I Valorosi Guerrieri della Casa del Sole
 







di Antonio Aroldo




Nell’ antichità il Giappone era suddiviso in tanti piccoli staterelli rivali l’uno con l’altro e viveva in uno stato di perenne guerra. I nobili richiamarono a loro dei guerrieri valorosi e fedeli: i samurai (dal verbo saburau = servire-essere al servizio).
Questi guerrieri si dotarono di un loro codice d’onore: il “bushido”, che oltre il comportamento sul campo di battaglia ne regolava la vita spirituale.
All’inizi del 900 gravi carestie e conflitti bellici rensero il Governo centrale impossibilitato a garantire la sicurezza nazionale, per questo i nobili si costruirono propri eserciti personali composti da guerrieri provenienti dalle campagne e istruito al combattimento, le continue lotte interne finirono per aumentare il potere e l’importanza di questi guerrieri, contemporaneamente i nobili resero l’imperatore di fatto escluso dalla direzione dello stato. Dal XII secolo i samurai o bushi (“Uomini che Combattono”) costituircono la casta più
importante della piramide sociale. I samurai erano al completo servizio del proprio padrone (daimyô) e per lui sono pronti anche a togliersi la vita tramite il famoso rituale chiamato “seppuku”. 
Il termine bushido letteralmente significa "via del guerriero". Il punto fermo di questo particore codice di comportamento era l’onore sia in battaglia che nella vita comune. Questo insieme di regole, inoltre, disciplinava i rapporti da tenere in uno stesso clan e con il proprio capo. Il samurai doveva essere sobrio, modesto, in guerra deve essere coraggioso, leale, solidale e naturalmente doveva avere un grande onore. Ai samurai erano attribuiti spesso due termini: bun che indicava saggezza di tipo confuciano e bu che indicava il contesto marziale. Infatti una delle doti essenziali del samurai era il giusto equilibri tra azione e riflessione.
La formazione ideale del samurai era un insieme di componenti, sociali, filosofiche, religiose. Non fu difficile per i bushi con innata
semplicità shintoista assimilare le dottrine dello zen, il samurai fin da bambino imparava a non tradire nessun emozione ed a controllare il suo spirito, per fare ciò era necessario sacrificio e ore e ore di esercizi. Lo zen fu fondamentale ad allenare e perfezione il loro famoso autocontrollo in quanto le sue tecniche insegnavano ad avere la totale padronanza delle proprie emozioni, dote fondamentale per un samurai sempre di fronte alla morte.
Minamoto Yoritomo (1191), il fondatore dello shogunato di “Kamakura”, dettò alcune regole che rimasero fondamentali per i samurai, alla base di queste regole c’erano devozione e lealtà da parte del samurai al proprio signore. Questo rapporto legava entrambe le figure, il samurai si impegnava a servire il superiore il quale a sua volta lo ricompensava con un possedimento fondiario, chigyochi.
Durante il decimo secolo la cerimonia di investitura da vassallo e signore era centrata su un giuramento che nel periodo Kamakura fu trascritto su un
rotolo, kishomon. Il kishomon dopo essere stato compilato era bruciato e sciolto in un liquido che il samurai beveva, in questo modo il bushi interiorizzava sia materialmente che simbolicamente il patto che aveva fine solamente con la morte da parte di uno dei due contraenti. Il legame che univa i due era talmente forte che quando un signore moriva, molti dei suoi samurai si suicidavano per seguirlo anche nell’aldilà. Questa usanza era chiamata junshi e fu vietata per legge dopo che interi clan di samurai si suicidarono, non sparì però completamente. Uno degli episodi più famosi è senz’altro quello dei “47 ronin” che si uccisero dopo avere vendicato il proprio signore. Gli obblighi del samurai verso il proprio signore erano molti: fedeltà, sottomissione, turni di guardia, fornitura di guerrieri, partecipazione alle spese per il mantenimento del potere da parte del proprio signore, in cambio il signore garantiva protezione, aiuto e ricompense dopo le battaglie.
