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PERCHÉ LA DEMOCRAZIA NON PUÒ NON DIRSI ATEA
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Nel libro di Flores d’Arcais si argomentano le ragioni per cui l’ateismo non coincide affatto con la desertificazione morale. Anzi, svestirsi dei panni confessionali, è l’unico modo per dare al dialogo democratico la sua più propria legittimità. flores-democrazia.C’ è una “santa alleanza” che coltiva il proposito di chiedere aiuto a Dio per superare la crisi di valori che attanaglia le democrazie occidentali; uno schieramento eterogeneo in cui è possibile trovare il manifesto antilluminista di Joseph Ratzinger, l’ impegno di Jürgen Habermas perché la religione ritrovi un ruolo importante nello spazio pubblico della cittadinanza, Tariq Ramadan pure decisamente contrario a fare della religione un fatto privato, papa Wojtyla e la sua crociata contro il relativismo etico. Tutti accomunati nella condanna dell’ illuminismo («la superbia luciferina con cui l’ homo sapiens rinnova il peccato originale») e nel sostenere che, in assenza del Sacro, l’ uomo sia irrimediabilmente condannato a una deriva materialistica che lo scaraventa in un deserto etico, condannandolo a una perpetua carestia morale. Contro questo schieramento, con lucida intransigenza, scende ora in campo Paolo Flores d’ Arcais: «O Dio o il cittadino, due sovrani non possono coesistere». Flores non ha dubbi: la democrazia è imprescindibilmente atea; «la religione resta un fatto di coscienza che ha diritto di manifestarsi in forma pubblica solo come culto, senza velleità e pulsioni di colonizzare o comunque colorare una sfera pubblica che per essere democratica deve restare atea». Non solo la democrazia non ha bisogno di Dio per sopravvivere, ma anzi “senza Dio” è la condizione necessaria e sufficiente perché essa possa prosperare. Introdurre la religione nello spazio pubblico – afferma Flores in La democrazia ha bisogno di Dio: falso! - finirebbe per mettere a rischio ogni forma di coesione, sovrapponendo alla fisiologica conflittualità del pluralismo politico laico le tensioni distruttive delle dispute religiose, con le varie confessioni tese a enfatizzare il proprio Dio contro quello degli altri. Come si vede, è un discorso di grande attualità oggi in Italia, anche alla luce della svolta di papa Bergoglio. Prescindendo però dalle ultime novità pontificie, Flores, contro la presenza sempre più invasiva della Chiesa, propone l’ autonomia di una sfera pubblica fondata su un ethos repubblicano «diffuso in modo pervasivo tra i cittadini» e che riconosce come beni irrinunciabili «l’ esercizio inesausto del confronto politico razionalmente argomentato» e «il rispetto di ogni stile di vita che non comporti imposizioni ad altri». I valori che ispirano questo ethos sono quelli “minimi” costituzionali, desunti dal principio “una testa un voto” che è all’ origine storica della democrazia liberale. Proprio pensando all’ Italia, sembra però che l’ ethos pubblico così come viene definito nel libro non basti a rafforzare la sovranità del cittadino tenendola a riparo da quella di Dio. L’ ethos pubblico è una costruzione culturale, nasce dalla capacità della classe politica di costruire un recinto virtuoso in cui i cittadini possano riconoscersi in interessi e in valori comuni. Valori legati ad esempio a un “patto di memoria” che ritrovi nel nostro passato la forza di una tradizione repubblicana, sottolinei le virtù di una democrazia che è nata sulle rovine della dittatura fascista con una impronta “militante” molto accentuata e niente affatto minimalista. Nella Seconda Repubblica i valori sono stati invece schiacciati sugli interessi. E una volta che questo succede, i guasti possono essere irreparabili. Lo spiega bene una citazione di Tocqueville (dello stesso Flores): «La passione del benessere spinge a un ardore insensato verso i beni materiali e porta una nazione a chiedere al suo governo esclusivamente il mantenimento dell’ ordine». Una democrazia ridotta ai minimi termini, segnata da un asfittico pragmatismo e colonizzata dalle ragioni dell’ economia sembra destinata ad arrendersi a un discorso religioso