VITA DA FRONTALIERE
 











Ecco chi sono e come vivono
C’è chi li ha raffigurati come “avidi roditori”, chi li ha accusati di rubare il lavoro ai residenti, ma anche chi riconosce la loro importanza per l’economia svizzera. E infine, c’è il popolo elvetico che, con il referendum di domenica 9 febbraio, ha deciso di porre un tetto al loro numero.
Sono i frontalieri, i cittadini italiani che ogni giorno attraversano il confine per andare a lavorare in Svizzera. I numeri parlano chiaro: dal nostro Paese si muovono quasi 60mila persone verso la confederazione, 56mila delle quali sono dirette in Canton Ticino: proprio quel Canton Ticino dove i frontalieri rappresentano un terzo della forza lavoro, ma dove i "sì" ai quesiti referendari hanno raggiunto il 70%, la percentuale più alta della Svizzera. Nel loro andirivieni quotidiano da uno Stato all’altro, dietro a ciascuno di questi lavoratori si nasconde una storia. Come quelle di Libero Mirante, capo-cantiere in un’azienda edile
di Lugano, e di Mauro Di Biaggio, operaio in una ditta che produce insaccati.
Fiorenzo Pastori, invece, fa storia a sé. Esperto di elettronica, oggi è un ingegnere della sicurezza in un’azienda metalmeccanica di Mendrisio, e rappresenta un fenomeno nuovo che da qualche anno sta investendo il frontalierato. Sono sempre di più, infatti, i professionisti del terziario che scelgono di lavorare in Canton Ticino: sono impiegati, assicuratori, bancari, architetti e consulenti. “La mia non è stata una scelta obbligata - commenta Pastori - . Sono andato a lavorare di là nel 1985. Avevo un’occupazione qui, ma ne volevo una in un ambiente con meno vincoli burocratici e procedure più facili e chiare”. Negli ultimi quindici anni, moltissimi altri italiani hanno preso la sua stessa decisione e, così, il rapporto tra frontalieri impiegati nel settore secondario e quelli inseriti nel terziario si è addirittura ribaltato. Nell’arco di una generazione, questi ultimi sono cresciuti di oltre il 200 per
cento: ora, su un totale di 56mila frontalieri in Ticino, più di 30mila sono assorbiti dal terziario.
Ma la Svizzera non è solo la terra promessa dei lavoratori, ma anche delle aziende italiane. Tra i primi ad approdare nella confederazione, negli anni Settanta, figurano gli eredi di Ermenegildo Zegna. Hanno scelto Stabio, un comune a cento metri dal confine che ora viene soprannominato Fashion Valley: le grandi firme come Armani, Versace e Gucci hanno seguito l’esempio dei piemontesi Zegna e vi hanno trasferito la produzione e la logistica. Anche la multinazionale Vf, proprietaria dei marchi Napapijiri, Vans, North Face e Timberland, ha speso 50 milioni di euro per costruirci la nuova sede della direzione ricerca e sviluppo per l’Europa e l’Asia. E con una concentrazione così elevata di posti di lavoro, Stabio attira da più di cinquant’anni migliaia di frontalieri. Oggi, il numero dei lavoratori italiani supera addirittura quello degli abitanti.
Stabio è costituita da due parti
che, come due rette parallele, sono vicinissime, ma destinate a non incontrarsi mai. Da un lato c’è un paese grigio, che corrisponde alla zona industriale, e che è popolato di capannoni, cantieri, distributori di benzina e cambi valuta. L’altra parte di Stabio, quella più verde, è la zona in cui abita la popolazione autoctona, dove ci sono le colline ricoperte di vigne, le terme, gli asili, il museo della civiltà contadina, una ventina di società sportive e culturali e le piscine.