I principi che
legavano il samurai al signore erano fondamentalmente due: giri ossia dovere e chugi ossia lealtà. Il samurai doveva, inoltre, possedere saggezza ossia chi, valore ossia yu, benevolenza ossia jin; doveva essere coraggioso e forte ma nello stesso tempo composto e magnanimo, il coraggio era uno degli elementi fondamentali naturalmente. Il samurai era al servizio del Daimyo, Signore di un clan o di una provincia ricco e potente, a sua volta il Daimyo era al servizio dello “Shogun” (Generalissimo), il quale nominato dall’Imperatore, prima di diventare Shogun era anch’egli un Damyo. Lo Shogun governava in modo dispotico ed autoritario in nome dell’Imperatore, ma di fatto quest’ultimo possedeva solamente una carica onorifica.
Il termine “Banzai”! era anticamente usato per gridare “Viva l’Imperatore” in pratica ha lo stesso significato del classico “God save the Queen” degli inglesi.
 Questa parola entrò a far parte dell’uso comune nel periodo Meiji, quando nel parco Ueno di Tokyo
apparve l’Imperatore Meiji e la folla per salutarlo urlò: BANZAI !
L’origine di tale espressione è comunque molto più remota. Nacque, infatti, tra il 313 e il 339. quando a causa dell’impoverimento del popolo l’Imperatore Nintoku sospese per alcuni giorni la riscossione delle tasse e proibì tassativamente qualsiasi lavoro di riparazione e abbellimento del proprio palazzo, per evitare spese a carico dell’erario.
Dopo che la situazione economica si normalizzò e la riscossione delle tasse riavviata, quando l’Imperatore si affacciò al balcone della sua residenza, la folla lo acclamò con il saluto: BANZAI !
Il seppuku era chiamato anche volgarmente hara-kiri = ventre-taglio, era il modo più onorevole che il samurai aveva per togliersi la vita ed era la dimostrazione finale del suo coraggio. Questo rituale era considerato un privilegio riservato solamente ai samurai i quali avevano padronanza assoluta del proprio destino. Non si conoscono le origini di questa antica pratica. Sono,
però, conosciute le occasioni per praticarla:
  Per seguire anche nell’aldilà il proprio “Signore”, per evitare di  essere catturato dal nemico in caso di sconfitta, per contestare e fare cambiare una decisione presa da un Signore   Per colpe commesse verso un superiore
Per comprendere il seppuku bisogna tornare allo studio dello zen praticato dai samurai, secondo lo zen la morte e la vita erano sullo stesso piano e quindi l’atteggiamento del giapponese deve essere positivo per entrambi gli aspetti
In Giappone la morte viene indicata con vari termini:
- yamagakuru= ritirarsi sulla montagna
- kumogakuru= sparire nelle nuvole
- iwatagakuru= addentrarsi nella grotta
Per l’Hagakure Bushido significava morte e il guerriero doveva pensarci continuamente, sia alla mattina quando si alzava che la sera prima di dormire, in questo modo la sua mente sarebbe stata preparata.
Questo estremo atto era contemplato nel bushido come metodo per evitare il
disonore. Nel XVII secolo furono introdotte rigide regole nel hara kiri, che lo trasformarono in un vero e proprio rituale. In Giappone il ventre hara, era considerato il centro dell’individuo, sede delle emozioni, della volontà, centro fisico e spirituale, quindi compiere hara-kiri significava uccidere completamente l’uomo.
Le spade, secondo l’esaminato codice dei samurai, nei periodi di guerra, erano e sono ancora considerate lo strumento mediante il quale il pensiero dei samurai si concretizza in azioni. I professionisti della guerra si impegnano tuttora, per tale ragione, a perfezionarle, decorarle e definirne le norme d’uso affinché la loro bellezza esteriore ne rispecchi la nobiltà dell’impiego.