che, con papa Francesco, si ripropone con grande autorevolezza. * * * L’ “AVVENIRE” LANCIA IN RESTA CONTRO IL LIBRO DI FLORES D’ARCAIS Per il quotidiano dei vescovi il laicismo del direttore di MicroMega è scontato, assurdo, stereotipato, datato, perfino libertino, mentre i laici “buoni” con cui dialogare sono Agamben e Scalfari. Flores d’Arcais replica e invita il direttore dell’”Avvenire” Marco Tarquinio a un confronto pubblico. Passo falso sul dialogo di Roberto Timossi, da Agorà, supplemento culturale di Avvenire, 18 ottobre 2013 A partire dalla fine del XX secolo si è diffusa con rapidità crescente un tipo di saggistica detta di solito ‘laica’ oppure ‘laicista’, ma che si può asetticamente definire ‘antireligiosa’. Si tratta di un atteggiamento culturale non nuovo nella storia occidentale e difatti alcuni suoi esponenti europei come Michel Onfray invocano quali riferimenti filosofici gli illuministi e ancor prima il seicentesco movimento libertino. In effetti, come i libertini gli scrittori antireligiosi contemporanei si caratterizzano per la critica pervasiva di ogni forma di religione, per uno scetticismo di fondo, per il radicale relativismo etico e per il rifiuto di qualsiasi autorità tanto in ambito religioso quanto in campo politico. In breve, dal momento che come per i sofisti «l’uomo è misura di tutte le cose», l’autonomia assoluta della coscienza individuale prevale su tutto e in tutto. Su questo terreno si sono posti da tempo in Italia alcuni intellettuali ormai noti quali Paolo Flores d’Arcais, che non a caso è il direttore della rivista “Micromega” fortemente caratterizzata in senso laicista. Dopo aver in vario modo contestato la razionalità della fede anche in dialoghi diretti con l’allora cardinale Ratzinger e rispolverato per il Gesù cristiano la vecchia teoria della divinizzazione mitologica, con il suo ultimo libretto «“La democrazia ha bisogno di Dio”. Falso!» (Laterza) Flores d’Arcais punta a far passare la tesi della totale incompatibilità della religione con i regimi democratici o, più precisamente, dell’inammissibilità per il singolo individuo di portare nel dibattito politico le proprie convinzioni religiose, perché ciò «condanna la discussione democratica a morire prima di cominciare». Il nostro autore non mostra alcun timore di prestare il fianco alla critica di voler dimidiare la personalità del credente, di pretendere assurdamente da un uomo religioso di disgiungere radicalmente la propria religione dalle proprie convinzioni politiche, facendone una specie di dissociato interiore; al contrario, teorizza apertamente che «solo se il Dio che il credente si è creato lo lascia libero di scindersi tra credente e cittadino, di prescindere da Lui nella sfera pubblica», allora la fede religiosa è compatibile con la democrazia, altrimenti si trasforma in un pericolo per essa. Gli Stati democratici devono fondarsi sull’autonomia, che è «autos nomos: chi non riceve la legge da altri, fosse pure dall’Altro e dall’Alto, ma la crea»; pertanto, chi non si separa da questo ‘Altro e Alto’ non può far parte di un consesso democratico senza introdurre in esso elementi di disgregazione. Insomma, «aut la sovranità di Dio aut la sovranità dei cittadini, perciò una delle due deve essere proscritta dalla sfera pubblica»; ed è inutile aggiungere che, delle due, quella che va proscritta è la sovranità di Dio. In un periodo in cui Giorgio Agamben ha riportato a un buon livello il tema della teologia politica, al termine della lettura del libretto di Flores d’Arcais viene spontaneo concludere: niente di nuovo. Leggere il saggio di d’Arcais è infatti come leggere un libro giallo ricolmo di tali e tanti stereotipi che dopo poche pagine si capisce subito chi è l’assassino. Le sue opinioni sono piuttosto scontate: Dio è un’invenzione del credente; la fede deve essere relegata a fatto privato; l’etica deve essere pluralista e convenzionale; la Chiesa cattolica non dovrebbe proprio ‘mettere bocca’ su argomenti come il matrimonio omosessuale; e via dicendo. In un testo che pretende di fare della filosofia uno strumento per «evidenziare e denunciare le contraddizioni del mondo», non mancano purtroppo le