Inps, la grande beffa dei ricorsi
 











Una guerra silenziosa tra cittadino e Stato
C’è una guerra silenziosa che il cittadino combatte ogni giorno contro l’Inps. Una guerra a colpi di cause e di ricorsi. Una guerra che si consuma nelle aule dei tribunali. E che riguarda il diritto ala pensione e alle misure assistenziali che l’Istituto è chiamato ad assicurare. Nel 2012 la querelle giudiziaria si è conclusa con 172mila sentenze a favore dell’Inps e 88mila contro. In quattro anni (dal 2008 al 2012) il numero delle sentenze che hanno dato ragione ai cittadini è crollato di circa il 60%, da 143mila a 88mila. Cosa è successo in questo periodo? Chi ha cambiato le regole in corsa, mettendo le mani nelle tasche degli italiani?
RE Inchieste ha ricostruito gli interventi legislativi che hanno contribuito a sbilanciare i rapporti di forza in favore dell’Inps. E ha raccolto la testimonianza di uno degli avvocati più impegnati nella tutela dei diritti dei cittadini che ha chiesto di rimanere
anonimo per non mettere a rischio gli interessi dei suoi assistiti. Il risultato è una storia per molti versi inedita, che tocca i destini di centinaia di migliaia di italiani, e almeno in parte spiega perché vincere in tribunale contro l’Inps sia diventato così difficile.
Luglio 2011. L’Italia come la Grecia: lo spettro del default agita il Paese, il presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, è tirato per la giacchetta dall’Unione europea affinché vari una serie di provvedimenti per evitare il peggio. Il 6 luglio il governo approva d’urgenza il decreto legge 98, ultimo tentativo del Cavaliere prima della lenta agonia politica che lo porterà alle dimissioni di novembre. I conti dello Stato non tornano. E tutti sanno che uno dei capitoli da toccare è quello della spesa pensionistica. Antonio Mastrapasqua, il presidente dell’Inps nominato nel 2008 (e costretto a lasciare lo scorso febbraio dopo lo scandalo delle poltrone accumulate), ne ha discusso più volte con il sottosegretario
Gianni Letta ribadendo la necessità di calmierare le spese. Così, nel decreto approvato in tempi record spuntano alcuni articoli che mutano radicalmente i rapporti di forza tra l’Inps e i pensionati italiani. Tra questi, due commi dell’articolo 38 abbreviano i termini di decadenza per richiedere il pagamento di prestazioni non corrisposte o erroneamente calcolate. Norme di interpretazione autentica, che non si limitano a cambiare la legge, ma intervengono sui processi in corso, facendo cadere la ghigliottina della decadenza anche su chi ha già vinto il primo grado di giudizio.
Davide contro Golia
Le misure inserite nella "manovra di luglio" sono solo l’ultimo di una lunga serie di interventi legislativi sul tema delle pensioni che hanno segnato il IV governo Berlusconi. Interventi che hanno avuto un unico obiettivo: ridurre le possibilità di ricorso giudiziario contro l’Inps e dare all’Istituto più libertà d’azione nei confronti dei cittadini. Il regalo più
grande arriva con il decreto legge 78 del 2010, poi convertito nella legge 122, che contiene una manciata di articoli dall’effetto dirompente. Il comma 1 dell’articolo 12 riconosce all’Inps la possibilità di pagare le pensioni ai lavoratori dipendenti dopo 12 mesi dalla maturazione del diritto, e ai lavoratori autonomi dopo ben 18 mesi. Il comma 10 dell’articolo 30 riconosce all’Inps il potere di continuare a riscuotere denaro dai cittadini nonostante sulle somme pretese ci siano ricorsi amministrativi pendenti. O ancora l’articolo 12septies e undecies rende onerosa la ricongiunzione sotto l’Inps di periodi contributivi maturati presso diversi enti previdenziali. Molte di queste leggi intervengono su processi in corso e concorrono a mutare l’indirizzo della giurisprudenza a danno dei lavoratori.