La spada simboleggia l’anima stessa del samurai e perciò è un oggetto sacro e prezioso. Solo ai samurai è consentito portare la sciabola lunga (katana) e quella corta (wakasashi). In coppia queste armi sono chiamate daisho.
Le sciabole giapponesi sono composte da differenti
pezzi ossia: “la Lama (Tò), l’Impugnatura (Tsuka), la Guardia (Tsuba), il Fodero (Saya)”.
 Le katane sono state nominate diversamente se hanno periodi di forgiatura diversi:
Koto, sciabole antiche fabbricate dal 900 al 1530, Shintô, sciabole nuove fabbricate dal 1530 al 1897, Shin-shintô, sciabole nuovissime fabbricate dopo il 1867.
 La spada in Giappone è considerata, ancora oggi, come un Kami e per questo può dare la vita e dare la morte, quindi gli si attribuiscono molti poteri soprannaturali. Secondo la leggenda è al tempo dell’imperatore Mommu (697-698) che venne inventata la katana, destinata a diventare l’arma più usata dai guerrieri giapponesi e che nessun altro paese al mondo è mai riuscito a riprodurre. Le prime spade furono forgiate da cinesi e coreani, solo in un secondo tempo, IX secolo, con l’affermarsi della classe dei samurai il Giappone sviluppa una propria tecnologia di lavorazione dell’acciaio temperato.
Il fabbro era molto importante per la
fabbricazione delle spade, era da lui che l’arma riceveva tutte le caratteristiche importanti e spirituali che ne caratterizzavano l’importanza, non occorreva solamente abilità tecnica del forgiare, ma il fabbro doveva possedere qualità spirituali che infondeva nella spada da lui costruita, non per niente il fabbro era spesso di nobile origine e doveva condurre un’esistenza pacata e dignitosa, quasi religiosa, attenendosi a precise regole comportamentali nel rito della creazione della katana. Ogni famiglia di forgiatori aveva delle tecniche personali che venivano tramandate di generazione in generazione.
I figli dei samurai, invece, ricevevano in eredità, dopo la morte del loro padre, la sua katana, ma la poteva utilizzare solo dopo il quindicesimo anno d’età, i figli dei samurai prima dei quindici anni si potevano riconoscere perché portavano un altro tipo di spada, la mamori-katana, che era più che altro un talismano che un’arma.
Il samurai non si separava quasi mai dalle sue
due spade, solo in occasioni speciali quali visite ed incontri o quando si recava nelle case da te,doveva per forza fare a meno della spada grande (katana), poteva però tenere la spada piccola (wakizashi) detta "la guardia del suo onore".
Un altro elemento elemento molto importante c’era nella vita di un guerriero samurai ossia la sua armatura.
Durante il Periodo Heian le armature erano un insieme di ferro e cuoio, successivamente l’armatura si evolse fino a formare la famosa composizione fatta da lamine di ferro fissate da lacci in pelle o in seta, che ha caratterizzato tutta la storia del Giappone.
 Per i giapponesi le armature non dovevano essere pesanti e ingombranti perchè sarebbe stato problematico nel combattimento avere i movimenti limitati, perciò nel costruire le armature si cercò di bilanciare il fattore protezione con la leggerezza. Le armature fabbricate prima del XVI secolo erano note come yaroi, katchu, do-maru, haramachi, mentre quelle fabbricate dopo
erano chiamate gusoku. I componenti principali dell’armatura erano il pettorale, yoroi, l’elmo, kabuto, la maschera, ho-ate, le maniche, kote, gli schinieri, sune-ate, i pantaloni, koshi-ate.
Le armature complete erano indossate solamente dai guerrieri d’alto rango, i sottoposti ne portavano soltanto alcune parti fatte di mariali meno pregiati.
La parte più decorativa dell’intera armatura era senz’altro l’elmo, aveva svariate forme: di montagna, di testa di drago, di demone, tutti gli elmo presentavano un’apertura sulla sommità, chiamata "la sede del dio della guerra", che aveva il compito di permettere al dio di entrare in contatto con la mente del samurai.
