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Povera Italia, tra disagio economico e tasse alle stelle
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La conosciamo bene l’Italia fotografata dall’Istat nel sesto rapporto "Noi Italia", edizione 2014. E’ quella impoverita dalla crisi che tocchiamo con mano ogni giorno. Basta uscire di casa, scambiare due chiacchiere sul pianerottolo col vicino di casa; prendere un caffè al bar; andare al mercato. Non c’è famiglia (tranne quelle appartenenti al 10% di popolazione più ricca che detiene il 50% della ricchezza nazionale) dove l’emergenza economica non sia entrata con un disoccupato, un precario, un cassa integrato. Ancora l’altro giorno il presidente del Consiglio era tutto giulivo per essere tornato dal suo tour negli Emirati arabi con in tasca un assegno da 500 milioni scommettendo ancora una volta su una ripresa che vede solo lui. Giusto oggi, il Sole24Ore apre la prima pagina con la gelata della produzione industriale tornata ferma. Ma sono i dati dell’Istat a dare la misura del disastro sociale ed economico; anche perché si riferiscono, nella maggior parte dei casi, al 2012 e dopo un altro anno di stagnazione economica la situazione non può che essere peggiorata. Così "scopriamo" che una famiglia su quattro è in una situazione di «deprivazione» ovvero ha almeno tre dei 9 indici di disagio economico, come ad esempio non poter sostenere spese impreviste, arretrati nei pagamenti o un pasto proteico ogni due giorni. L’indice è cresciuto dal 22,3% del 2011 al 24,9% dell’anno successivo a causa del fatto che sei famiglie su dieci vivono con meno di 2.500 euro al mese: nel 2011 circa il 58% dei nuclei ha conseguito un reddito netto inferiore all’importo medio annuo di 29.956 euro, circa 2.496 euro al mese. Quasi cinque milioni di persone nel 2012 erano in condizioni di povertà assoluta: si tratta del 6,8% delle famiglie per un totale di oltre 4,8 milioni di individui, concentrati soprattutto nel Mezzogiorno. Ne deriva che il versante economico del rapporto Istat è un vero e proprio bollettino di guerra. Nel 2012 il Pil pro capite, ai prezzi di mercato, è diminuito del 2,8% in termini reali: cioè, a parità di potere d’acquisto, il Pil italiano risulta inferiore a quello medio dell’Ue a 27 membri. Mentre nel 2000 il Pil pro capite dell’Italia era più alto di quello della media Ue del 17,3%, gli effetti della crisi lo hanno portato, un decennio dopo, sotto la media (-1,6%). Sorge spontanea la domanda: come si può ancora avere il coraggio di parlare della necessità di abbassare il costo del lavoro in Italia tagliando gli stipendi dei lavoratori? Dal 2009, sottolinea l’Istat, il dato è tornato sotto i livelli di inizio millennio. Le difficoltà del tessuto produttivo sono testimoniate dall’ultimo posto in quanto a competitività: nel 2010, ogni 100 euro di costo del lavoro generavano il 126,1% di valore aggiunto, dato peggiore in Europa, contro il 211,7% in Romania. Nel 2011 si è registrato un leggero miglioramento (128,5%). Dunque, non è un problema legato ai salari, ma all’efficienza del sistema nel suo complesso e ai mancati investimenti (cosa dicono su questo gli industriali?). Il tutto mentre la disoccupazione continua a galoppare: nel 2012 il tasso di disoccupazione giovanile in Italia ha raggiunto il livello più elevato dal 1977, al 35,3 per cento (ma ormai siamo oltre, secondo gli ultimi rilevamenti); preoccupa poi il Sud, se si considera che in Calabria e Campania il tasso di senza lavoro, nel 2012, ha toccato la soglia record del 19,3% contro una media nazionale del 10,7 per cento. Redditi da fame, tasse alle stelle (per i soliti noti, però). Il ministro Saccomanni, altra oca giuliva del governo, giura che la pressione fiscale è destinata a scendere (lo diceva già il suo predecessore berlusconiano Tremonti), ma finora è sempre e solo salita fino a sfiorare livelli svedesi (cui notoriamente non si accompagna lo stesso livello di qualità nei servizi): nel 2012 - si legge nel Rapporto Istat - ha raggiunto il 44,1% (dal 42,5% nel 2011 e il 41,3% del 2000) a fronte del 44,7% in Svezia. Tasse su tasse che non sono finora servite né a rilanciare l’economia, né ad aiutare i redditi bassi, bensì a rispettare assurdi parametri europei. Compito nel quale il Belpaese è primo della classe: per saldo primario di bilancio (al netto cioè della spesa per interessi) siamo primi insieme alla Germania nell’Eurozona. Il debito pubblico, in rapporto al Pil, è invece secondo solo alla Grecia con il 127% del 2012. Il rapporto Istat si sofferma, poi, sui dati sociali. E conferma che se la popolazione continua a crescere ciò è dovuto quasi esclusivamente all’arrivo dei migranti: al 31 dicembre 2012 i residenti sono 59 milioni 685 mila e fanno dell’Italia il quarto Paese europeo, ma tra i più vecchi. Gli stranieri, all’inizio del 2013 all’anagrafe risultavano essere 4,4 milioni, il 7,4 per cento della popolazione e il 10,6 per cento della forza lavoro. L’Istat sfata poi un altro mito, quello per cui il nostro sistema sanitario è troppo costoso e non ce lo possiamo più permettere dunque occorre tagliare (leggi spending review): nel 2012 la spesa sanitaria pubblica è stata di circa 111 miliardi di euro, pari al 7 per cento del Pil e a 1.867 euro annui per abitante, un livello molto inferiore rispetto ad altri importanti paesi europei. E’ bassa però anche l’offerta di posti letto (e li vogliono tagliare ancora!), che sono 3,5 per mille abitanti contro la media Ue di 5,5. Manco a dirlo, resta bassa l’incidenza della spesa in istruzione e formazione (considerati un "costo" da cancellare), che raggiunge (dato 2011) il 4,2 per cento sul Pil, valore ampiamente inferiore a quello dell’Ue al 5,3 per cento. Un corollario della crisi è il crollo dei consumi culturali: nel 2011 le famiglie vi hanno riservato il 7,3% della spesa contro l’8,8% del resto d’Europa. E così, non adeguatamente sostenuti dallo stato, chiudono teatri e cinema, mentre si insiste con la privatizzazione degli enti lirico sinfonici, tanto per fare un esempio. Crisi o non crisi, restiamo comunque inguaribili automobilisti. Nonostante la crisi di vendite del settore, l’Italia resta tra i Paesi più motorizzati in Europa con 62 auto ogni 100 abitanti, seconda sola al Lussemburgo e tra i luoghi con più vetture nel mondo. Un affollamento cui, fortunatamente, non corrisponde a una crescita degli incidenti, che restano comunque altissimi: tra il 2002 e il 2012 si sono quasi dimezzati i morti su strada, passando da 6.980 a 3.653. Nel 2012 sono morte sulle strade 60,1 persone ogni milione di abitanti (erano 122 nel 2002), un dato però ancora superiore alla media europea (54,9). Utile sapere - in questi giorni di alluvioni, allagamenti, frane e smottamenti - che diminuisce (mentre non c’è dubbio che dovrebbe aumentare non solo per garantire la sicurezza delle persone, ma anche come volano di sviluppo e creazione di occupazione) il livello di spesa per la tutela ambientale: quella pro capite delle Regioni, nel 2011, è stata di 69 euro, in diminuzione rispetto al 2010. |
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