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La resa dei conti argentina
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L’Argentina è sempre stata un paese di grandi contraddizioni. Latinoamericana, ma europea. Ricca, ma miserabile. Un esempio, nel bene e nel male. Prima della crisi del 2001 era l’emblema del successo neoliberista, poi rivelatosi una catastrofe. E fino a pochi mesi fa sembrava invece il modello per uscire dalle grane dello spread, salvo poi ritrovarsi adesso, nuovamente, con le spalle al muro. Il decennio dei Kirchner è stato, per alcuni versi, un successo. Prima Nestor, poi Cristina si sono impegnati per aiutare una popolazione scossa dalla crisi e impoverita dal mercatismo di Menem, Caballo e del Fondo Monetario. Tanti programmi sociali e sussidi per le spese più rilevanti, come ad esempio la corrente elettrica. Cose indispensabili per ricostruire un paese, ma che rischiano ora di travolgerlo nuovamente. Il governo spende risorse che non ha, la Banca Centrale stampa moneta e l’inflazione si alza pericolosamente – stime non ufficiali la danno intorno al 30%. Ed intanto il prezzo ridotto dell’elettricità porta a troppo consumo ed a cavallo di Natale Buenos Aires ha subito squassanti black out – in verità anche a causa di una ondata di caldo straordinario che ha fatto boccheggiare la popolazione. Intanto le contraddizioni argentine sono rimaste intatte. Una famiglia oligarca al potere, con la presidenza passata da marito a moglie, nel miglior spirito peronista; populismo di vecchia data, attenzione ai lavoratori ma poche azioni per cambiare una struttura economica squilibrata; i quartieri più ricchi, da Palermo a Recoleta, che sembrano, anche durante la crisi, Londra e Parigi e favelas miserevoli dove arraffare voti; sfarzo e delinquenza. Ed un potere politico sempre ondivago: si proibisce il possesso di dollari e si tollera il cambio nero nel microcentro di Buenos Aires; si introducono nuovi controlli sui capitali e li si cancellano nel giro di una settimana. Mentre il governo viene preso d’assalto da tutte le parti: prima gli attacchi ripetuti del gruppo mediatico che fa capo al Clarin, grancassa della borghesia reazionaria argentina; poi gli scioperi dei poliziotti e poi degli agricoltori. E poi, soprattutto, i venti di tempesta sui mercati internazionali. Non è un caso che la svalutazione del peso sia arrivata in concomitanza con simili crisi in Turchia e Sud Africa. Sono anni, infatti, che le cosiddette economie emergenti attraggono capitali in fuga da un Occidente che non offre opportunità di profitto. Peccato che questo disordinato muoversi di risorse non abbia fatto altro che creare l’ennesima bolla; come sempre nessuno ha guardato ai fondamentali di queste economie, non ci si è curati della loro stabilità, delle prospettive di crescita. Bastava cercar far soldi, tanti, in fretta. Salvo poi svegliarsi una mattina ed accorgersi che l’economia internazionale ha ancora qualche problemino da risolvere, che la volatilità degli investimenti rimane sempre alta e che governi che sembravano stabili sono invece sempre a rischio. E di nuovo panico, di nuovo fuga di capitali, di nuovo venti di crisi. Con l’Argentina che rischia di trovarsi di nuovo in mezzo al ciclone. Nicola Melloni
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