La parte più caratterizzante era comunque la maschera, fatta di cuoio, ferro, acciaio, poteva essere costituita da uno o più pezzi ed aveva le sembianze di demone, coreano, barbaro, demone da naso lungo e persino da donna. La funzione della maschera era quella di riparare il viso e di equilibrare l’elmo.
La maschera e
l’elmo offrivano una buona protezione ma impedivano al bushi di aprire la bocca, per cui si legge sui manuali militari che per bere i samurai utilizzavano uno stelo di bambù di una freccia. Il samurai in battaglia portava tre sacche: una per le provviste chiamata kate-bukuro, una per le teste del nemico, kubi-bukuro ed una terza per il riso, uchi-gae, attorno alla vita il samurai portava anche una specie di salvagente costruito di pezzi di materiale gonfiabile che serviva quando attraversava fiumi o laghi.
L’essenza della cultura dei valorosi guerrieri samurai e del Giappone in generale a qull’epoca si basava, come si è già detto, sulla “Filosofia Zen”.
Il termine zen è la lettura giapponese del vocabolo cinese chan, che è l’equivalente della parola sanscrita dhyana,che significa letteralmente "meditazione". Lo Zen venne introdotto per la prima volta in Giappone durante il XII secolo dal monaco Eisai. Nato in India, lo zen era arrivato in Cina verso la fine del V secolo e aveva
trovato nel taoismo cinese un nuovo impulso.
Durante il periodo di Kamakura era stato installato in Giappone qualche monastero zen, ma fu soprattutto sotto gli Ashikaga che gli shogun diedero alla setta l’appoggio che ne favorì l’affermazione. La dottrina zen dà grande importanza ad un cammino di illuminazione personale che ha come meta il raggiungimento di una comprensione intuitiva della realtà non mediata dalla ragione (satori), che viene raggiunta attraverso lunghe sedute di meditazione (zazen) e attraverso l’attenzione esercitata anche nelle occupazioni apparentemente più umili. Tale "risveglio illuminato" non è aiutato dal ragionamento e dalla logica che anzi costituiscono un intralcio in quanto imprigionano la realtà in una gabbia di concetti precostituiti, riduttivi e ultimamente illusori; per questo motivo l’addestramento zen fa volentieri ricorso a paradossi logici (kôan) o ad atteggiamenti sconcertanti o addirittura violenti (la tradizione zen è ricca di aneddoti a questo
proposito). Analogamente lo zen è diffidente nei confronti della cultura e dei libri come mezzo di trasmissione della dottrina; questa può essere appresa solamente dall’insegnamento diretto di un maestro che guidi ad una esperienza vissuta personalmente. In un certo senso si tratta di una dottrina che opera un ritorno alla semplicità della predicazione originale del Buddha, trascurando o rigettando esplicitamente le costruzioni intellettuali e le interpretazioni metafisiche proprie di altre scuole.
 Il buddismo zen ha avuto una grande importanza nello sviluppo della cultura giapponese a partire dall’età medioevale fino all’epoca presente. La sua semplicità dottrinale, il suo richiamo ad una morale semplice e austera, alla meditazione e all’autocontrollo ben si accordavano con i valori ed il modo di vivere della classe dei guerrieri al potere. In campo artistico questi ideali si sono tradotti in quella concezione estetica semplice e sobria, raffinata ma essenziale che siamo
soliti associare con l’arte giapponese in generale (e che viene descritta in una parola dal termine shibui) ma che in realtà nasce in questo periodo (sicuramente gli ideali estetici della corte di Heian erano alquanto diversi). Tale concezione è esemplificata da alcune forme d’arte tipicamente giapponesi che sono nate o hanno avuto una nuova fioritura a partire dall’età medioevale: la pittura a inchiostro di china (sumi-e o suibokuga), la costruzione di giardini con acqua o "asciutti", la cerimonia del tè (cha no yu o chadô o sadô), l’arte di disporre fiori (ikebana). Un riflesso di questa tendenza estetica si può parimenti riscontrare anche nella musica. Bisogna tuttavia evitare dal considerare troppo schematicamente questa connessione tra zen e arte come un’influenza unidirezionale della religione sugli altri campi della cultura; si potrebbe forse altrettanto fondatamente sostenere che i giapponesi si siano scelti la religione che più li soddisfaceva, modificandola ed adattandola alla propria mentalità.