banalità filosofiche (una per tutte: chi riconosce un ruolo pubblico a chiese e religioni obbedisce al nazista Heidegger, esoterico filosofo dell’invio dell’Essere). Viene allora spontaneo considerare quanto gli argomenti di Flores d’Arcais siano datati e distanti dal recente dialogo tra papa Francesco ed Eugenio Scalfari. La risposta di Paolo Flores d’Arcais Caro direttore, la ringrazio per il lusinghiero interesse verso il mio libriccino “La democrazia ha bisogno di Dio. Falso!” ed.Laterza. Naturalmente mi sarebbe piaciuto che accanto alle espressioni di fastidio (laicismo “scontato” e “stereotipato”) il suo editorialista avesse imbastito uno straccio di argomentazione, almeno contro una delle mie tesi. Ad esempio, contro quella centrale per cui “la fede deve essere relegata a fatto privato”. Tesi assurda? Io ho provato a dimostrarla così: la democrazia liberale non si riduce al voto, essenziale è il costante dia-logos tra tutti i cittadini, attraverso cui argomentare razionalmente e convincersi a vicenda. Su molte leggi ci si dividerà, ma “a ragion veduta”. Altrimenti la democrazia diventa “muscolare” e dalla mera conta dei voti si passa facilmente ad altri rapporti di forza. Ma in un dia-logos razionale io non posso sostenere una mia proposta di legge (ad esempio favorevole al suicidio assistito) “perché sì”. Non sarebbe argomentazione ma ukase. E lei, che immagino sia contrario al diritto all’eutanasia, non potrebbe cavarsela con un “perché così vuole Dio”, visto che la sua fede può essere un argomento solo per chi la condivide ma rispetto ad ogni cittadino miscredente o diversamente credente sarebbe mero “flatus vocis”. Se per essere tutti con-cittadini fra tutti noi ci deve essere dia-logos, l’argomento Dio e l’argomento “perché sì” non possono avere cittadinanza, sono entrambi dogmatici, sono l’opposto dell’argomentazione. Lei dovrà trovare argomentazioni puramente “terrene” per sostenere che l’assistenza al suicidio venga punita fino a 12 anni di carcere (questa la legge attuale). Cioè argomentazioni atee, da a-theos, Dio preceduto dall’alfa privativo. Nella vita pubblica il cittadino credente, poiché tenuto ad argomentare, deve lasciare Dio a casa. Aggiungevo: esattamente come accade allo scienziato credente (sono un’esigua minoranza ma ci sono) che lascia il suo Dio nel vestibolo del laboratorio, dove valgono ipotesi e controlli empirici tra i quali Dio onnipotente, anima immortale e altri articoli di fede non sono ammessi. Capisco che un dia-logos per argomenti razionali metta i credenti in difficoltà sulle questioni bioetiche “non negoziabili”. Come pretendere, ad esempio, che la mia vita non appartenga a me, e quindi non riconoscere il mio diritto a decidere liberamente sul mio fine vita, anche facendomi aiutare ad abbreviarlo, se ritengo che ormai sia per me solo tortura? Con argomenti puramente “terreni” è impossibile riuscirci, e tutti i cardinali che negli anni hanno discusso con me pubblicamente (Ratzinger, Scola, Herranz, Tettamanzi, Caffarra, Piovanelli …) hanno dovuto “arrampicarsi sugli specchi”. Solo se facciamo intervenire Dio, e la mia vita come Suo dono, la mia decisione può essere messa in discussione (ma un dono che non si può rifiutare è davvero un dono? Sembra più una condanna). Un confronto per argomenti, anziché per moti di stizza e manifestazioni umorali, mi piacerebbe anche su tutti gli altri temi toccati dal mio libriccino. O su uno precedente (“Gesù, l’invenzione del Dio cristiano”) dove avrei “rispolverato la vecchia teoria della divinizzazione mitologica”. Non c’è bisogno di rispolverare un bel niente, visto che tutti gli storici, ma proprio tutti, sostengono che la divinizzazione di Gesù avviene per tappe e progressivamente nel corso del secolo successivo alla sua morte, e che in vita Gesù è visto anche dai suoi discepoli solo come un autorevolissimo profeta ebraico itinerante (oltre ai maggiori studiosi anglosassoni ho utilizzato largamente anche i lavori di un grandissimo storico e biblista cattolico, Giuseppe Barbaglio). A me sembra in realtà che oggi la Chiesa abbia paura del confronto, o accetti il dialogo solo con atei di sua elezione. Lo conferma del resto