Nonostante il prezzo esorbitante del terreno nella zona industriale, che ammonta a 400 euro al metro quadrato, almeno due aziende al mese chiedono a questo comune l’autorizzazione di poter aprire sul suo territorio. “I motivi per cui gli imprenditori scelgono di investire qui sono molteplici: la buona amministrazione, i servizi che funzionano, la fornitura di energia a prezzi competitivi, la tranquillità e la pace del lavoro e un 20 per cento di tasse in meno rispetto all’Italia”, spiega Claudio Cavadini,
sindaco di Stabio.
Dal belvedere posto su una collina nel cuore del paese, la divisione tra la parte grigia invasa dagli italiani e la parte verde riservata ai locali è ancora più evidente, e si scorgono i numerosi edifici industriali ancora in costruzione. “La metà dei servizi che offriamo alla cittadinanza sono pagati dalle industrie, quindi anche grazie ai frontalieri”, precisa Cavadini. Degli oltre seimila lavoratori di cui hanno bisogno le imprese stabiensi, infatti, l’80 per cento viene dalle provincie di Como e Varese. Da una parte, quindi, senza gli italiani la Svizzera non avrebbe sufficiente manodopera. Dall’altra, il mercato del lavoro elvetico ha tenuto in piedi la società della fascia di confine, garantendole reddito e stabilità sociale.  Francesca Bottenghi, Stefano De Agostini, Chiara Panzeri
Una scelta che preoccupa l’Unione europea
Il referendum con cui gli svizzeri hanno bocciato la libertà di immigrazione degli altri europei nella
Confederazione lasciava al governo di Berna tre anni di tempo per dare attuazione a un sistema di quote che tutelasse gli interessi economici del Paese. Questo in teoria avrebbe dovuto consentire di aprire negoziati con l’Unione europea e trovare una soluzione che permettesse di evitare ritorsioni da parte di Bruxelles.
Ma come sempre il diavolo è nei dettagli. E la Svizzera non ha avuto neppure tre settimane per cercare di aggirare le ire dell’Unione. L’ostacolo su cui è inciampata la soluzione diplomatica che tutti speravano di poter costruire si chiama Croazia. Dal luglio scorso la Croazia è diventato il ventottesimo stato della Ue. E dunque i cittadini croati devono godere degli stessi diritti riconosciuti agli altri cittadini dell’Unione, tra cui la libertà di trasferimento nei Paesi che, come la Svizzera, hanno firmato un accordo di libera circolazione con Bruxelles. In estate, Berna e Zagabria avevano definito un accordo bilaterale che estendeva alla Croazia i diritti
riconosciuti agli altri Paesi europei. Ma il referendum, pur lasciando tempo al governo elvetico per ridefinire gli accordi di libera circolazione esistenti, vieta espressamente di firmarne di nuovi. E quindi la ministra svizzera della Giustizia, Simonetta Sommaruga, ha dovuto notificare al governo croato che non potrà firmare gli accordi pattuiti.
Meno di tre settimane dopo l’esito del referendum, la Svizzera si trova quindi già nella scomoda situazione di dover violare le intese raggiunte con l’Unione europea. Che non l’ha presa per niente bene. L’ambasciatore della Ue a Berna ha già fatto sapere che Bruxelles potrebbe bloccare per ritorsione gli accordi che garantiscono agli svizzeri l’accesso ai programmi e ai finanziamenti europei per la formazione e la ricerca. Per un Paese che ha un’elevata componente scientifico-tecnologica nella sua produzione industriale e di servizi, e che ogni anno si aggiudica una buona fetta dei fondi europei per la ricerca, sarebbe un colpo molto
duro.
Ma al di là del problema croato, la decisione del referendum svizzero rischia di trasformarsi in un duro autogol per gli interessi economici del Paese. Ne erano ben consapevoli gli imprenditori e l’intera classe dirigente, che si erano schierati massicciamente per il “no”, ma che sono stati sconfessati, sia pure di misura (50,3 per cento) dagli elettori. “Questo risultato creerà numerose difficoltà per la Svizzera in molti campi”, aveva commentato il ministro dell’economia tedesco Wolfgang Schauble. La sua si è rivelata una facile profezia.