Un altro elemento molto importante nella cultura dei samurai giapponesi è stato, come si è già detto, il Bushido. Questo codice comportamentale fu messo per inscritto da Tsuramoto Tashiro che raccolse le regole del monaco-samurai Yamamoto Tsunemoto (1659-1719) nel famoso testo Hagakure che significa "all’ombra delle foglie".
 Nel bushido si trovavano elementi  “Zenisti” e “Scintoisti”. La formazione del samurai ideale fu il risultato di varie componenti, religiose, filosofiche, sociali, che interagirono determinandone le regole da seguire. Sarà proprio il buddismo zen a rendere lo spirito del samurai forte come la sua spada. Il samurai doveva dimostrare impassibilità e autocontrollo in tutte le circostante e per questo si allenava per anni. Grazie allo zen il samurai imparava ad avere padronanza assoluta di se stesso in qualsiasi situazione; lo zen insegnava molte altre cose al samurai, come la magnanimità verso i deboli, i vinti, scrivere poesie
o semplicemente ritirarsi a bere del tè (cha).
Il samurai doveva possedere: senso del dovere (Giri), risolutezza (Shiki), generosità (Ansha), fermezza d’animo (Fudo), magnanimità (Doryo) e umanità (Ninyo).
Nel Giappone feudale, il supremo capo politico-militare, teoricamente sottomesso all’imperatore, ma praticamente indipendente  e investito di pieni poteri. Il termine è l’abbreviazione di SEI-I-TAI-SHOGUN, che significa letteralmente "generalissimo inviato contro i barbari".Nel 1180 Minamoto no Yoritomo aveva scelto Kamakura (una piccola città del Kantô, a sud dell’odierna Tôkyô) come base militare da cui dirigere la guerra contro i Taira; anche dopo la sua vittoria egli scelse di non trasferirsi nella capitale ma di rimanere a Kamakura per non perdere il contatto con le famiglie militari alleate su cui si basava il suo potere. A differenza dei suoi predecessori, Yoritomo non aspirava a cariche ufficiali a corte; nel 1192 si fece invece nominare shôgun (generale supremo
dell’esercito) con il privilegio di poter trasmettere la carica ereditariamente ai propri discendenti. In origine il titolo di shôgun veniva attribuito in via temporanea ai generali incaricati di spedizioni militari contro i "barbari del Nord" (Ainu), ma con Yoritomo il titolo divenne permanente e si rivestì di un potere sempre maggiore.

Yoritomo confiscò le terre che erano state dei “Taira” e le distribuì ai propri alleati. Inoltre si assicurò il controllo anche sui rimanenti territori istituendo la nuova figura dei jitô, funzionari militari che erano nominati direttamente da Kamakura e che avevano il compito di amministrare i territori per conto dei proprietari lontani (spesso nobili che risiedevano alla corte di Heian). A loro volta i jitô erano controllati da sovrintendenti provinciali (shugo) che avevano compiti di mantenimento dell’ordine pubblico e di polizia e che riferivano direttamente allo shôgun.
Inizia così quello che solitamente viene considerato
come il periodo medioevale della storia giapponese. In effetti il rapporto esistente tra lo shôgun e i suoi sottoposti era molto simile a quello tra i signori feudali e i loro vassalli nel Medioevo europeo: si trattava di un rapporto basato sul legame personale tra signore e vassallo e tra le rispettive famiglie più che su una funzione svolta all’interno di un ordinamento burocratico. In questo rapporto il vassallo assumeva un obbligo assoluto di fedeltà verso il proprio signore, che si esprimeva soprattutto nel fornirgli truppe in caso di conflitto; in cambio in signore concedeva ai propri vassalli protezione in caso di aggressione e il diritto a godere delle rendite derivanti dalle terre date in concessione. Tutti questi funzionari militari erano nominati e dipendevano direttamente dallo shôgun; la loro attività era coordinata da uffici centrali dalla struttura molto semplice che risiedevano a Kamakura ed operavano soprattutto in base ad un diritto consuetudinario più che su leggi scritte.