Tra il 2011 e il 2012 la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo emette quattro sentenze contro il nostro Paese. I ricorsi "Maggio e altri contro Italia", "Agrati e altri contro
Italia", "Arras e altri contro Italia", "De Rosa e altri contro Italia" vengono accolti perché la Convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce come illegittime le norme che incidono retroattivamente su cause in corso. La risposta dell’Istituzione comunitaria è netta: lo Stato non può intervenire con leggi ad hoc al fine di assicurarsi un esito favorevole nei giudizi che lo vedono coinvolto. Una prassi che si è ripetuta su molte delle leggi che hanno riscritto gli equilibri tra l’Inps e i lavoratori.
Sulla partita della decadenza si gioca una grossa fetta del contenzioso aperto contro l’Inps. Un passaggio chiave che ha portato anche la Corte dei Conti a pronunciarsi nel novembre scorso con queste parole: "Sebbene le procedure non consentano di avere informazioni esaustive sulla durata delle singole fasi del procedimento, va sottolineata l’esigenza - anche al fine di ridurre gli oneri per interessi - di ricondurre il più rapidamente possibile il periodo dell’intero iter entro la
scadenza prescritta, intervenendo sui tempi di esclusiva competenza dell’Istituto". Dal 2003 ad oggi il legislatore si è espresso più volte per ridurre i termini di decadenza in favore dell’Inps. È stato introdotto il termine di 6 mesi per presentare un ricorso giudiziario per l’invalidità civile; 3 anni per le domande di prestazioni previdenziali in genere; e 5 anni per prestazioni già riconosciute dall’Inps ma non ancora pagate. Superati questi termini un cittadino non può più far valere i propri diritti. Nella vicenda hanno fatto scuola le norme già citate e inserite nella manovra Berlusconi del luglio 2011. Su queste leggi il Tribunale di Roma ha sollevato una questione di legittimità alla Corte Costituzionale.
Dal 2002 al 2007 l’Inps viene ripetutamente condannato a pagare le differenze sulle indennità di buonuscita riservate ad alcune categorie di ex-dipendenti. Piccole somme, moltiplicate però per molte persone. Un diritto dei pensionati riconosciuto anche dalla Corte di
Cassazione che nel 2007 interviene nel dibattito con diverse sentenze contrarie all’Istituto. Anche le Sezioni Unite della Corte, presiedute allora dal magistrato Vincenzo Carbone (l’ex primo presidente della Corte di Cassazione che il 18 novembre del 2013 viene rinviato a giudizio con l’accusa di corruzione per aver fatto parte della P3), si pronunciano a favore dei pensionati. Nel 2008 però qualcosa cambia. Una rotella del meccanismo comincia a girare in senso opposto e - con una nuova interpretazione della legge - le Sezioni Unite ribaltano le stesse sentenze che, fino a un anno prima, avevano sottoscritto. Addirittura la Cassazione impugna le sentenze dei tribunali nonostante l’Inps, di fronte all’evidenza della giurisprudenza, avesse in molti casi accettato di desistere dalle sue contestazioni. "Di fronte a questo repentino cambio di interpretazione della legge - dichiara oggi l’avvocato cassazionista specializzato nelle cause di lavoro che ha chiesto di rimanere anonimo - abbiamo fatto richiesta di revocazione (l’ultima forma di ricorso possibile) per palese errore di fatto, ma la nostra domanda è stata dichiarata manifestamente infondata". In molti casi, anche la Cassazione ha le mani legate e non può far altro che registrare i cambiamenti imposti dal legislatore. Nel 2011, con l’approvazione delle norme di interpretazione autentica volute dal governo Berlusconi, la posizione della Corte si fa necessariamente più rigida. Senza considerare la potenziale incostituzionalità di queste norme, e la posizione in merito già presa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la Cassazione le accoglie e cambia orientamento rispetto al passato, bloccando una parte consistente del contenzioso contro l’Inps.
