Le creature", opera dalla Varda dedicata al marito, autore, per suo conto di splendide commedie musicali e che, purtroppo, morirà prima dei 60 anni.
Gli interpreti sono eccellenti, ma il gioco psicologico è labirintico.
In una scommessa estrema la regista sembra aver puntato ad un equivalente filmico del "Nouveau Roman", inteso a dare più il "come" che il "cosa" del testo da comunicare allo spettatore (o lettore).
È il pegno che paga chi è sempre pronto a superare nuove frontiere e ad affrontare sfide anche a costo di impasse e défaillance.
Così, nel
1967, ella si aggrega ad un’altra iniziativa audace rimanendone frustrata. Si tratta di "Lontano dal Vietnam", per il quale i contrasti con i coautori la indurranno a ritirare il pezzo da lei girato, prima che venga montato con cose disomogenee per stile e ideologia, rispetto alla sua visione del mondo.
Forse, per questo, andrà al lavorare per un certo tempo negli USA. Il risultato sarà quel "Lions love" (1970) sulla esperienza hippy in California (e non del tutto riuscito, dato il troppo brusco trapianto territoriale).
Altro esempio di autonomia sarà "Nausicaa" girato sugli emigrati greci in Francia al tempo del regime dei colonnelli e che si avvale della pervasiva musica di M.Theodorakis. Purtroppo, la cosa circolerà quasi clandestinamente dato l’intervento della prudentissima"ragione di stato" che veglia occhiuta anche sul cinema.
Il seguente "I tipi della rue Daguerre" (1975) è il racconto gustoso dei "petits faits vrais" del proprio quartiere. È, quasi un lungo
"monologo visivo" sulle persone che più l’hanno suggestionata: piccoli commercianti, anziani sfiniti, concierges, eccetera.
Lei stessa lo definisce "un reperto per archeosociologi del 2975”. Sono minime "tranches de vie" guardate con occhio attento e con benevola ironia, quasi vecchie stampe che si muovono con un ritmo d’altri tempi su sfondi  sbiaditi.
"Murs Murs" (1981) segnerà un provvisorio ritorno in America, con un’indagine sulla  "realtà effettuale" della "fabbrica dei sogni", tra Beverley Hills e Hollywood. L’obiettivo scruta con sagacia i tanti muri di quelle cittadine con i loro manifesti, graffiti, cartelloni inzaccherati che rivelano parecchio sull’essenza della "Mecca del cinema".
E questo documentario -radiografia, avrà grossi premi, sia al "Festival dei popoli" di Firenze che a Mannheim e altrove.
Dopo ancora due o tre reportages si avrà un nuovo film narrativo con "Senza tetto nè legge"(1985), "Leone d’oro" alla Mostra d’arte di Venezia.

Sandrine Bonnaire è la giovane vagabonda che finirà col morire di freddo in una notte di inverno. Abbandonato il lavoro, Mona ha scelto la totale libertà, non sopportando la società con le sue mille  storture e ipocrisie.
L’obiettivo della Varda la segue nei suoi itinerari, comprensivo ma senza commiserazioni. E ne registra momenti felici e disagi paurosi. Le sequenze luminose come quelle oscure sono configurate in coerenza alla intermittente volontaria odissea che approderà alla tragedia.
Ben altro approccio sperimentale rivelerà "Jane B. vista da Agnès V."(1987), un collage filmico sulla Birkin, attrice metamorfica, angolata come in molteplici specchi. E a lei fanno da contorno colleghi del calibro di L.Betti, J.P.Léaud, Ph.Léotard e M.Demy.
Quella della Varda è, quindi, una ricerca che si evolve continuamente senza mai perdere il contatto con le persone reali e il loro ambiente, in forme iconiche comunque sempre personali.
Nel 1995, nel centenario di
Monsieur Cinéma, la regista schizza in "Le cento e una notte", una celebrazione sui generis, quasi un divertissement in flashback, insaporito da un "esprit de finesse"  d’alta classe.
Il vegliardo è reso con verve compiaciuta da M.Piccoli visto come padrone di una dimora incantata piena di  souvenir d’epoca e percorsa da apparizioni magiche. Per i vasti salon, fluttuano infatti, B.Keaton e Nosferatu, O.Welles e Stanlio e Ollio, Anna Schygulla e Fanny Ardant etc.
In controcanto sarcastico a M.Piccoli c’è il nostro Mastroianni e la spiritosa dialettica fa lievitare il gioco su quell’ invenzione definita dai  Frères Lumière "senza alcun avvenire". Anch’essi appaiono più volte aureolati da tante lampadine votive, quasi santi dell’epoca contemporanea.
Nel 2000, con "La vita è un raccolto", la regista riprenderà a pedinare  con premura solidale certi tipi singolari, cioè quei  "recuperanti" per strade e piazze, di strani oggetti, aggeggi fuori uso e
vecchie carte colorate. E ancora una volta la Varda riuscirà a tenere a distanza l’impulso alla predica sia morale che ecologica.
Tra il 2000 e il 2005 sarà ancora al lavoro con due brevi film dal taglio interessante e padroneggiandone il linguaggio da maestra (un messaggio implicito alla proliferante massa di giovani autori di corti, che oggi prendono spesso per innato talento la loro ingenua presunzione?).
Certamente, un’ulteriore prova di una professionalità (e umiltà) da prendere ad esempio e da non archiviare se si vorrà operare seriamente e senza pregiudicare maggiormente la qualità complessiva della produzione per lo schermo.