Come nel caso del sistema feudale europeo, anche il governo shôgunale giapponese costituisce quindi il compromesso tra un’idea di stato centrale e burocratico (incarnata dalla figura dell’Imperatore) e una gestione del potere locale basata sui rapporti personali e sui vincoli familiari che deriva ultimamente da tradizioni tribali. In Europa queste due tradizioni possono essere fatte risalire alla giurisprudenza dell’Impero Romano ed alle tradizioni dei clans barbarici dell’Europa centro-settentrionale; in Giappone le due "anime" sono costituite dall’idea di stato centralizzato e burocratico importato dalla Cina dei Tang e dalla struttura sociale preesistente basata su piccole unità tribali (uji). A differenza di quanto avvenne in Europa però in Giappone (almeno inizialmente) la struttura feudale non sostituì completamente la struttura burocratica del governo centrale ma si affiancò ad essa. Si venne quindi a creare in Giappone un doppio sistema di potere, che aveva due
centri distinti nella corte imperiale di Heian e nel nuovo bakufu ["governo della tenda"] di Kamakura. Ciascuno dei due governi aveva un proprio sistema amministrativo, legislativo e fiscale; sia l’Imperatore che lo shôgun emettevano propri editti, avevano propri funzionari e riscuotevano proprie tasse. Questo sistema misto continuò per tutto il periodo Kamakura, formalmente senza atriti in quanto le due strutture avevano in teoria ambiti di potere ben distinti (l’Imperatore aveva giurisdizione sui civili e lo shôgun sui militari); in pratica però il governo shôgunale andava diventando sempre più importante e quello imperiale diventava puramente nominale. In particolare i funzionari del bakufu cominciarono a dirottare verso le casse proprie e dello shôgun una parte sempre maggiore delle rendite che precedentemente spettavano alla nobiltà di corte e all’imperatore. All’inizio del periodo Kamakura la frazione di tasse assorbite dai jitô era di poco superiore al 10%, ma essa crebbe progressivamente fino a diventare del 50% verso l’inizio del 1300 dc. Naturalmente ciò provocò un progressivo impoverimento della corte imperiale ed una parallela perdita di potere economico e militare. Durante il periodo Kamakura questo fenomeno fu comunque parziale: l’Imperatore e la nobiltà di corte mantennero comunque possedimenti terrieri e quindi godettero di un certo potere economico che tra l’altro consentiva loro di condurre un’esistenza agiata e di proseguire il modo di vivere raffinato del “Periodo Heian.”
 Nel secolo successivo, a partire dal tutto il potere politico effettivo passò nelle mani dello shôgun e la figura dell’Imperatore fu relegata ad un ruolo puramente nominale e sacrale. Da quel momento e fino a tutto il periodo Edo lo stato giapponese fu quindi caratterizzato da una separazione tra il potere politico effettivo (detenuto dallo shôgun) e l’autorità nominale dell’Imperatore, che peraltro non fu mai messa in dubbio poiché formalmente lo shôgun veniva
nominato dall’Imperatore.
Un’altra tipologia di guerriero giapponese che era sempre al servizio dell’imperatore era quella della setta dei “Ninja”.  
 Non esisteva arma che un NINJA non sapesse costruire ed usare, non esisteva forma di combattimento in cui non eccellesse, non esisteva nulla che potesse intimidirlo al punto di farlo rinunciare ai suoi obiettivi perchè, sin dalla prima missione, s’era abituato a varcare la sottile soglia tra la vita e la morte...e ne era tornato sorridente. Ora cavalcava la Tigre, uomo tra gli uomini, eppure in qualche modo diverso da loro.