Sono diverse le cause istruite negli ultimi mesi contro l’Inps per il mancato riconoscimento delle pensioni di reversibilità alle vedove slave. La storia è tanto semplice quanto curiosa: in forza di accordi internazionali l’Inps riconosce le pensioni di reversibilità
alle vedove straniere di chi ha versato contributi all’Istituto. Una regola che tuttavia sembra non valere per le donne di nazionalità slovena e croata. "Tutte le domande che arrivano da quel fronte - spiega l’avvocato del lavoro Rosa Maffei - vengono puntualmente respinte. Nel farlo l’Inps si appella all’interpretazione di una vecchia legge che modificherebbe questi rapporti, ma in realtà si tratta di un appiglio pretestuoso che è stato già smontato in numerose cause". La conseguenza è che l’Inps perde le cause contro le vedove slave, ma non cambia il suo orientamento e continua a respingere le legittime domande di pensione, preferendo il rischio del contenzioso legale alla certezza del pagamento.
Nella battaglia legale tra l’Inps e i cittadini, un nuovo fronte rischia di aprirsi nei prossimi mesi e riguarda l’adeguamento al costo della vita delle prestazioni temporanee a sostegno del reddito. Un obbligo che non sempre l’Inps rispetta e che - denuncia l’avvocato Maffei - non sta
rispettando nei versamenti relativi alle indennità di mobilità, il sostegno al reddito che anticipa il licenziamento. "La legge - commenta il legale - dice chiaramente che questa prestazione va adeguata al costo della vita, ma l’Inps, per il momento, si mostra inadempiente. È evidente che questo capitolo rischia di diventare una bomba in termini giudiziari e, quando tutti cominceranno a rivendicare il loro diritto, promette di trasformarsi in un contenzioso seriale". Allora tornerà ad aprirsi la strada dei tribunali. E forse, di fronte alle ripetute vittorie dei cittadini, qualcuno penserà che sia arrivato il momento di approvare una nuova legge. Una norma capace di "regolamentare la materia" e - soprattutto - preservare le casse dell’Istituto.
La battaglia di Amalia, da Pinerolo a Strasburgo
Ha vinto la sua battaglia contro il cancro ma non quella contro l’Inps. Amalia Casarin, pensionata di 67 anni, non si dà pace. “Dopo 2 anni e mezzo che sono andata in
pensione”, racconta, “l’Inps mi ha chiesto indietro quasi 15.000 euro. È un’ingiustizia: ho perso in Cassazione ma ho fatto ricorso alla Corte di Strasburgo. La mia battaglia non finisce qui”. Lei, pensionata e vedova, sta restituendo all’Inps 14.700 euro con rate mensili, variabili tra 100 e 200 euro. E ha dovuto pagare sempre all’istituto previdenziale altri duemila euro di spese legali in 4 rate mensili da 500. Un salasso che ha pesato e che pesa sulla sua pensione di 1.250 euro.
Ecco la sua storia. Nel 1998, dopo aver lavorato 25 anni come insegnante di educazione tecnica alle scuole medie, Amalia accetta di spostarsi all’Inps per lavorare come impiegata. Dopo 7 anni, però, si ammala di linfoma di Hodgkin e nel 2005 va in pensione con 5 anni di anticipo. Dopo due anni e mezzo l’Inps le chiede indietro i 14.700 euro che – a detta dell’Istituto – dovrebbero corrispondere a indennità erroneamente erogate dall’Inps stesso nel corso dei 7 anni che la donna ha passato a lavorare per
l’ente previdenziale. La signora Casarin fa causa. Vince in primo grado ma perde in appello e in Cassazione. Non si dà per vinta e tramite il suo avvocato fa ricorso alla Corte di Strasburgo.
La norma violata. Perché quando nel 1998 Amalia lascia l’insegnamento, il suo passaggio all’Inps è tutelato da una serie di norme che prevedono la conservazione dell’anzianità maturata e del trattamento economico, oltre a un differenziale economico riconosciuto sullo stipendio nel passaggio tra i due lavori. In ragione di queste normative la signora Casarin percepisce, dal settembre 1998 al febbraio 2004, un emolumento extra chiamato “assegno garanzia stipendio”, dell’importo di circa 100 euro mensili. Dal marzo del 2004, questa voce non le viene più corrisposta poiché l’Inps ne opera il riassorbimento a fronte degli aumenti contrattuali dello stipendio base, intervenuti in quel periodo.
