Un paese di poveracci
 







di Roberto Tesi




L’Italia vive un «momento di difficoltà economica con investimenti e consumi delle famiglie fermi o in regresso», ha detto Luigi Biggeri, il presidente dell’Istat, presentando il «Rapporto annuale 2007». In ogni caso l’Istat è moderatamente ottimista, sostenendo che il sistema delle imprese ha reagito al declino della competitività italiana.
La foto annuale scattata dall’Istituto di statistica (che inizia con una analisi della fase congiunturale italiana e mondiale) mostra un paese in gravi difficoltà che «arranca». Un paese nel quale il made in Italy da segnali di vivacità (grazie anche alla internazionalizzazione delle imprese maggiori e a una più generale fase di ristrutturazone) e le esportazioni hanno smesso di perdere quota nel contesto dell’economia globale. Ma l’Italia e anche un paese nel quale cade la competitività generale del sistema e nel quale cresce la disuguaglianza tra cittadini e aree geografiche. è sempre di più, come confermano i dati più
recenti, un paese che perde di competitività. Nel quale cioè convivono imprese di elite in grado di competere globalmente e imprese a basso valore aggiunto che sopravvivono grazie al basso costo del lavoro.
In questo contesto non è casuale la scarsa crescita delle retribuzioni: negli ultimi 10 anni - dal 1995 al 2006 - i salari orari reali sono cresciuti di appena il 4,7% a fronte di una crescita di 5-6 volte maggiore in paese come Francia e Svezia. E collegata alla questione salariale c’è il problema del basso aumento della produttività: negli ultimi 10 anni è cresciuta del 4,7%, mentre la media della Ue a 15 segna un incremento del 18%.
Sul fronte del lavoro, gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una discesa della disoccupazione accompagnata, però, da uno scarso aumento dell’occupazione. Questi significa che il tasso di occupazione non è salto in maniera significativa (il tasso di attività è al 62,5% contro il 70,5% della Ue a 27) mentre è cresciuta l’area di inattività
che significa la rinuncia a cercare un’occupazione. Sta esplodendo quella che viene definita «occupazione scoraggiata» intendendo persone che sarebbero interessate a lavorare, ma sono scoraggiate perché in passato non hanno trovato una occupazione. E le cifre sono grandi: l’occupazione scoraggiata «vale» circa 3 milioni di persone, una «zona grigia» cresciuta di 318 mila unità nell’ultimo anno. Di più: all’interno di questa zona grigia, ci sono «forze di lavoro potenziali» - 1,213 milioni di persone, poco meno dei disoccupati ufficiali - disposte ad accettare immediatamente un lavoro. La mancanza di lavoro ha ridato slancio ai «movimenti migratori interni»: tra il 2002 e il 2005 ci sono stati 1,3 milioni di trasferimenti l’anno. Le nuove mete sono i distretti industriali del Nord-Est, di parte del Nord-Ovest, dell’Emilia e delle Marche. Le regioni dalle quali ci si sposta di più sono le solite del Sud: Calabria, Campania, Puglia e Sicilia.
Ci sono poi gli immigrati: 3,5 milioni gli
stranieri residenti, il 5,8% del totale dei residenti. Il loro tasso di attività è molto più alto di quello degli «italiani», le loro retribuzioni in genere più basse. I flussi di ingresso per ricongiungimento familiare hanno portato a un riequilibrio tra i sessi e la riproposizione di un modello familiare ben radicato in Italia. Sono in generale flessibili e molto mobili, ci dice l’Istat. Un solo dato: oltre il 60% dei regolarizzati nel 2004 tre anni dopo (Nel 2007) risultava trasferito in un altra provincia. Insomma, vanno dove c’è lavoro. E non hanno (i regolari) un tasso di devianza elevato: appena il 2,0%, un tasso solo leggermente superiore a quello dei cittadini italiani.
Purtroppo l’Italia è un paese. in senso relativo, sempre più povero. Tra il 2000 e il 2007 il reddito medio per abitanti ha perso 13 punti nella classifica della Ue a 15. Nel 2000 l’Italia aveva un reddito pro capite di quattro punti superiore a quello della Ue, mentre nel 2007 è sceso di oltre otto punti
sotto la media.de Il Manifesto