Per il ninja non esistevano differenze di casta: gli uomini si dividevano in adepti del proprio clan, cui era dovuta fedelta’ assoluta, e gli altri nei confronti dei quali tutto era lecito.
Un ninja catturato veniva ucciso bollendolo vivo dopo altre atroci sevizie; per contro il Guerriero delle Tenebre non era mai inutilmente crudele...Egli aveva già esplorato la propria parte oscura e
non sentiva affatto il bisogno di cedervi. Uccideva, se era necessario, se gli veniva comandato, nel modo piu’ veloce ed efficiente, più "pulito" possibile.
La sua stessa concezione del mondo lo portava ad agire in un modo particolare: per attingere alla forza che pervade e collega tutto cio’ che e’ vivo nell’universo occorre turbarne il meno possibile l’Armonia. Uno dei motivi del terrore che ispiravano i Ninja era proprio questa loro diversità, questa loro assenza di passioni, tanto che dopo aver appreso ad estinguerle dentro di se l’adepto doveva imparare a simularle per potersi mescolare al popolo, per potersi infiltrare tra i propri simili, tra i propri amici, e quindi tra la società.
In Giappone la lunga vicenda del ninjutsu crebbe con vividezza alla superficie della storia nel mezzo millennio che va dal 1300 al secolo XIX. Prima e dopo questi cinquecento anni è un continuo affiorare e scomparire, far capolino tra cronaca e leggenda, spuntare a sorpresa dalle pagine di
antiche pergamene ufficiali o dalle parole della tradizione orale tramandata; ma i ninja confondono il loro percorso anche nella storia:
Nel Giappone sconvolto da un lungo periodo di guerre furono sempre piu’ i nobili che si rivolgevano alle famiglie Ninja per essere aiutati nelle battaglie o per far compiere silenziose vendette. Grazie a ciò il potere politico dei clans si sviluppo’ enormemente sino al punto che, attorno al 1467, fu lo stesso Shogun Yoshihira Ashikaga, il capo militare assoluto dell’impero, a richiedere il loro supporto. In questo modo intere provincie del Giappone finirono sotto l’influenza ninja. Con alti e bassi questa situazione si protrasse fino all’arrivo delle navi portoghesi e dei primi missionari gesuiti, che nutrivano un profondo odio, alimentato dalla paura, verso le discipline interiori dei ninjutsu (ove ogni individuo è sacerdote di se stesso, senza intermediari tra il propro io e l’universo), e dall’altro erano costretti a scontrarsi con il potere
dei clan ninja, incoraggiarono la religione cristiana per isolare il ninjitsu sul terreno culturale. Successivamente  decisero di scendere in guerra aperta nel 1579, conquistando e distruggendo la roccaforte Ninja di Iga. Nella battaglia di Teusho Iga no Ran le truppe dei gesuiti subirono una disastrosa disfatta per opera dei Ninja che dimostrarono in questa come in altre occasioni di essere eccellenti combattenti anche in campo aperto.
Umiliati e colmi di rabbia i gesuiti mandarono un grande esercito contro la provincia di Iga nel 1581 ma l’anno successivo furono costretti a ritirarsi dopo dure sconfitte ad opera dei ninja.
Con l’avvento allo shogunato dei Tokugawa (1582), favorito da un uso spregiudicato dei ninja, per l’Antica Arte della Notte si aprì un nuovo capitolo che la vide legarsi al potere centrale: i ninja si trasformarono in spie, poliziotti e repressori. Gradualmente persero per strada gli originali scopi di ricerca interiore di cui conservarono solo dei
vuoti atteggiamenti senza piu’ ricordare l’antica funzione, cosa questa che fece rapidamente decadere anche il loro livello tecnico, tanto e’ vero che le due piu’ importanti azioni che la storia ricordi furono dei fallimenti: nel 1637 il potere centrale tentò di usare l’antico contrasto tra ninja e cristianesimo lanciando i primi nella repressione di una rivolta di contadini convertiti nella zona di Nagasaki. Nessuno dei ninja riuscì in una impresa che, un tempo, non era una difficoltà, essendo tra le piu’ comune ed abituali: penetrare nella fortezza del nemico! Se ne andarono invece dopo aver rubacchiato le scorte di viveri dell’esercito che li aveva assoldati.