La richiesta di rimborso. Quasi tre anni dopo il pensionamento, avvenuto con 5 anni di anticipo a causa
della malattia, l’Inps chiede alla signora Casarin la restituzione della somma complessiva di 14.727,45 euro (lordi) corrispondente alle voci retributive “assegno garanzia stipendio”. Inizia così la lunga controversia legale che parte dal tribunale di Pinerolo (Torino). In primo grado vengono accolte le richieste della donna secondo il principio che quelle somme non possono essere pretese, perché costituiscono diritti acquisiti, già entrati nel patrimonio del lavoratore e come tali intangibili.
Il dietrofront della Cassazione. L’Inps ricorre in appello e lo vince. La decisione definitiva spetta adesso alla Cassazione, che conferma la sentenza di appello, giudicando il ricorso della signora Casarin “manifestamente infondato”. A nulla vale la sentenza 15144 pronunciata dalla stessa Cassazione a Sezioni Unite l’11 luglio del 2011 che afferma come il cambio di giurisprudenza non può incidere retroattivamente su situazioni stabilizzate. Non resta che la Corte europea dei diritti
dell’uomo. Per far valere il suo diritto Amalia Casarin si rivolge all’Istituzione di Strasburgo sulla base del principio, affermato da numerose sentenze della Corte stessa, che un’interpretazione giurisprudenziale sopravvenuta non può incidere su diritti già acquisiti.
IL CASO
E per un centesimo l’onlus perse i contributi statali
Qualcuno, dentro l’Inps, la chiama la politica dei figli e figliocci. La realtà è che il trattamento riservato a grandi istituzioni non viene spesso replicato con realtà più piccole e meno influenti. La storia della Anffas di Ostia è un caso che fa scuola. L’associazione è una onlus che offre supporto a oltre 450 persone con disabilità molto gravi. Molte di queste sono ragazzi e bambini. Come tutte le istituzioni e gli enti senza scopo di lucro che erogano prestazioni sanitarie convenzionate con lo Stato, la Anffas si è sempre avvalsa della legge 426 che riconosce la possibilità di cedere all’Inps i crediti accumulati verso le Asl
regionali in qualità di “pagamenti dei contributi dovuti”.
In sostanza: la Regione deve soldi alla onlus; la onlus non li incassa e gira il credito all’Inps, scontando l’importo dal pagamento dei contributi per i dipendenti. Una prassi ammessa dalla legge e dallo stesso Istituto, che però sembra non valere per la Anffas. E infatti nel 2011 l’ente previdenziale invia all’associazione una cartella da 320mila euro. Si apre un contenzioso legale che si conclude con una prima sentenza del tribunale che dà ragione alla Anffas e torto all’Inps.
L’esito della partita giudiziaria non basta all’Istituto che, nel 2013, inoltra una nuova richiesta di pagamento per 155mila euro. Stavolta la reazione dell’Inps è ancora più dura perché alla pendenza viene accompagnato il pignoramento di un bene confiscato alla mafia e affidato alla Anffas. La rigidità dell’Inps è tale che il 24 maggio del 2013 l’ente invia un Durc (Documento unico di regolarità contributiva ) nel quale viene denunciato il
mancato versamento dei contributi per un importo di 1 centesimo di euro. Il provvedimento, per quanto dal valore economico ridicolo, è un certificato che impone automaticamente il blocco delle erogazioni dei finanziamenti pubblici regionali e comunali a favore della onlus.
“Per colpa di questo Durc”, spiega oggi il presidente dell’Anffas Ilde Plateroti, “andiamo avanti da quasi un anno senza i fondi pubblici, facendo leva solo sul finanziamento delle banche. Siamo allo stremo e questo nonostante tutto sia in regola”. Il paradosso è stato confermato alcune settimane fa quando il tribunale di Roma ha dato nuovamente ragione alla onlus sulla nuova causa aperta nel 2013, e ha condannato l’Inps al pagamento delle spese legali. “A questo punto”, prosegue Plateroti, “rimane in piedi solo una pendenza di 14mila euro riferita al 2009, dove ancora una volta dimostreremo di avere ragione. Ma nonostante le vittorie in tribunale, i tempi della giustizia restano lenti e prima di vedere sbloccato
il pignoramento dei beni passeranno altri sei mesi”. Daniele Autieri, Luca Ferrari e Paola Cipriani,Repubblica