L’Unione europea, attraverso i suoi governi, ha infatti già fatto presente che “le quattro libertà sono inseparabili”. La Svizzera, dice Bruxelles, non può sperare di bloccare la libera circolazione delle persone senza avere ricadute anche sulla libera circolazione di merci, servizi e capitali. Ma il Paese, che è una delle grandi piazze finanziarie d’Europa, e che ha nell’Unione il suo primo partner commerciale, difficilmente potrebbe
permettersi una reintroduzione di dazi europei o una limitazione alla circolazione dei capitali.
Anche sul fronte dell’immigrazione, se è vero che l’afflusso di manodopera straniera, soprattutto nelle zone di confine come il Canton Ticino, ha portato ad un appiattimento dei salari, è anche vero che un Paese sede di grandi multinazionali e di organizzazioni internazionali non può fare a meno di lavoratori altamente qualificati provenienti dall’estero. Basti pensare al Cern, il grande centro di ricerca europeo, con sede a Ginevra. O alle moltissime organizzazioni non governative che, sempre a Ginevra, sono sorte attorno alle istituzioni delle Nazioni Unite.
Ma l’Europa non manca di ipocrisia quando si scandalizza per il voto svizzero. I sondaggi di opinione infatti confermano che anche nei Paesi europei il referendum proposto ai cittadini elvetici sarebbe passato con maggioranza molto superiori a quella registrata nella confederazione. Il 62 per cento dei tedeschi, il settanta per
cento dei francesi e il 77 per cento degli inglesi si dicono favorevoli a limitare l’immigrazione. E’ dunque legittimo il sospetto che la durissima reazione dei governi europei nei confronti della Svizzera nasconda il timore per gli umori di casa propria e il desiderio di prevenire derive analoghe, che segnerebbero inevitabilmente la fine dell’Unione europea. Andrea Bonanni
Un Paese spaccato dal referendum
Il professor Christoph Höcher è un archeologo tedesco di fama internazionale che dal ’99, insegna al Politecnico Federale di Zurigo. Eppure, dopo il si svizzero al referendum anti-stranieri del 9 febbraio, ha inoltrato le dimissioni. “Non sopporto più il clima xenofobo di questo Paese”, ha dichiarato in un’intervista al quotidiano 20 minuten, aggiungendo particolari sconcertanti sulla sua esperienza di immigrato. “Nel 2010- ha raccontato -la mia auto, con targhe tedesche, è stata distrutta, mentre si trovava regolarmente parcheggiata”. “Ho fatto una denuncia
alla polizia ,ma la cosa è caduta nel nulla”, ha raccontato. Guardacaso, nello stesso periodo, l’Unione Democratica di Centro, il partito che ha promosso e vinto il referendum “contro l’immigrazione di massa”, si scagliava contro l’eccessiva presenza di accademici provenienti dalla Germania, all’università di Zurigo.
Questo, se vogliamo, è il contesto in cui è maturato quel voto che ha suscitato indignazione in mezzo mondo e costretto l’Unione Europea a minacciare azioni di rappresaglia. E dire che Zurigo, nonostante quanto ha affermato il professor Höcher, con Basilea e Ginevra, ha tentato di arginare l’ondata anti-stranieri, rifiutando la denuncia della libera circolazione delle persone ed il ripristino dei contingenti, voluti dall’Unione Democratica di Centro. Diverso il caso del Canton Ticino dove, invece, i sì sono stati oltre il 68 per cento.