Nel 1853, quando le "navi nere" del commodoro Perry violarono l’isolamento in cui era rinchiuso il Giappone, una spia ninja fu incaricato di salire di nascosto a bordo di una di esse per sottrarre documenti che facessero intuire le intenzioni degli stranieri. Egli ritornò dalla missione con dei manoscritti che sono ancora
oggi conservati dalla famiglia Sawamura nella citta’ di Iga-veno. I manoscritti erano una lettera di un marinaio olandese alla sua fidanzata ed una canzone che decanta le doti delle donne francesi a letto e delle inglesi in cucina.
Il Ninjutsu era dunque morto? Per le scuole che si legarono al potere Tokogawa e via via a quelli che lo seguirono, questa sembrava essere la triste realtà ma non tutti i Ryu di ninjitsu avevano condiviso la scelta del 1582.
Furono questi Clan, ritiratisi allora tra le ombre di monasteri lontani a proseguire la ricerca millenaria, a tramandare l’arte nella più’ vera essenza.
Ma il potere, qualunque forma assuma, ha pur sempre bisogno di uomini che all’occorrenza sfoderino doti non comuni, arrivando là dove l’individuo medio, su cui esso fonda la sua supremazia, non può giungere. Avvenne così che allo scoppiare della guerra Russo-Giapponese gli sbigottiti marinai zaristi si trovarono a dover affrontare misteriose figure vestite di nero che
abbordavano le loro navi e scomparivano dopo averle sabotate. Avvenne così che, nella prima guerra mondiale, tra la superstiziose truppe turche si sparse la leggenda dei diavoli giapponesi capaci di uccidere con il solo tocco di un dito. E quando la seconda guerra mondiale si trasformò in un tragico gioco a rimpiattino tra la jungle di tenebrosi isolotti filippini, lo Stato Maggiore giapponese tornò a riscoprire l’importanza di persone che sapessero muoversi furtivamente nella notte senza lasciare tracce, che potessero colpire il nemico senza neppure apparire, che sopportassero disagi di ogni genere e natura con stoica indifferenza.  L’occupazione militare del Giappone da parte degli americani costrinse tutte le Arti Marziali ed il ninjutsu in particolare a tornare alla più totale segretezza, se non che nel frattempo il seme dell’Arte era stato gettato in nuovi terreni: si apriva infatti nel mondo una diversa partita nella quale gli alleati di ieri divenivano i nemici di oggi ed iniziavano a combattere una guerra segreta fatta di colpi di mano, di attentati, di omicidi commissionati, del furto di informazioni riservate.
 Ancora una volta l’Arte Silenziosa era chiamata ad una scelta. Ed ancora una volta si divise. Taluni clans, perseverando nelle scelte del loro antenati, decisero di mantenere per i loro affiliati un ruolo di stretto legame con le istituzioni ufficiali, altri decisero di troncare ogni legame con il mondo esterno e si isolarono completamente.
I samurai e i ninja, quindi, sono stati le più formidabili “Armi” che il mondo abbia mai visto.
Su queste “Affascinanti Figure” sono stati fatti innumerevoli film, serie tv e fumetti e cartoni animati in cui si esaltava le loro doti, coraggio, fedeltà e sprezzo del pericolo.
Forse ora che anche la cultura occidentale guarda la società orientale con molta più attenzione, (risultato che si deve attribuire anche al grande “Effeto Domino” dell’ 11 Settembre e della guerra in Iraq), non sarebbe
male che i nostri leaders guardassero con rispetto e riverenza questi uomini che erano, e in alcuni casi sono ancora, un grande modello a cui ispirarsi, soprattutto anche per la vita di ogni giorno.