il suo editoriale, che contrappone alla mia laicità “datata” e insopportabile quella evidentemente più gradita degli Agamben e degli Scalfari. Giovanni De Luna, da Repubblica, 22 ottobre 2013 IL DIBATTITO TRA FLORES D’ARCAIS E MANCUSO: L’IMPONDERABILE TIRATO PER LA GIACCHETTA Dio è il nome per lo sconfinato ignoto che pervade il mondo, per la pluralità non conoscibile che lo costituisce. Flores afferma questo Dio proprio in forza del suo ateismo, perché l’inconoscibile è per lui il caso, che solo dopo essersi prodotto potrà essere conosciuto. Sebbene da un’altra e opposta prospettiva teorica, anche Mancuso riconosce questo. Sedevo a Largo Argentina alzando e abbassando gli occhi da un libro che mi costringeva ad alzare e abbassare gli occhi: la disputa “senza diplomazia” fra Paolo Flores d’Arcais e Vito Mancuso Il caso o la speranza? Alzavo e abbassavo gli occhi perchè sollecitato da due opposte disposizioni della mente: la ragione e la maraviglia. Non venivo a Roma da tempo e tornavo a goderne la bellezza, l’irriducibilità a uno sguardo fermo, con lo stupore del credente al cospetto del creato. Ero, di fronte a Roma, un credente: un credente quia ad absurdum, ma pur sempre un credente. Uno che non comprende, ma ama, che non razionalizza, ma contempla. Il disordine della sollecitazioni era inebriante come quell’unicum incomparabile che è il gusto dell’insalata nizzarda. Sensazione analoga avevo provato poco prima alla libreria Feltrinelli. La gioia dell’avventore, assetato di libri, era la stessa del credente. A un barbaglio di riconoscimento – “Toh, quel volume l’ho letto” – si accompagnava la devastante maraviglia dell’ignoto. Tutta quella gente, le loro storie, tutti quei libri, le loro storie. Indubbiamente Dio è la risposta consolatoria all’enigma, alla pluralità degli enigmi – e quale consolazione! – eppure è anche nell’imponderabilità che quell’enigma esiste. Dio è bello, si dice nel Corano. Perché bello è lo sconfinato ignoto che pervade il mondo, a cui si attribuisce il nome di “creazione” proprio perché affascina dello stesso tipo di fascinazione delle opere create, libri compresi, individui (sconosciuti) compresi. Mi sono chiesto allora perché una disputa pro o contra le ragioni della fede e le ragioni della ragione. Perché o il caso o la speranza. Perché questo enten-eller. Perché non invece, alla Martini, il caso e la speranza. Perché non l’altalenio di una testa che scende e risale dal mondo alla sua comprensione, dalla folla di Largo Argentina alle pagine, dal “sappiamo tutto” al “non sappiamo niente” che, coniugato teologicamente, equivale al “sentiamo o crediamo tutto”. Ecumenista? Diplomatico? Niente affatto. Chi vi scrive è un ateo irriducibile, integerrimo, persuaso che se lo scientismo è anch’esso una fede, nondimeno è una fede che esclude dal suo orizzonte la possibilità di spiegare – per quanto non quella di sentire – il mondo per mezzo della spiritualità. Ed è proprio perché ha riconosciuto, una volta per tutte, alla Flores d’Arcais, la “superfluità” di Dio, che si sente di affermare che Dio esiste malgrado l’ateismo, che Dio si annuncia proprio laddove l’ateismo ne decreta l’inutilità. Che Dio, in altre parole, è la sua assenza, il mistero dell’Altro, le storie altrui e il loro ignoto. La pluralità dei mondi inesplorati: persino il “processo” (Mancuso) che caratterizza l’esistenza, pur senza credere che questo “processo” abbia un orizzonte di crescita o addirittura un carattere evoluzionistico positivo alla Hegel (Darwin non ha mai parlato di un evoluzionismo che mira al miglioramento). Mi veniva in mente, leggendo la disputa dell’Ateo e del Credente, il passaggio di Incontri con uomini straordinari in cui George Gurdjieff finiva “per arrivare alla ferma conclusione che esiste realmente qualcosa di cui gli uomini di una volta erano stati a conoscenza, ma che questa conoscenza oggi è completamente dimenticata”. E quell’altro passaggio in cui, rifendosi ai popoli asiatici, ricordava come “quelle tribù selvagge, in materia di medicina, di astrologia e di scienze naturali, hanno raggiunto già da molto tempo, senza sofisticazioni né spiegazioni ipotetiche, un grado di perfezionamento