“Questo perché, nelle regioni di confine come la nostra, la manodopera frontaliera è stata usata per mettere sotto pressione i
residenti, rimasti in molti casi esclusi dal mercato del lavoro, non potendosi permettere i salari che, invece, sono ottimi per un frontaliere”, spiega Sergio Savoia, leader dei Verdi ticinesi ma, anche, protagonista carismatico di quel vero e proprio rifiuto di massa nei confronti dei 60 mila italiani che, quotidianamente, attraversano la frontiera Svizzera, per lavorare. “La maggioranza di chi si è recato alle urne- l’analisi di Sergio Rossi docente di Economia, all’unanimità di Friburgo -ha verosimilmente espresso un crescente timore per quanto riguarda l’insicurezza e la precarietà del mercato del lavoro, in Svizzera”. Il che- aggiunge Rossi -vale sia per chi non dispone di competenze particolari e non può vivere con i bassi salari che sono versati a molti stranieri, sia per chi ha una formazione elevata e teme che il proprio posto di lavoro venga occupato da personale altrettanto qualificato proveniente dall’estero.” È curioso, però, che mentre in alcuni Cantoni di frontiera, come il Ticino, quanto affermato da Savoia e da Rossi, abbia contribuito al successo dell’iniziativa della destra, a Ginevra, che di frontalieri ne ha molti di più, l’abbia spuntata il no. Ed è ancora più curioso il fatto che un esponente di spicco del Mouvement Citoyen Genevois, il partito ginevrino che ha costruito la propria fortuna politica martellando, per anni, contro i frontalieri francesi che portano via il lavoro agli svizzeri, si sia rifiutato di seguire le indicazioni di voto dei suoi. “Lottare contro il dumping salariale e favorire le opportunità di impiego ai residenti è una priorità. Ma io sono assolutamente convinto che potevamo ottenere questo risultato, senza contingentare la manodopera estera”, dice convinto Mauro Poggia, origini novaresi, che per il Mouvement Citoyen Genevois è il Ministro responsabile della politica sanitaria del Canton Ginevra. Una posizione, la sua, che gli è valsa l’accusa di “traditore” e di “voltagabbana”.
Ma Poggia spiega che, bloccando la
libera circolazione con i contingenti, si finisce per “impedire, ad un’azienda, di impiegare personale altamente specializzato proveniente dall’estero”. In questo modo, in sostanza, si apre la via alle delocalizzazioni. “Insomma- argomenta Poggia -non si può lottare contro la disoccupazione, correndo il rischio di perdere dei posti di lavoro”. Non teme, chiediamo allora al verde Sergio Savoia, che tutti quegli imprenditori italiani che hanno aperto un’azienda nel Canton Ticino, contando sul basso costo della manodopera frontaliera, decidano per trasferirsi altrove? “No, non lo temo. La competitività del nostro territorio e del nostro sistema paese è tale per cui non avremo di questi problemi. Dobbiamo, piuttosto, considerare che tipo di aziende vogliamo si trasferiscano da noi.
Vogliamo i capannoni di logistica senza alcun valore aggiunto, che consumano territorio e si portano dietro maestranze che guadagnano un terzo di quel che prenderebbero dei lavoratori residenti? Vogliamo
quello che io chiamo il modello Brianza?". Fatto sta che, in prospettiva, per l’economista Sergio Rossi “lo scenario peggiore, per la Svizzera, è quello dell’impoverimento”. Tutto dipenderà dall’esito del negoziato che ha intrapreso con l’Unione Europea ma, soprattutto, dalla capacità di Bruxelles di sapersi adattare alla diversità elvetica.
Per il momento i tedeschi hanno dimostrato una certa elasticità, mentre il Presidente della Commissione Europea, Barroso, ha fatto sapere che la libera circolazione delle persone non è negoziabile. Hanno, per contro, esultato, di fronte all’esito del voto svizzero, diversi esponenti dell’estrema destra europea, tra cui Marine Le Pen. Il verde ticinese Sergio Savoia, che proviene dalle fila della sinistra, non si sente in imbarazzo? “Lo trovo del tutto irrilevante, francamente. Marine Le Pen parla ai francesi e quando fa i complimenti agli svizzeri lo fa, esclusivamente, per ragioni interne”. “Io, come cittadino svizzero, non sento il bisogno che
altri ci facciano i complimenti per la nostra democrazia diretta. Devono solo rispettare le decisioni sovrane di un popolo sovrano”.  ranco Zantonelli,repubblica