che forse la civiltà europea raggiungerà solo fra varie centinaia di anni”. Di fronte all’ignoto la mia maraviglia non trovava infatti altra migliore parola di quel generico e suggestivo qualcosa, lo stesso che Roberto Calasso, nel suo L’impronta dell’editore, individua nel “libro unico” che si staglia sull’uniformità degli altri: “Libro unico è quello dove subito si riconosce che all’autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto. Il libro per Bazlen era un risultato secondario, che presupponeva qualcos’altro. Occorreva che lo scrivente fosse stato attraversato da questo altro, che vi fosse vissuto dentro, che lo avesse assorbito nella fisiologia, eventualmente (ma non era obbligatorio) trasformandosi in stile”. Nel misurarmi con la quantità di passanti di cui non sapevo nulla, con il loro ignoto, sapevo che la “superfluità” di Dio non levava al loro mistero quel qualcosa che io non sapevo definire. E che rinunciare a Dio, ammetterne l’assenza, non pregiudicava la coincidenza fra Dio e ignoto. E pertanto, proprio in quanto entità absconditas, non potevo non accorgermi che Dio appartenesse al dominio della ragione. In questo modo il mio ateismo o l’ateismo in genere trovava il conforto di essere non già contro Dio ma, alla Giorello, senza Dio. E nel decretarne la superfluità o addirittura l’assenza, non per questo decretava l’assenza di quel qualcosa che a Dio tutto sommato si richiamava in quanto inconoscibilità. Se Dio è la sua inconoscibilità e, per derivazione, l’inconoscibilità eo ipso, allora Dio cessa di essere un concetto o un’entità estranea all’ateo, ma ne diventa per così dire il completamento. Tutto ciò che l’ateo, scientificamente – senza scorciatorie fideistiche – non è in grado di conoscere è il suo paradossale ma inalienabile patrimonio di inconoscibilità: lo stesso che “fra varie centinaia di anni” forse diventerà il suo sapere. E tanto è “superfluo” assegnare a tale universo di inconoscibilità il nome di “Dio” quanto un simile concetto di Dio diventa cogente come espressione dell’attesa e della speranza – per dirla alla Borgna – persino scientifiche. Diventa cioè persino passabile per le categorie di giudizio dell’ateo. Significa questo che siamo di fronte a un semplice equivoco terminologico? Che parlare di Dio e di assenza di Dio sono in definitiva atteggiamenti coincidenti? Mi guarderei bene dall’affermarlo. La disputa tra Flores d’Arcais e Mancuso è troppo seria perché si possa ricomporla nei termini di un equivoco. Tanto più se, come giustamente afferma Mancuso, “la base da cui nasce la religione” è la stessa “da cui si origina l’arte”, e nemmeno l’ateo più irriducibile si spingerebbe a ritenere l’arte il risultato esclusivo di un mero processo di apprendimento. Eppure, certamente, nell’accogliere la maraviglia di fronte al viavai dei passanti di Largo Argentina, non potevo non trovare il mio oscillare con la testa, dalle pagine al mondo, dal mondo alle pagine, dalla comprensione di un frammento di mondo al proliferare del suo ignoto, come esemplare di una possibile contiguità o addirittura indistricabilità fra fede e ateismo. Laddove la ragione mi suggeriva l’evidenza della superfluità di Dio, la stessa ragione mi imponeva di cogliere l’insufficienza della ragione. E laddove la propensione alla conoscenza mi convinceva dell’inutilità di procedere per “illusioni”, la stessa propensione alla conoscenza mi costringeva ad assegnare alla speranza il compito di richiamarla dall’ignoto al sapere. Dunque, in un certo senso, trovavo legittimato l’ateismo proprio nella misura in cui sottraeva argomenti a quel deus absconditus che pure ne costituiva, se mi si passa il gioco di parole, il deus ex machina. Trovo così Il caso la speranza? un libro decisivo soprattutto per questo: per ricondurre ogni possibile dibattito intorno ai diversi approcci al cosiddetto “mistero dell’universo” – gli stessi scienziati, ci ricorda Mancuso, divergono sul fatto se nella materia sia o non sia già presente la propensione verso la vita, cioè se la vita abbia oppure no un telos – al comune denominatore dell’insondabilità, almeno attuale, di tale mistero. Un’insondabilità che l’Ateo (Flores d’Arcais) riconduce al caso, e che nel riconoscere priva di ogni finalismo o “senso” assegna solo alla scienza il compito di cogliere (per quanto in parte, in attesa di “falsificazione”). E che il Credente (Mancuso) sottopone viceversa allo spericolato esercizio “morale” di subordinare a un disegno intelligente che la proietterebbe verso la scaturigine di un uomo orientato “naturalmente” (divinamente) al bene, allo spirito e alla giustizia. Ma che in entrambi i casi insondabilità resta, e al magistero dell’incognita risponde.Certo, da atei propendiamo per il rigore filosofico secondo cui, come dice Flores d’Arcais, “se il telos di cui tu parli era incluso del Big Bang, dobbiamo essere filosoficamente rigorosi: non c’è spazio per nessuna contingenza, poiché anche una sola avrebbe fatto deragliare il cosmo da quel telos”, ed è “chi nega la contingenza nella storia dell’evoluzione” che “deve poterlo dimostrare”. E analogamente sottoscriviamo che è solo “per contingenza, non per inderogabile necessità, che l’etica nazista non è diventata dominante in Europa: non stava scritto né nel Big Bang, né all’inizio della guerra, così come purtroppo non è affatto scritto che la democrazia sia destinata a vincere in futuro”. Eppure, come non scorgere un elemento di affinità in quello slittamento semantico che converte l’”ipostatizzazione” di Flores d’Arcais nel “rinvenimento” e nell’”emergentismo” di Mancuso? Come non riconoscere che in definitiva l’attribuzione di un “responsabile” (individuale, nel primo caso, divino, nel secondo) alla definizione di un’etica umana costituisce l’aspirazione di entrambi? “Tu chiami ipostatizzazione – nel senso di invenzione di qualche cosa che non c’è –“ scrive Mancuso “un principio che io chiamo rinvenimento, intuizione di una logica complessiva dentro la quale noi siamo, ci muoviamo ed esistiamo”. Il dibattito dunque non decide drasticamente per la ricusazione del principio di necessità a favore di quello di contingenza (tant’è vero che Mancuso li accoglie entrambi come determinanti dell’avventura umana, mentre Flores d’Arcais trancia con un “la necessità o è assoluta o non è”). Ma per proporre al lettore l’opportunità di compiere una libera scelta in favore dell’una o dell’altra prospettiva di osservazione, componendo così, oltre le divergenze, quello che rimane un identico anelito ad assegnare all’incognito un significato probante, in cui il termine “Dio” o il suo opposto, “assenza di Dio”, non hanno infine che un valore ipotetico, essendo la soluzione della diatriba, in fondo, nelle mani e nella mente del lettore. Naturalmente il libro è assai più dettagliato della sua mera natura dialettica. In esso si assommano citazioni e riferimenti che costituiscono un’ideale “biblioteca” filosofico-scientifica. E una simile bibliografia è, di nuovo, un perentorio invito a complicare il contraddittorio fra “senso” e “non senso”, fra necessità e contingenza, fra caso e speranza, di tutte le sfaccettature interpretative che filosofi e scienziati hanno dato alla questione dell’imponderabilità. Tuttavia resta il dato di fondo: la non dimostrabilità non decide della non esistenza. E se vogliamo forzare la mano alle nostre conclusioni diremmo: la non dimostrabilità non decide nemmeno che l’inesistenza sia un’assenza, o che tale assenza non sia semplicemente perché non è per la ragione raziocinante. Irrisolto tale dibattito lo è dunque solo nella misura in cui non risolve razionalmente l’irrisolvibile, cioè Dio. Tanto che a mò di chiosa ci sembra di poter sposare la frase di Mancuso secondo cui: “Quando mai una singola mente umana dallo spioncino più o meno largo della sua ragione potrà avere una visione oggettiva del mondo?”. Una domanda retorica che produce naturaliter una risposta altrettanto retorica: quando l’inconoscibile di oggi sarà il conosciuto di domani. Un domani, però, che appartiene analogamente alla speranza dell’Ateo come a quella del Credente, e che, probabilmente, non si presenterà mai. Da cui è verosimile sospettare che continueranno a esserci, e a dibattere tra loro, credenti e non credenti. di Marco Alloni (15 aprile 2014)
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